Magistratura democratica
Magistratura e società

La giustizia penale internazionale tra passato e futuro

di Daniele Archibugi
Co-autore, con Alice Pease, di “Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali”, Castelvecchi, 2017
A dicembre, dopo 25 anni di attività, ha chiuso i battenti il Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia. A luglio si celebrano i primi vent'anni della Corte penale internazionale. Che cosa è riuscita finora ad ottenere la nuova giustizia penale internazionale? È effettivamente riuscita ad evitare di essere la giustizia dei vincitori? E, soprattutto, quali sono le prospettive per renderla uno strumento a difesa dei diritti umani? Questi i temi affrontati nel libro di Archibugi e Pease, brevemente esposti in questa nota.
La giustizia penale internazionale tra passato e futuro

Dopo un quarto di secolo di attività, alla fine del 2017 il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (TPIJ) ha chiuso i battenti. È stato il primo tribunale penale internazionale a essere istituito dopo le esperienze di Norimberga e di Tokyo, ed è quello che ha riaperto la speranza che chi si macchiava di crimini internazionali potesse essere perseguito anche al di fuori del proprio Stato.

Non sorprende, dunque, che su questo esperimento si siano rivolti gli sguardi di chi ha a cuore la difesa dei diritti umani. Tale speranza ha fatto proseliti se, in solo due decenni, sono stati istituiti altri tribunali ad hoc (pensiamo a quello analogo per il Ruanda, oppure ai tribunali ibridi per la Sierra Leone, per la Cambogia e per Timor Est) e, soprattutto, ha preso vita la Corte penale internazionale.

I dati snocciolati dal TPIJ testimoniano un parziale successo: tutti i 162 incriminati sono stati raggiunti, 90 sono stati condannati, 19 sono stati assolti, gli altri trasferiti a tribunali nazionali, oppure il procedimento è stato sospeso. Chi ha cuore la costruzione di un emergente diritto internazionale penale, ha notato come il Tribunale abbia notevolmente sviluppato le norme e generato importanti precedenti.

L’opinione pubblica mondiale forse si rammenterà i processi contro due dei feroci mandanti esecutori della strage di Srebrenica, Radovan Karadžić e Ratko Mladić, entrambi condannati a pene esemplari (rispettivamente 40 anni di reclusione ed ergastolo in primo grado). E si ricorderà di Slobodan Milošević, trovato misteriosamente morto subito prima che i giudici pronunciassero la sentenza. Tuttavia, nella mente dei più, il Tribunale per l’ex Jugoslavia sarà ricordato per l’atto estremo di Slobodan Praljak, un imputato croato con un ruolo secondario nel corso della guerra. Quando si è suicidato ingerendo di fronte ai suoi giudici un bicchierino di cianuro, è improvvisamente diventato l’imputato più celebre. Si è trattato di un evento drammatico che è improvvisamente diventato uno dei video più visti nel “Grande Dio Web”. Il suicidio in diretta ha finito per colpire l’immaginazione anche di quanti non avevano alcuna idea di che cosa fosse stata la guerra civile jugoslava.

Prima della dissoluzione della Jugoslavia, Praljak era un cittadino industrioso e poliedrico. Aveva studiato ingegneria elettrica all’Università di Zagabria, ma la sua curiosità intellettuale lo aveva portato a studiare anche filosofia e sociologia. E, soprattutto, a dedicarsi con alterne fortune al mondo dello spettacolo. Aveva diretto teatri a Zagabria e a Mostar, aveva fatto il regista per spettacoli televisivi, documentari e addirittura un film. Nella sua vita privata, in linea con la politica di integrazione della Jugoslavia comunista in cui regnava Tito, si era perfino unito in matrimonio con una donna nominalmente di etnia musulmana. Con l’inizio delle ostilità, Praljak decise di arruolarsi volontario, fino al punto da diventare un comandante di una singolare unità para-militare composta da intellettuali, artisti e musicisti.

Con il suo macabro brindisi, Slobodan Praljak è diventato l’imputato più celebre non grazie al suo potere (Slobodan Milošević e Radovan Karadžić quali capi di stato ne avevano infinitamente di più), e neppure per l’efferatezza dei suoi crimini (Ratko Mladić, presente a Srebrenica nel momento del genocidio, ha sulla coscienza un numero di assassinii assai superiore). Ma con un senso drammatico autenticamente shakespeariano, Praljak ha mostrato che ciò che si discuteva nel Tribunale andava ben al di là di un semplice processo. Se poi si rammenta che Praljak aveva già scontato molti dei venti anni di prigione che gli erano stati somministrati, si capisce che il suo gesto non è stato strumentale. Hermann Göring si avvelenò a Norimberga il giorno prima di essere impiccato; Praljak poco prima di essere scarcerato.

