Le sentenze di Bologna e Genova verso uomini che hanno ucciso delle donne hanno provocato un dibattito che oppone apparentemente le ragioni dei magistrati e le ragioni delle donne. Ma in realtà mette a confronto due diverse posizioni all’interno della stessa neocultura emozionale. Ho l’impressione che da una parte e dall’altra si eviti una riflessione sulla cultura nella quale siamo immersi, che produciamo e riproduciamo quotidianamente attraverso discorsi, articoli, tweet e post. E come scrive il filosofo sloveno Slavoj Zizek «se in un conflitto uno schieramento ha torto non è detto che l’altro abbia ragione»
I magistrati emettono le loro sentenze seguendo i codici, regole e regolamenti e affermano la loro giusta volontà di non farsi condizionare dal contesto sociopolitico e culturale. Ma è possibile esserne fuori? Le sentenze e le parole usate per scriverle influenzano, formano e riproducono comunque opinioni, orientamenti, comportamenti e senso comune. Le parole e il linguaggio non sono mai neutrali e s’inseriscono sempre in un discorso pubblico. Le affermazioni usate nelle sentenze in questione, ad esempio, mostrano la pervasività del culto delle emozioni nelle nostre società contemporanee. Culto in base al quale tutti dovremmo agire seguendo le emozioni per affermare la nostra autenticità e autorealizzarci. I giudici, come tutti gli altri, partecipano, nel senso che ne fanno parte, di questa cultura e finiscono per legittimarla. Anche se la giustizia si basa e si riferisce a principi universalistici e generali, resta comunque una sfera non del tutto separabile dalla cultura dominante. Quindi non è in discussione la correttezza o meno delle sentenze emanate ma, almeno secondo me, la necessità di una maggiore autoconsapevolezza, e di riflessione da parte dei giudici sulla cultura in cui operano.
Proprio perché i magistrati non vivono nell’empireo è da loro che deve venire una riflessione su cosa le loro sentenze producono e sulla cultura che loro stessi esprimono e sostengono consapevolmente o inconsapevolmente. Senza contare che a volte anche le sentenze possono produrre mutamenti culturali.
Di cosa è fatta la discrezionalità dei giudici se non da un complesso intreccio fra conoscenza giuridica, sensibilità, cultura ed esperienza personale?
Se nessuno è al di sopra delle leggi, nessuno è fuori dalla cultura in cui vive.
Dalla parte delle donne invece non si distingue fra l’ira giusta, l’indignazione, che non sono mai disgiunte dalla ragionevolezza e dalla chiarezza dei fini che si vogliono ottenere, e la rabbia che travolge tutto e tutti senza distinzione. Si chiede da più parte una mobilitazione permanente e si mettono sotto accusa i magistrati. Ho l’impressione che ancora una volta s’indichi il dito e si perda di vista la luna. Per cui accade che la giusta indignazione prenda la deriva dell’attacco alla magistratura tout court e finisca dentro lo schieramento giustizialista del finto garantismo proprio di chi sostiene, legittima e riproduce una cultura misogina e di disprezzo per la libertà e l’autonomia femminile. Se il Ministro Salvini grida dopo le ultime sentenze «bisogna farli marcire in galera», le donne giustamente indignate devono prenderne le distanze. Credo che vada chiarito come ciò che indigna non sia l’entità della pena, ma quelle affermazioni che sembrano dare un peso e un valore eccessivo agli impulsi emotivi rispetto al riconoscimento e il rispetto della vita e della libertà femminile. Come credo che andrebbe chiarito che non si tratta di ritorno al passato. Proprio le donne dovrebbero, invece di sospettare e denunciare il ritorno al delitto d’onore, svelare come tutti i femminicidi così violenti e così frequenti siano frutto di una cultura malata basata sul non riconoscimento dell’altro, su un risentimento e su una rabbia diffusa del tutto nuova.
Siamo tutti immersi in una cultura e in un sistema di valori narcisistica, in una cultura che deresponsabilizza e legittima ogni reazione all’offesa che ciascuno crede di aver subito; ogni reazione violenta ad ogni delusione, abbandono e mancata gratificazione. Non importa più l’esistenza, la vita dell’altro, ma solo la propria gratificazione e la riparazione all’offesa ricevuta.
