Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

La legge n. 161/2017 e le sue modifiche al d.lgs n. 159/2011 in tema di applicazione di misure di prevenzioni patrimoniali agli indiziati di reati contro la Pubblica amministrazione. Un invito alla magistratura: adelante con juicio

di Paola Perrone
già Presidente di Sezione della Corte d'appello di Torino
Riflessioni sulla costituzionalità e sulla compatibilità con la normativa europea delle modifiche apportate al cd. Testo unico antimafia

La legge n. 161/2017 ha modificato alcune parti del cd. Testo unico antimafia (d.lgs n. 159, 6 settembre 2011), in particolare allargando la platea dei destinatari delle misure patrimoniali agli indiziati di vari reati contro la Pubblica amministrazione.

Più precisamente, all’art. 1 che definisce i nuovi soggetti destinatari delle misure personali (e anche patrimoniali, giusto il richiamo contenuto nell’art. 16 del d.lgs n. 159/2011 ai suoi artt. 4 e 1) la legge ha aggiunto la lettera d) che così recita:

«i soggetti indiziati del delitto… di cui all’art. 416 del codice penale, finalizzato alla commissione di taluno dei delitti di cui agli artt. 314 primo comma [peculato non momentaneo], 316 [peculato mediante profitto dell’errore altrui], 316-bis [malversazione a danno dello Stato], 316-ter [indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato], 317 [concussione], 318 [corruzione per l’esercizio della funzione], 319 [corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio], 319-ter [corruzione in atti giudiziari], 319-quater [induzione indebita a dare o promettere utilità], 320 [corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio], 321 [punibilità del corruttore], 322 [istigazione alla corruzione], e 322-bis [estensione dello status di pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio a tutti i soggetti operanti nelle istituzioni UE e Corte penale internazionale]».

Le misure patrimoniali di cui si parla, che sono preesistenti alla riforma e che da oggi si applicheranno anche ai nuovi destinatari, sono:

  • in via cautelare il sequestro (art. 20, d.lgs n. 159/2011 così come oggi riformato dall’art. 5.4 della legge n. 161/2017) dei beni dei quali la persona nei cui confronti è stata presentata la proposta risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, quando il loro valore risulti sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si abbia motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego; il sequestro non può avere durata superiore ad un anno e sei mesi, ma può durare fino a due anni in caso di indagini complesse e compendi patrimoniali rilevanti (art. 24 riformato). Il tribunale può anche applicare, in alternativa al sequestro di cui non sussistano i presupposti, l’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche e delle aziende (art. 34 riformato) quando, «a seguito delle indagini patrimoniali sul tenore di vita, sulle disponibilità finanziarie, sul patrimonio e sulle fonti di reddito del proposto, del coniuge, dei figli e dei conviventi nei 5 anni, ovvero a seguito degli accertamenti per verificare i pericoli di commissione di reati contro la Pubblica amministrazione, sussistano sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle di carattere imprenditoriale, possa agevolare l’attività di persone nei confronti delle quali è stata proposta una delle misure di prevenzione»; per la gestione dei beni sottoposti ad amministrazione giudiziaria è prevista specifica disciplina (nuovi artt. 34-bis, 35) che fra l’altro prevede una durata massima dell’amministrazione in anni tre e facoltà dell’interessato di richiederne la revoca; il procedimento di prevenzione diventa prioritario rispetto ai procedimenti penali, nel senso che esso andrà fissato con celerità e trattato da sezioni specializzate;
  • in via decisoria, la confisca (art. 24 riformato) dei beni di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla loro attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. In ogni caso il proposto non potrà giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego di evasione fiscale.

L’aver ricompreso nei nuovi destinatari anche i corruttori (art. 321 cp) e aver previsto che si possano sottoporre ad amministrazione giudiziale anche i soggetti non indiziati di reati contro la Pubblica amministrazione quando risulti che il libero esercizio da parte loro delle attività economiche possa agevolare l’attività di persone nei confronti delle quali è stata proposta la misura di prevenzione hanno fatto ben comprendere come la riforma si svincoli ormai completamente dall’etichetta antimafia data al testo unico e finisca per aggredire anche il diverso settore dei reati contro la Pa.

