Dopo cento dibattiti sulla cui utilità comincio a dubitare, provo a parlare di Consiglio superiore attraverso la sintesi di una esperienza costellata da qualche riflessione: una sintesi parziale, soggettiva e incompleta (perché legata al filo della memoria) ma più diretta e forse più utile. Inizialmente l'idea era di scrivere, su questa esperienza, un giallo. Avevo già il titolo, seppur non originale (Omicidio al Consiglio superiore), e la trama (con l'omicida svelato fin dall'inizio – non vi sarà difficile immaginarne l'identità – e venticinque possibili vittime...). Poi ho rinunciato: non per l'inflazione di magistrati giallisti ma per mancanza di capacità, oltre che di tempo. Mi limito, dunque, a raccontare e a ragionare, senza tatticismi e autocensure perché – come ha scritto recentemente E. Scalfari (La Repubblica, 23 agosto 2009) – «la timidezza, la prudenza, il dire e non dire (...) sono lo specchio d'una profonda indifferenza dello spirito pubblico, ormai ripiegato sul tirare a campare del giorno per giorno, senza memoria del passato né prospettiva di futuro».
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«Non sognavo il consiglio»
Note sparse su magistrati, autogoverno, rappresentanza
28/01/2013
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Livio Pepino