Il suo gesto mostra che la giustizia penale non può riparare i danni inflitti da una atroce guerra civile perché nella ex Jugoslavia la distinzione tra vincitori e vinti, tra carnefici e vittime, è veramente ardua. Se il suicidio di Praljak è destinato a diventare l’emblema finale di un quarto di secolo di duro lavoro svolto da inquirenti e magistrati, viene da chiedersi se la giustizia penale internazionale abbia effettivamente conseguito i suoi obiettivi.

Il futuro appartiene alla Corte penale internazionale (CPI): destinata ad essere istituzione permanente e ad indagare potenzialmente sui crimini commessi almeno in tutti i paesi aderenti, il suo raggio d’azione è assai più ampio di quello del TPIJ. Nel 2018 si celebrerà il ventennale da quando è stato firmato, nel Campidoglio a Roma, il suo Trattato istitutivo. Che cosa c’è da celebrare? Da una parte, il fatto stesso che la Corte sia diventata operativa solamente quattro anni dopo la firma del Trattato è stato un inaspettato successo. Allo stato attuale, la Corte ha un edificio, ha i giudici, svolge indagini. E, soprattutto, è la dimostrazione del fatto che un numero estremamente elevato di stati, ben 123, hanno accettato di sottostare – almeno formalmente – alla sua giurisdizione per quanto riguarda i crimini internazionali.

Eppure, alla CPI manca una cosa fondamentale per qualsiasi tribunale: gli imputati. In quindici anni di attività, sono state incriminate poche decine di persone (assai meno di quelle incriminate dai tribunali ad hoc per la ex Jugoslavia e il Ruanda, che indagavano su un solo Paese e su un arco di tempo limitato). Se confrontiamo questo dato con il numero impressionante di crimini commessi nel mondo, e che sono destinati a rimanere impuniti, si rimane sconcertati.

Non solo, ma quando la Corte ha messo le mani su imputati di una certa importanza, come nel caso del presidente sudanese Al-Bashir, gli stessi Stati membri non hanno cooperato per estradare l’imputato. Tanto che le incriminazioni non hanno avuto alcun esito politico, e Al-Bashir mantiene più saldo che mai il controllo sul suo Paese. Quando nel 2009 ricevette la prima incriminazione, Al-Bashir disse, sprezzante, che non valeva l’inchiostro con cui è stata scritta. E i fatti hanno dimostrato che aveva ragione. Finora, la Corte è stata una scatola vuota, operativa solamente quando non si avvicinava troppo agli interessi degli stati più potenti. È giustificato, allora, un bilancio annuale di circa 120 milioni di euro e l’impiego di circa 800 dipendenti?

C’è una crescente letteratura giuridica che analizza nel dettaglio gli statuti e le norme di diritto internazionale e mostra, spesso a ragione, che si tratta di un precedente importante che ha bisogno di tempo per consolidarsi. Ma tutto ciò rischia di essere un discorso tecnico, quasi un virtuosismo, per i giuristi. Occorre invece chiedersi di cosa hanno bisogno le vittime e i cittadini e se possano aspettare ancora prima che la CPI tiri fuori gli artigli per difendere gli indifesi.

In alcuni casi, gli stati membri (e finanziatori) della CPI hanno usato il loro potere per bloccare indagini e incriminazioni imbarazzanti. In altri, l’Ufficio del Procuratore è stato fin troppo cauto, e ha evitato di mettersi nei guai con procedimenti per cui non aveva copertura politica. E quando ci ha provato, si è trovato abbandonato dagli Stati membri (come nel caso di Al-Bashir), oppure ha dovuto fare una precipitosa marcia indietro (come nel caso del presidente keniota Kenyatta).

Dobbiamo allora abbandonare l’idea stessa di rendicontabilità, anche penale, per quanti commettono crimini internazionali? Alice Pease ed io riteniamo, al contrario, che la stabilità politica, specie in parti del mondo che hanno assistito a violazioni sistematiche dei diritti umani, non possa essere assicurata senza un processo di verità e riconciliazione. E lo strumento giudiziario è estremamente utile per:

a) rendere noti i fatti, spesso occultati da chi compie crimini o manipolati dai professionisti della disinformazione;

b) contribuire a creare le condizioni per la riconciliazione;

c) eliminare dalla scena politica e, ove possibile, anche condannare i responsabili di crimini atroci.