In tale settore si ritrovano non solo i pubblici ufficiali infedeli ma anche i privati che li risultino agevolare, con la loro attività imprenditoriale.

Il coacervo di tali disposizioni ha impensierito molto i primi interpreti della riforma, quando ancora essa era in fase di approvazione in parlamento facendo gridare, con ampia eco su vari organi d’informazione, alla vera aggressione indiscriminata e antigarantista ai patrimoni imprenditoriali con seri rischi di ricaduta sull’intera economia del Paese.

L’Unione delle Camere penali [1] ha fatto proprio il severo giudizio subito espresso dal prof. Giovanni Fiandaca, che aveva criticato la confisca di prevenzione: essa era stata introdotta nel 1982 per colpire gli indiziati di appartenenza alla criminalità organizzata di stampo mafioso «sulla base di una ragionevole presunzione di pericolosità avvalorata da un presupposto di carattere storico, empirico e criminologico, secondo cui le consorterie accumulano patrimoni grazie ad attività illecite ripetute e protratte nel tempo»; ed ora veniva dilatata senza alcuna logica a chi era «sospettato di aver magari commesso un solo episodio di corruzione» o la cui condotta illecita si fosse arrestata alla soglia della mera promessa di denaro, e senza che fosse dimostrato, come era richiesto nel sistema vigente prima della recente riforma, un atteggiamento professionale del soggetto proposto o la abituale dedizione di lui a compiere reati di quella natura, dai quali venissero ricavati proventi con i quali vivere, almeno in parte.

Il presidente della Confindustria, Vincenzo Boccia [2]ha manifestato l’umiliazione della categoria nell’essere stata parificata ai delinquenti, e ha sottolineato che l’attività economica si nutre di affidabilità del soggetto gestore, sicché il danno d’immagine nascente dall’essere sottoposti a procedimento di prevenzione è in grado di danneggiare irreversibilmente le sorti dell’impresa, indipendentemente dall’esito del procedimento, che può comunque durare anni.

Lo stesso presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, aveva espresso [3] un parere sostanzialmente negativo sulla riforma in gestazione, giudicata «non utile, inopportuna ed anzi potenzialmente dannosa»: non utile in quanto, per contrastare il connubio fra mafia e corruzione, era già sufficiente applicare il testo unico vigente; non utile nemmeno nei confronti di corrotti e corruttori abituali, dei quali il testo unico previgente già aggrediva i patrimoni; rischiosa in quanto, estendendo a dismisura le misure di prevenzione a reati diffusi, «finiva per infrangere il presupposto di eccezionalità che aveva permesso alla Corte Costituzionale di ritenere fino ad oggi la normativa in questione costituzionale e non violativa di convenzioni internazionali, col conseguente rischio oggi di veder cancellare l’intero testo unico per incostituzionalità».

Illustri studiosi e costituzionalisti hanno criticato la riforma ritenuta illegittima per il basso livello probatorio che diventerebbe oggi sufficiente per applicare misure molto afflittive e per la perdita di qualunque ragionevole proporzionalità rispetto ai fatti di reato ipotizzati.

Così, il presidente emerito della Corte costituzionale ed ex Ministro della giustizia Giovanni Maria Flick [4], pur senza avanzare critiche di incostituzionalità della riforma, ha stigmatizzato l’avvenuta equiparazione fra corruzione e delitti di criminalità organizzata, reati che invece a suo giudizio si distinguono nettamente per il fatto che per commettere i primi non si usa violenza, mentre questa caratterizza essenzialmente la mafia. E ha messo in guardia circa il rischio che la riforma entri in conflitto con la giurisprudenza della Cedu che fino ad ora ha tollerato e giustificato il sistema italiano di prevenzione solo con riferimento ai reati di criminalità organizzata.

Il prof. Sabino Cassese [5], già giudice della Corte costituzionale, ha ritenuto senza mezzi termini la riforma «palesemente anticostituzionale»: il parlamento aveva perso il senso delle proporzioni parificando i reati contro la Pa a delitti come il terrorismo internazionale, perdendo di vista la loro enorme differenza sul piano del pericolo sociale. La conseguenza più grave della riforma non stava tanto nel pericolo di possibili abusi quanto nella «grave violazione dello Stato di diritto».

