Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Per il rilancio del progetto europeo

di Franco Ippolito
presidente della Fondazione Basso
L’Europa delle Costituzioni e delle Carte dei diritti, l’Europa della pari dignità delle persone non può chiudersi in una fortezza, alzando muri materiali o giuridici, senza tradire sé stessa e perdere la sua identità e la sua stessa “anima”

1. Nazionalismo e demagogia: un ritorno da contrastare

Nel giugno del 1918 Luigi Einaudi, avendo alle spalle la carneficina della Prima guerra mondiale, evidenziava sul Corriere della Sera l’anacronismo dello Stato sovrano, definendolo «il nemico numero uno della civiltà umana, il fomentatore pericoloso dei nazionalismi e delle conquiste», e aggiungeva, criticando la natura e la struttura della nascente intergovernativa Società delle Nazioni, «se si vuole tra 25 anni una nuova guerra che segni la fine dell’Europa, si scelga la via della Società delle Nazioni; se si vuole tentare seriamente di allontanare lo spettro della distruzione totale, si vada verso l’idea federale».

La stessa convinzione Einaudi ribadì con forza, in un discorso alla Costituente il 29 luglio 1947: «Quel che importa è che i parlamenti di questi minuscoli Stati i quali compongono la divisa Europa, rinuncino ad una parte della loro sovranità a pro di un parlamento nel quale siano rappresentati, in una camera elettiva, direttamente i popoli europei nella loro unità, senza distinzione tra Stato e Stato ed in proporzione al numero degli abitanti e nella camera degli Stati siano rappresentati, a parità di numero, i singoli Stati. Questo è l’unico ideale per cui valga la pena lavorare […] l’idea di libertà contro l’intolleranza, della cooperazione contro la forza bruta. L’Europa che l’Italia auspica, per la cui attuazione essa deve lottare, non è un’Europa chiusa contro nessuno, è un’Europa aperta a tutti… Alla creazione di quest’Europa, l’Italia deve essere pronta a far sacrificio di una parte della sua sovranità».

Forse Jean Monnet e Robert Schuman avevano in mente la tragica profezia einaudiana del 1918, quando affermarono, nella Dichiarazione del 9 maggio 1950 da cui scaturì la creazione della Ceca, «gli Stati non hanno voluto l’Europa, hanno avuto la guerra».

L’opzione federalista di Einaudi, mentre ancora infuriava la guerra e sembrava che la furia totalitaria nazista avrebbe dominato l’Europa, era stata ripresa e rilanciata da Altiero Spinelli, con il Manifesto di Ventotene, che avvertiva «se la lotta restasse domani ristretta nel tradizionale campo nazionale, sarebbe molto difficile sfuggire alle vecchie aporie». Monnet, Schuman, Adenauer e De Gasperi percorsero un’altra via, quella funzionalistica. Pur nella rilevante diversità di impostazione, anche la costituzione della Ceca (poi Cee, Ce e infine UE) fu finalizzata ad impedire altre guerre tra Francia e Germania: intendeva sottrarre agli Stati nazionali le politiche sul carbone e sull’acciaio, risorse indispensabili per preparare e fare le guerre.

Da qui dunque occorre partire per ogni discorso sull’Europa. Il primo straordinario risultato della costruzione europea − in un continente per secoli devastato da guerre, massacri, feroci lotte religiose, crimini contro l’umanità sino all’orrore dell’Olocausto e ai 50 milioni di morti − è stata la pace, «il più lungo periodo di pace della propria storia ultramillenaria: basti pensare che il precedente più lungo fu la famosa Pax romana di Ottaviano Augusto, durata meno della metà di quella che, dal 1945 a oggi, caratterizza il nostro continente» (F. Munari).

Un periodo di pace così lungo da sembrare scontato e naturale alla gran parte degli europei (e degli italiani) chiamati a votare per il rinnovo del Parlamento europeo. Ma la pace, come la democrazia, non è naturale; va costruita e va mantenuta con cura, passione e determinazione. Naturali sono la forza e il dominio del più forte. La pace non si conserva per inerzia, ma per rinnovata iniziativa di chi la persegue attivamente e con convinzione. Basti ricordare le guerre divampate tra gli “Stati sovrani”, rinati dopo la disintegrazione della Jugoslavia e dell’Unione Sovietica.

2. Rilanciare la costruzione dell’Unione politica

Evidentemente non basta la garanzia della pace, se l’indice della fiducia degli italiani verso l’Europa è calato vistosamente negli ultimi anni. Sembra riacquistare forza il mito sovranista, per quanto anacronistico e pericoloso, alimentato da forze politiche nazionaliste e autoritarie che alimentano e strumentalizzano, a fine di consenso elettorale, incertezze e paure diffuse.