Può la giustizia ignorare questa cultura che sta diventando senso comune? Possono i giudici inconsapevolmente legittimare la deresponsabilizzazione tirando in ballo l’emotività e le emozioni?
E possono le donne farsi agire dalla rabbia e confondere obiettivi e fini delle loro azioni?
È il sistema culturale che va smontato e decostruito e che riguarda tutti, non solo le donne. Quella stessa cultura narcisistica e questo titillare e invocare le emozioni è alla base non solo delle politiche di non riconoscimento della libertà femminile, ma anche del razzismo e delle nuove leggi sulla legittima difesa. Il rischio è che l’omicidio nei confronti di una donna, perché non è stata abbastanza gratificante e ha provocato la sofferenza di un uomo, venga legittimato, riconosciuto, come si vorrebbe giustificare l’omicidio del ladro che attenta alla proprietà. Perché ambedue gli omicidi avrebbero lo stesso movente: la rabbia e la vendetta.
È da questo modo di ragionare che dobbiamo difenderci, scrollarci di dosso questa vischiosità emozionale propagandata come autenticità, che tutto sembra travolgere e giustificare. Inveire contro i giudici fa parte di questa stessa cultura della rabbia diffusa, di questa vischiosità emozionale.
Tutto sembra dominato dalle emozioni che di nuovo vengono restituite al mondo naturale e istintuale, senza alcun nesso con la ragione. Proprio mentre l’uso di tecniche e della ragione strumentale manipola le emozioni rivendendocele come se fossero autenticamente nostre. Questa scissione fra mondo emozionale e mondo delle ragioni produce una cultura della irresponsabilità e della falsa autenticità, della “autenticità istituzionalizzata”. Permette inoltre il dominio delle percezioni e delle sensibilità, della cultura del vittimismo e di una politica che si afferma attraverso la manipolazione delle emozioni e della suggestione a scapito dei duri fatti e dell’argomentazione razionale.
E accanto alla non responsabilità verso le conseguenze delle proprie azioni si afferma la convinzione che andare “dove ti porta il cuore” sia sempre la strada giusta, e la legittimazione di nuovi criteri e modalità dell’agire.
“Lì dove c’è il diverso devi aver paura” “Alle disuguaglianze è giusto reagire con il risentimento e chiedere vendetta”; “Se sei una donna devi fare felice il tuo uomo” “Se una donna ti delude o vuole andare per la sua strada fai bene ad arrabbiarti”.
Alla biopolitica si è affiancata la politica delle emozioni.
Eppure il bene e il male non si compiono in base alle sole emozioni ma si scelgono, si compiono e si declinano secondo un sistema di valori, di credenze, di universi simbolici, e di educazione sentimentale condivisa.
Forse più che di mobilitazione abbiamo bisogno di più riflessione, in cui donne e giudici consapevoli siano impegnati insieme.
L’abolizione del delitto d’onore benché tardivo, fu dovuta non solo alla nuova consapevolezza femminile, all’irruzione nella sfera pubblica dei corpi e delle parole delle donne, ma anche all’impegno di giuristi e magistrati che ne accolsero le giuste rivendicazioni e si schierarono in difesa della parità dei diritti delle donne e degli uomini.
[*] Sulla sentenza della Corte d'assise d'appello di Bologna n. 29/2018, per ulteriori approfondimenti, si rimanda a: E. Canevini, La valutazione delle dichiarazioni dell’imputato nei reati caratterizzati da violenza di genere, in questa Rivista on-line, 12 marzo 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/la-valutazione-delle-dichiarazioni-dell-imputato-nei-reati-caratterizzati-da-violenza-di-genere_12-03-2019.php; D. Iannelli, Corte d'assise d'appello di Bologna, brevi riflessioni sulla sentenza n. 29/2018 tra amici e nemici delle donne e della giurisdizione, in questa Rivista on-line, 19 marzo 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/tribunale-di-bologna-brevi-riflessioni-sulla-sente_19-03-2019.php