Il prof. Valerio Onida, già presidente della Corte costituzionale, ha da parte sua detto [6] che l’applicazione di una «pena anticipata senza prove è la negazione della certezza del diritto». Ha dichiarato di vedere rischi di incostituzionalità perché l’invocazione dell’emergenza non può giustificare misure contrarie alla Costituzione.

L’on. Luciano Violante, già presidente della Commissione antimafia, audito in sede parlamentare nel corso dell’iter di approvazione della riforma, ha dichiarato che l’estensione dei sequestri preventivi agli indagati per reati contro la Pubblica amministrazione era frutto di un’illusione repressiva.

Il prof. Giovanni Verde, già vice-presidente del Csm, ha rivendicato il ruolo di cassandra nel criticare la riforma quando era in gestazione e ha parlato [7] di «pericoloso slittamento del governo democratico del popolo verso un governo dei giudici», con «perdita del valore della centralità del giusto processo», divenuto marginale, e con un legislatore che ormai si affidava a scorciatoie lesive delle garanzie di una civiltà evoluta.

Unica voce istituzionale che si è espressa positivamente sulla riforma (al di fuori del Parlamento e del Governo, ove il Ministro Andrea Orlando l’ha invece fortemente voluta) è stata quella del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti che ha espresso la sua soddisfazione [8] perché il testo di legge aveva accolto il suo suggerimento di inserire fra i nuovi destinatari non già gli indiziati di reati contro la Pa ma solo quelli indiziati di appartenere ad un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati contro la Pubblica amministrazione: era questo un punto di mediazione accettabile fra le confliggenti esigenze di colpire il grave fenomeno della corruzione e di evitare misure esageratamente afflittive rispetto a comportamenti illeciti isolati, come tali non indicativi di reale pericolosità sociale del proposto.

Il contenuto delle critiche e l’autorevolezza di chi le aveva espresse hanno finito per incidere sugli stessi lavori del Parlamento, che pure la riforma ha varato.

Infatti, il 27 settembre scorso la Camera dei deputati ha approvato un ordine del giorno che impegna il Governo a «monitorare e verificare le prassi applicative della legge, per quanto riguarda i destinatari delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, con particolare riferimento agli indiziati di reato di associazione a delinquere finalizzata ai reati contro la Pa, con lo scopo di valutare l’impatto e l’efficacia delle nuove norme, anche ai fini di eventuali modifiche che si rendano necessarie, nonché, per quanto riguarda l’efficacia e la coerenza dell’applicazione dell’intera riforma, in particolare con riferimento al funzionamento dei nuovi istituti, al fine di garantire che la tutela della legalità e l’efficienza del sistema delle misure di prevenzione si realizzi nel pieno rispetto delle garanzie dei diritti dei cittadini e delle imprese».

La materia è dunque incandescente e lo stesso legislatore è apparso alquanto incerto e dubbioso sulle possibili conseguenze della riforma che pure ha varato, tanto da incaricare il Governo di verificare la concreta applicazione che la magistratura ne farà. Davvero un esempio emblematico di come lo stesso Parlamento abbia ormai abdicato alla sua funzione di dettare delle regole chiare attraverso le leggi e rinvii piuttosto, per modulare la propria funzione legislativa, alla interpretazione e applicazione prudenziale che di quelle leggi farà la magistratura.

Il Presidente della Repubblica, nel promulgare la legge, ha inviato al premier Gentiloni una missiva che ha sottolineato una criticità di una parte della riforma che qui non ci occupa. Ciò non di meno, il Presidente ha in qualche maniera fatto proprio l’ordine del giorno della Camera scrivendo: «Proprio l’estensione degli interventi effettuati e gli aspetti di novità che alcune delle norme introdotte presentano rendono di certo opportuno che, particolarmente con riferimento all’ambito applicativo delle misure di prevenzione, il Governo proceda ad un attento monitoraggio degli effetti applicativi della disciplina, come è stato previsto dall’ordine del giorno approvato dalla Camera dei deputati nella seduta del 27 settembre 2017».