Al di là di ogni discussione sulla risorgenza del fascismo, sta di fatto che nell’incertezza e nel disorientamento determinati dalla crisi, come negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, è facile, soprattutto per i più vulnerabili, scivolare nell’affidamento alle illusorie promesse di nazionalisti e demagoghi, che − autoqualificandosi sovranisti e populisti − recitano slogan semplicistici dinanzi a difficoltà e situazioni complicate.

Tutti gli europeisti − e particolarmente quelli come noi, critici dell’attuale insufficiente struttura istituzionale e delle concrete politiche dell’Unione − devono avere chiara la consapevolezza che il processo di costruzione e prosecuzione di un più solido edificio europeo non è scontato e che, dunque, l’impegno deve essere più convinto e tenace.

Non è sufficiente una posizione puramente difensiva e di denuncia contro i sovranismi e i populismi. Né basta la pur indispensabile rivendicazione al processo europeo del mantenimento della pace tra i paesi dell’Unione e del conseguimento del più alto livello di tutela dei diritti umani e di sviluppo rispetto ad ogni altra parte del mondo.

Demagoghi e nazionalisti parlano alla pancia, esasperano paure e incertezze, alimentano xenofobia, razzismo e contrapposizioni, utilizzando le consuete tecniche dell’individuazione di un capro espiatorio come scorciatoia per fornire risposte semplicistiche a problemi complessi; evocano generiche responsabilità di mai specificate caste ed élites, senza minimamente mettere in discussione i poteri politici, economici e finanziari responsabili dell’attuale crisi e dell’abnorme crescita delle disuguaglianze; indirizzano concretamente risentimenti e rabbia contro gli “stranieri invasori”, accusati di occupare il nostro territorio e di privarci delle nostre risorse: nel secolo scorso gli ebrei, oggi i migranti.

A noi, che non possiamo e non vogliamo parlare alla pancia ma alle teste e ai cuori delle persone, non bastano le parole né la pur nobile retorica europeistica, ma necessitano fatti e proposte di cambiamento e di rilancio del progetto europeo, sulla base di una preliminare evidente constatazione: senza l’Unione europea il nostro Paese non ha futuro!

Nessuno degli Stati europei, neppure la Germania, è in grado di confrontarsi da solo con le grandi potenze di dimensioni continentali (Stati Uniti, Cina, Russia) né di rappresentare un reale argine di equilibrio all’aumentato rischio di conflitti (non solo commerciali), in una fase di rifiuto o messa in discussione del multilateralismo. Del resto è ben evidente il comune interesse degli Usa di Trump e della Russia di Putin a minare la costruzione di un’Unione politica, preferendo il rapporto con tanti staterelli nazionali, inevitabilmente destinati al vassallaggio.

L’Unione, che è stata capace di elevare gli standard dei diritti dei suoi cittadini e di assicurare pace tra i suoi Paesi membri, è l’unica entità che può rilanciare multirateralismo e diritto internazionale, anche sui grandi temi dell’ambientalismo, del cambiamento climatico e della tecnologia, e giocare un ruolo di pace nel mondo, ponendo così anche rimedio, sia pure postumo e tardivo, alle pesanti responsabiltà di Paesi europei nella guerra jugoslava e in quella libica.

3. Pace, diritti e dignità non solo per i cittadini europei

L’Unione europea, per promuovere, come vuole il Trattato sull’Unione (art. 3.1), «il benessere dei suoi popoli», deve abbandonare l’ideologia neoliberista e le politiche antisociali di austerità, che hanno favorito i Paesi più forti e fatto crescere le disuguaglianze prodotte dalla finanziarizzazione dell’economia, rese ancora più manifeste dalla crisi economica in atto dal 2008.

A tale risultato negativo ha concorso anche l’impianto istituzionale, che vede il sistema di “governo” dell’Unione affidato, nelle materie più rilevanti (politica economica, politica estera, immigrazione, sicurezza) all’accordo unanime (e perciò al veto) dei governi, anziché alle deliberazioni del Parlamento europeo e della maggioranza qualificata degli Stati membri. Una vera Unione in effetti funziona soltanto nei settori affidati alle decisioni delle istituzioni di tipo “federale” (Parlamento, Commissione, Corte di giustizia, Banca centrale europea). Molte delle politiche realizzate o mancate, che vengono quotidianamente criticate dai governi nazionali (a cominciare da quello italiano), sono ascrivibili a scelte degli stessi governi che scaricano la responsabilità sull’Europa. Ne consegue la necessità di rafforzare le istituzioni “federali”, con la formazione e il sostegno attivo di partiti, movimenti e associazioni europei e transnazionali.