Il problema è che, finora, la giustizia penale internazionale è stata nelle mani dei governi stessi. Sono loro che stanziano i finanziamenti per i tribunali internazionali, nominano i giudici e addirittura mettono a disposizione le prigioni per i (pochi) condannati. Che cosa si può fare per far sì che la giustizia penale internazionale svolga la sua funzione ideale, ossia controllare gli abusi dei governi, piuttosto che essere uno strumento dei governi per regolare i conti tra loro?

Prima di tutto, le organizzazioni della società civile hanno la possibilità di raccogliere dati e informazioni su casi riguardo ai quali la CPI non è desiderosa di indagare. Ad esempio, una organizzazione non-governativa di avvocati ha prodotto prove sui crimini di guerra commessi dai soldati inglesi durante l’invasione dell’Iraq del 2004. Quando le nuove prove sono state consegnate alla CPI, l’Ufficio del Procuratore della CPI ha avviato una indagine, che era già stata frettolosamente archiviata alcuni anni prima. In questi casi, la pressione esterna può riuscire a far svolgere alla CPI la sua funzione istitutiva.

In secondo luogo, l’opinione pubblica può avere un ruolo nella selezione dei giudici. I giudici sono nominati dall’Assemblea degli Stati della CPI, sulla base di una analisi dei propri profili giuridici. Molte considerazioni sono svolte nella selezione (ruolo degli stati che contribuiscono maggiormente ai finanziamenti, copertura geografica, rappresentatività delle culture giuridiche, equilibrio di genere, etc.). Ma le organizzazioni non governative, dalla Coalition for the International Criminal Court ad Amnesty International, svolgono anche un ruolo specifico nel commentare i profili dei candidati, con la speranza che siano nominati giudici che abbiano dimostrato indipendenza di giudizio, capacità di resistere alle pressioni del potere politico e coraggio investigativo.

In terzo luogo, le azioni della CPI sono complementari a quelle svolte dai Tribunali d’opinione. I Tribunali d’opinione non possono imporre sanzioni, ma possono svolgere indagini e denunciare determinati abusi. Il World Tribunal on Iraq, istituito da diverse organizzazioni non governative, ha avuto una vasta eco, soprattutto perché gli organi della giustizia internazionale (inclusa la Corte di giustizia internazionale) erano paralizzati a causa del potere esercitato dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna.  Il World Tribunal on Iraq ha invece potuto istruire un processo d’opinione che ha portato alla condanna dei crimini di guerra e del crimine della guerra. Una condanna solo simbolica, ovviamente, ma comunque meglio di niente. Il Tribunale permanente dei popoli, attivo presso la Fondazione Basso, ha da quarant’anni istruito Tribunali d’opinione su molti temi della politica mondiale e ha recentemente indagato e condannato sulle violazioni dei diritti delle persone migranti e rifugiate. C’è solo da sperare che anche la CPI e gli altri organi delle Nazioni unite riprendano il tema, utilizzando i ben più consistenti mezzi a loro disposizione.

In quarto luogo, la CPI non ha esautorato la possibilità di agire tramite giurisdizione universale esercitata dalle magistrature nazionali. La cosiddetta “Internazionale dei giudici” può svolgere un ruolo molto utile nel richiamare l’attenzione su crimini particolarmente gravi, e in alcuni casi addirittura trasferire determinati procedimenti alla CPI.

Se si lascia la CPI dentro la sola logica inter-governativa, la Corte rischia di diventare un carrozzone compiacente e inutile, che non renderà certamente onore alla vecchia e mai sopita speranza di indipendenza del potere giudiziario. Ma se, invece, la CPI si troverà addosso gli occhi dell’opinione pubblica, e avrà il coraggio di indagare anche sulle situazioni politicamente scomode, incriminando delinquenti anche se godono di protezioni altolocate, potrà diventare un effettivo dispositivo per la protezione dei diritti umani.

* Il volume sarà presentato da Giancarlo De Cataldo, Tommaso Edoardo Frosini, Franco Ippolito, Giulio Marcon e Angela Taraborrelli giovedì 1 febbraio 2018 (h. 17.30) presso la Biblioteca del Senato (Piazza della Minerva, Roma).

27/01/2018
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