Invece, il Presidente del Senato Pietro Grasso, già capo della Direzione nazionale antimafia, ha avvertito [9] l’anomalia di una riforma varata insieme ad un ordine del giorno che già prelude ad una sua modifica, osservando che un «decreto che cambia la legge dopo tre settimane sarebbe un segnale assolutamente negativo, un boomerang nei confronti di forze politiche che hanno approvato la norma».

***

In questo clima di allarme per la supposta portata dirompente della riforma, potrà forse essere utile una qualche osservazione da parte di chi ha applicato le misure di prevenzione ancor prima che venisse varato quel cd. “codice antimafia” che oggi è stato riformato.

Conviene partire dall’argomento più radicale, che viene sottolineato da parte di chi ritiene messo in pericolo lo stesso Stato di diritto: la riforma richiederebbe ora per confiscare interi patrimoni imprenditoriali semplici indizi se non meri sospetti, ritenuti estranei nella loro impalpabilità probatoria al giusto processo costituzionale e piuttosto derivati dall’apparato repressivo fascista.

Chi rivolge queste critiche dimentica che il livello probatorio oggi necessario per applicare misure di prevenzione personale e/o patrimoniale si è di molto evoluto rispetto al paradigma di origine fascista. Basteranno pochi cenni per darne conto: con sentenza n. 177/1980 la Corte costituzionale cancellò dai destinatari delle misure quei soggetti ritenuti proclivi a delinquere individuati dallo Stato fascista proprio in ragione della difficoltà dimostrativa di questi scarni e generici presupposti personologici; con sentenza n. 23/1964 la stessa Corte Costituzionale aveva già messo sull’avviso i magistrati, indicando che il fondamento delle misure di prevenzione non poteva essere costituito da semplici sospetti ma richiedeva invece una oggettiva valutazione di fatti. La Corte di cassazione ha fatto pienamente proprio e ha stabilizzato quest’orientamento arrivando a dire (vds. ad esempio Sez. I Penale dell’11 febbraio 2014, ric. Mondini) che nel campo dell’applicazione delle misure di prevenzione è del tutto abbandonata la logica probatoria presuntiva.

Dal canto suo, il Legislatore del d.lgs n. 159/11 ha ancorato (art. 1) le categorie destinatarie delle misure decise dal questore a soggetti che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; ovvero che per la loro condotta ed il tenore di vita, debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente con i proventi di attività delittuose; ovvero ancora che per il loro comportamento debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica. Tali categorie vengono affiancate ad altre quando si tratti di misure decise dall’A.G. (art. 4); ma anche qui i richiami alla concretezza degli elementi fattuali da cui dedurre i presupposti per l’applicazione delle misure sono cogenti: ad esempio, gli atti preparatori atti a sovvertire l’ordinamento dello Stato ovvero a ricostituire il partito fascista devono essere obiettivamente rilevanti. Ma, ancor, prima, per disporre il sequestro, sono necessari sufficienti indizi, per poter ritenere che i beni appresi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.

Come si vede, un apparato normativo e giurisprudenziale che non può più confondersi con l’arbitrio imperante sotto il regime fascista.

Quanto al rischio che la riforma sia palesemente incostituzionale, è noto come la nostra Costituzione non detti alcun principio in tema di misure di prevenzione, sicché la verifica va spostata dal terreno diretto a quello indiretto, controllando che le nostre norme nazionali non violino ex art. 117 Cost. i trattati internazionali, in primis la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, azionabile innanzi alla Cedu.

Due sembrano qui i profili di diretto interesse.

È noto che, con decisione depositata il 23 febbraio 2017 (De Tommaso c. Italia), la Cedu ha ritenuto la legislazione in tema di misure di prevenzione italiana violativa della libertà di circolazione (art. 2 Prot. Conv. [10]), tanto che vari giudici italiani hanno sospeso i loro procedimenti investendo della questione la nostra Corte costituzionale. Il profilo accolto dalla Cedu riguardava l’applicazione di una misura di prevenzione personale (sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno) a chi si era visto contestare la cd. “pericolosità generica” [prevista dall’art. 1, nn. 1 e 2 legge n. 1423/1956 poi trasfuso nell’art. 1 lett. a) e b) del d.lgs n. 159/2011] consistente nell’ essere dediti a traffici illeciti ovvero nel vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose. La Corte di Strasburgo ha ritenuto le due categorie alquanto generiche e imprecise, tanto da vanificare qualunque prevedibilità dell’applicazione delle misure di prevenzione da parte del cittadino. Da qui la sua censura.