Ciò è particolarmente drammatico e urgente per quanto concerne la realizzazione delle promesse non mantenute. Mentre è stata assicurata la libera circolazione delle persone, delle merci e dei capitali e sono stati adottati provvedimenti per prevenire e reprimere la criminalità, nulla di positivo è stato fatto per quanto concerne i temi cruciali dell’asilo e dell’immigrazione, in violazione di ogni dovere di solidarietà. Giustamente Filippo Grandi, Alto commissario dell’Unhcr, il 22 marzo scorso ha definito le tragedie che avvengono nel Mediterraneo (per effetto delle politiche di chiusura delle frontiere) una «vergogna insanabile per il nostro continente».

L’Europa delle Costituzioni e delle Carte dei diritti, l’Europa della pari dignità delle persone non può chiudersi in una fortezza, alzando muri materiali o giuridici, senza tradire sé stessa e perdere la sua identità e la sua stessa “anima”.

Le politiche fin qui adottate non sono idonee ad affrontare le migrazioni, fenomeni strutturali con cui dovremo convivere per decenni, e anzi sono controproducenti giacché ostacolano e allontanano ogni possibile regolazione ragionevole dei problemi che l’incontro tra diversi inevitabilmente fa emergere; rafforzano nella popolazione europea irrigidimenti identitari, tendenze xenofobe e pulsioni razzistiche. Il governo dei flussi migratori, che realisticamente è il massimo degli obiettivi possibili, non può essere raggiunto con metodi violenti e repressivi, la cui insensata prosecuzione può soltanto degenerare e determinare ulteriori conflitti, ancor più difficili da governarsi.

Sappiamo bene che per governare fenomeni complessi non basta invocare il diritto e i diritti, ma è necessaria la politica, a cui compete la cura e la responsabilità degli interessi delle popolazioni. Chi ha il compito di adottare scelte politiche deve certamente tenere conto delle dimensioni dei movimenti migratori e non può ignorare i diffusi timori che percorrono le società europee né la complessità dei processi di integrazione dei migranti e dei rifugiati.

La politica, tuttavia, per essere all’altezza delle promesse di pace e di rispetto per la dignità delle persone e dei popoli formulate solennemente dal diritto internazionale, comunitario e nazionale (dallo statuto dell’Onu alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE alla Costituzione della Repubblica), deve individuare soluzioni che trovino un solido fondamento giuridico sia per garantire i diritti dei rifugiati e dei migranti sia per delineare la sostanza e l’immagine della società democratica europea. La politica deve essere in ogni caso rispettosa dei diritti fondamentali delle persone e dei popoli, giacché la tutela dei diritti fondamentali costituisce un limite invalicabile per tutti, anche per i legislatori e i governi, che devono farsi carico di queste necessità, indicare prospettive e fornire soluzioni che, nel rispetto della dignità e dell’uguaglianza delle persone, rendano effettivi i diritti umani e l’aspirazione alla pacifica convivenza tra diversi.

4. Un welfare europeo contro le disuguaglianze

I limiti e le carenze dell’Unione sono evidente anche in altri settori. È stato creato un unico mercato interno, ma si continuano a permettere trattamenti differenziati dei lavoratori sul piano salariale, contributivo, fiscale e si tollerano “paradisi fiscali” che comportano una concorrenza sleale fra i Paesi membri e i loro cittadini.

Come ha scritto Luigi Ferrajoli, in un documento che delinea uno specifico impegno della Fondazione Basso, per rilanciare l’Europa nella mente e nei cuori dei cittadini è urgente una politica in grado di restituire popolarità al progetto dell’Unione, ricostruendo, a livello d’opinione, la fiducia in una comunità politica basata sull’uguaglianza e sui diritti fondamentali di tutti. Questo mutamento dell’immagine dell’Europa nella percezione popolare, oggi screditata soprattutto tra i ceti più deboli, dipende − più ancora che da riforme, pur necessarie, di carattere istituzionale − da una modifica delle politiche degli organi comunitari idonea a riaccreditare l’Unione presso i popoli europei.

È indispensabile un vero ed efficace welfare dell’Unione con l’adozione di misure sociali direttamente europee, a cominciare:

a) dall’unificazione del diritto del lavoro e delle sue garanzie, prime tra tutte la stipulazione di un salario minimo e l’effettiva tutela, prevista dall’art. 30 della Carta dei diritti dell’Unione, contro i licenziamenti ingiustificati;

b) dall’istituzione di un servizio sanitario europeo realmente uguale, universale e gratuito.

Queste misure varrebbero a mostrare, dell’Europa, il volto benefico della solidarietà e della giustizia e non più solo quello ostile dei mercati, dell’austerità e dei sacrifici. L’uguaglianza nei diritti, del resto, è il principale fattore di unità politica. Realizzarla anche soltanto in qualcuno dei diritti sociali promessi dalla Carta dei diritti dell’Unione varrebbe a ristabilire il senso di appartenenza a una medesima comunità politica.

23/05/2019
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