Subito gli interpreti della decisione hanno colto come essa potesse riguardare anche le misure di prevenzione patrimoniali (per il richiamo contenuto nell’art. 16 del d.lgs n. 159/211 ai suoi artt. 4 e 1), sicché oggi la questione potrebbe essere richiamata anche dai detrattori della riforma dettata dall’art. 1 della l. n. 161/2017.

Senonché pare proprio che l’argomento non sia appropriato: nell’aggiungere all’elenco dei destinatari delle misure anche gli indiziati di associazione per delinquere finalizzata alla realizzazione di una serie di reati contro la Pa, il Legislatore ha anzi fatto proprie le censure della Cedu delineando con precisione le condotte di reato rilevanti, rendendo dunque piena nei consociati la prevedibilità dell’applicazione delle relative misure.

Altro argomento convenzionale che viene utilizzato dai critici della riforma è poi, come si è visto, quello che si rifà a pronunce della Cedu che avrebbero limitato la legittimità del sistema di prevenzione italiano ai soli reati di mafia, e ciò solo per la straordinaria gravità dei rischi istituzionali e democratici che essi comportano.

Se però si vanno a rileggere con attenzione alcune delle sentenze di Strasburgo, ci si accorge che la novella è invece pienamente rispettosa delle indicazioni venute dalla Cedu.

In due casi (17 giugno 2014, ric. C. e S. c. Italia; 5 gennaio 2010, ric. B. c. Italia) il ricorrente si era visto confiscare il patrimonio in quanto indagato di far parte di un’associazione per delinquere al fine di commettere reati di contrabbando di tabacchi e lamentava la violazione dell’art. 1 del Protocollo 1 della Convenzione che recita: «Ogni persona fisica o giuridica ha il diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale». La Corte respingeva il ricorso, osservando che lo stesso art. 1 del Protocollo 1 «faceva salvo il diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da esse ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende», sicché compito della Corte rimaneva quello di verificare se l’ingerenza dello Stato nel patrimonio dei ricorrenti «fosse o meno proporzionata allo scopo generale legittimamente perseguito». Osservava al proposito che il legislatore nazionale doveva godere di un’ampia libertà politica per pronunciarsi sia sull’esistenza di un problema di interesse pubblico sia sulla scelta delle modalità di applicazione della regolamentazione rivolta a risolverlo. E aggiungeva che, «vista la diffusione e gravità della criminalità organizzata in Italia, che metteva a rischio la stessa supremazia del diritto, doveva essere riconosciuto allo Stato italiano piena libertà nell’individuare mezzi atti a contrastare tali fenomeni criminali, fra cui appunto la confisca di prevenzione».

In definitiva, la Cedu ha riconosciuto la piena libertà dello Stato di legiferare in materia di confisca nell’ambito della propria politica criminale, quando i fenomeni che intende contrastare rientrino nella dizione di criminalità organizzata e non solo di mafia.

Ebbene, come si è mosso il Legislatore della riforma qui esaminata? Ha aggiunto ai precedenti destinatari delle misure gli indagati di appartenere ad un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di vari reati contro la Pa, cioè indagati di criminalità organizzata.

Sembra dunque che il terreno di una possibile critica alla riforma vada spostato da quello di una sua illegittimità costituzionale diretta o convenzionale a quello della sua legittimità politica interna.

Il che equivale a dire che bisogna interrogarsi sulla effettiva portata della gravità del fenomeno corruttivo organizzato in Italia.

Quanto è grave un delitto di associazione per delinquere finalizzato a commettere reati contro la Pa? È davvero un reato bagatellare, tanto da non resistere al confronto con i reati di mafia, di terrorismo, e con tutti gli altri reati per i quali, prima della riforma, il codice antimafia già prevedeva sequestro e confisca?

Pare proprio di no. La diffusività e gravità dei fenomeni corruttivi in Italia sono fin troppo note per dover essere ricordate: tali fenomeni permeano la società e minano la correttezza dei rapporti fra cittadino e poteri pubblici; diffondono una generale sfiducia del cittadino circa l’imparzialità dell’esercizio del potere pubblico; alterano la libera concorrenza fra imprese che agiscono legalmente ed illegalmente; costituiscono una zavorra economica che non solo fa lievitare gli importi degli appalti pubblici e appesantisce le casse dello Stato, ma allontana per sfiducia gli investitori stranieri [11].

Se poi si va a confrontare questa indiscussa gravità con la serie di altri reati per i quali il previgente codice antimafia e l’attuale riforma prevedono (senza che nessuno gridi allo scandalo) sequestro e confisca, davvero la sproporzione denunciata svanisce del tutto: questi reati sono anche riciclaggio (reato la cui gravità è riflessa da quella del reato presupposto, che può essere anche un banale furto), violenza sportiva e – oggi, con la riforma – atti persecutori; reati indubbiamente anche gravi ma che certamente non minano come la corruzione l’intero tessuto sociale ed economico del Paese.

Semmai il discorso critico va riportato sul terreno spinoso della durata del procedimento segnalato dalla Confindustria; ma, anche qui, bisogna registrare che la riforma ha cercato semmai di diminuire i tempi, etichettando i procedimenti di prevenzione come prioritari e istituendo sezioni specializzate. Sicché lo scandalo della lunghezza dei tempi della giustizia rimane un tema immanente nel nostro sistema, certo però non attribuibile alla riforma.

Ed infine, sia lecito avanzare altre critiche alla riforma e al previgente codice antimafia: poiché le misure di prevenzione tendono per natura a disarticolare la commissione di reati ritenuti gravi, si sono previsti sequestro e confisca quando il permanere nelle mani dei proposti di beni e patrimoni possa alimentare il riavvio di quei reati. Il che significa che deve esistere un qualche nesso fra quei beni e patrimoni e la commissione dei reati, nesso che può essere ricollegato al movente economico alla base del reato previsto oppure alla strumentalità delle ricchezze al fine di commettere tali reati.

Questo nesso è palesemente inesistente nei reati di violenza sportiva (già ricompreso nel cd “codice antimafia”) e nel nuovo reato di atti persecutori. Eppure, nessuno ha gridato allo scandalo quando questi reati sono stati inseriti fra quelli passibili di sequestro e confisca.

È qui e non nella previsione dei reati contro la Pa che è dato cogliere lo sbandamento del potere legislativo nell’adoperare ormai le misure di prevenzione non come strumento atto a prevenire reati ma come sanzione penale a procedimento semplificato rispetto a fenomeni ritenuti, per contingenza politica, di forte impatto sociale.

 


[1] Comunicato della Giunta, 30 settembre 2017.

[2] Intervista a Il Sole 24 ore, 29 settembre 2017.

[3] Intervista a Il Mattino, 2 luglio 2017.

[4] Intervista a Il Mattino, 28 settembre 2017.

[5] Intervista al Quotidiano nazionale, 29 settembre 2017

[6] Intervista a Il Mattino, 30 settembre 2017.

[7] Il Mattino, 27 settembre 2017.

[8] Intervista a La Repubblica, 29 giugno 2017. Nel mese di novembre 2017, Federico Cafiero De Raho è stato nominato nuovo Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. 

[9]Vds. Corriere della sera, 29 settembre 2017.

[10] Che recita (corsivo di chi qui scrive): «1. Chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha il diritto di circolarvi liberamente e di scegliervi liberamente la sua residenza. 2. Ognuno è libero di lasciare qualsiasi Paese, compreso il suo. 3. L’esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono previste dalla legge e costituiscono, in una società democratica, misure necessarie alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al mantenimento dell’ordine pubblico, alla prevenzione delle infrazioni penali, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e libertà altrui».

[11] Innumerevoli sono le pubblicazioni e i dati ufficiali in proposito. Basti qui ricordare per gli intrecci con la politica l’interessante studio della Fondazione Res: Politica e corruzione. Partiti e reti di affari da Tangentopoli a oggi, a cura di Rocco Sciarrone, Donzelli Editore, 2017.

11/12/2017
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