Magistratura democratica
Magistratura e società

Per Salvatore Senese

di Luigi Saraceni
già magistrato e deputato
A quattro mesi dalla sua scomparsa, il ricordo “privato” di un giudice e di un intellettuale protagonista di un pezzo importante, forse il più importante, della storia di Magistratura democratica

Lì per lì, quando la morte ti colpisce tanto da vicino, sei frastornato, solo dolore, il pianto per la perdita. Poi, piano, piano, ne realizzi il senso, si sveglia la memoria e cominci a pensare, a riflettere; e magari ti viene voglia di scrivere, di te, della tua vita, dei momenti in cui si è intrecciata con la vita di chi hai perduto. A me è successo con la morte di Salvatore, m’è venuta voglia di raccontare di me e di lui, ma non di Salvatore uomo “pubblico”, di cui sappiamo (quasi) tutto. Che altro potrei aggiungere a quanto è notorio, sulla sua statura morale, politica, istituzionale? Mi basta quanto ha già scritto il 18 giugno da Luigi Ferrajoli su Il Manifesto [1] e quanto ha detto ieri Giuseppe Cascini in apertura di plenum del Csm [2]; e quanto certamente ancora scriveranno penne di rango ben più alto della mia.

Io, per il tramite di me stesso, voglio raccontare un altro Salvatore, più “privato”, sin da quando eravamo, praticamente, ancora bambini o almeno ragazzi (lui due anni più di me) e anche un po’ “ragazzacci”. Perché è vero, Salvatore era sempre il migliore, il primo della classe, e per distacco; traduceva le versioni dal latino al greco e viceversa e leggeva sempre molti libri; se ne parlava fra noi, qualcuno per dileggio. Ma gli piaceva anche la vita di strada, i giochi di strada, gli unici giochi di allora, per i quali ho ancora qualche nostalgia.

Gli piaceva anche giocare a carte e a carambola e un giorno comparve alla guida di una Vespa, con la quale scorrazzava tra l’invidia generale.

Ma voglio raccontare alcune “birichinate”, le cose che “i grandi”, in particolare i nostri genitori, non dovevano sapere.

A Castrovillari c’era un bellissimo fiume (oggi ridotto a rigagnolo), il Coscile; proveniva dalle falde del Pollino e scorreva in una verdissima valle, che si poteva raggiungere dal centro del paese in poco più di un quarto d’ora di cammino. I più grandi fra noi e i più capaci nelle opere manuali, avevano ricavato nel bel mezzo del fiume “nu runzu”: una specie di piscina, ottenuta con la sapiente dislocazione di alcuni grandi massi che facevano da diga, alzando così il livello dell’acqua. In questa pseudopiscina facevamo il bagno, sguazzando felici; praticavamo il nudismo, perché non possedevamo costumi ed anche chi lo possedeva (come, credo, Salvatore) non poteva portarselo da casa, a rischio di scoperta da parte dei genitori. Ci asciugavamo al sole, cercando di non abbronzarci troppo, in particolare nelle parti abitualmente coperte dai vestiti, sempre per evitare il rischio di scoperta da parte dei genitori.

Nel gruppo di “bagnanti”, una decina con moderato turn over, Salvatore ed io (e forse un altro paio, non ricordo) eravamo “gli studenti”; gli altri non studiavano perché, tra un bagno e l’altro, dovevano lavorare; e c’era anche, tra i più piccoli, qualche studente/lavoratore. Ricordo tre fratelli, miei vicini di casa; il più grande lavorava in una fabbrica di mattonelle, dove operava a mani nude, su cui portava i segni della calce; gli altri due, più piccoli, si alzavano abitualmente all’alba, per andare a raccogliere legna nelle vicine colline; quando riuscivano a farcela, tornavano a casa a posare le fascine e correvano a scuola. Molti anni dopo i tre fratelli e qualcun altro del gruppo, sono stati tra i miei più appassionati elettori, quando mi sono candidato alla Camera nel 1994-96. Mi faceva piacere parlare con loro e loro erano contenti che anche “quell’altro”, Salvatore, era approdato in Parlamento, anche se eletto in un lontano collegio.

Il Coscile era il fiume principe, ma non l’unico corso d’acqua nei dintorni di Castrovillari. C’era, all’uscita dal paese, una via dritta dritta, due chilometri di “rettifilo”, come lo chiamavamo per scimmiottare il napoletano Corso Umberto. Il rettifilo, in tutto il suo percorso, era affiancato da intermittenti corsi d’acqua, che i contadini utilizzavano per irrigare a turno i loro adiacenti terreni, deviando le acque con un sapiente sistema mobile di microdighe in legno. Noi li chiamavamo “i giardini”, per la lussureggiante vegetazione, che comprendeva anche piccoli frutteti. D’estate erano un’oasi di frescura e noi ci andavamo appunto a prendere il fresco. Ma non di rado rinunciavamo alla riposante frescura per scatenarci nella “guerra delle scorze”. Succedeva quando riuscivamo a procurarci cocomeri e cetrioli: li mettevamo in acqua per il tempo necessario a rinfrescarsi e, una volta mangiati, ci distribuivamo equamente le bucce, dividendoci in squadre se eravamo in numero sufficiente a comporle oppure uno contro tutti (dicevamo “ognuno per sé e Dio per tutti”). La regola era che, chi veniva colpito doveva cercare di colpire un avversario, reiterando i colpi andati a vuoto; quando esauriva la dotazione di scorze, usciva dalla battaglia, che cessava del tutto quando rimaneva un solo contendente in possesso di almeno una scorza. Costui era il vincitore e aveva in premio “il cuore” di un cocomero, cioè la parte centrale, lasciata in fresco nell’acqua in adeguato recipiente.

Una volta accadde però che una scorza finì nell’occhio di un contadino che stava al margine del teatro di guerra, per non so quale incombenza agricola. Al suo grido di dolore accorsero altri contadini; fra noi si sparse il panico, l’autore del misfatto cercò di svignarsela, ma fu bloccato da un altro del gruppo con l’approvazione di tutti. Salvatore fu uno dei primi ad avvicinarsi al ferito, per verificare l’entità del danno e si prodigò a tranquillizzarlo, un po’ bluffando, che se ci fossero state spese ci avrebbero pensato i nostri genitori. Si adoperò anche per sedare la vocazione delatoria di qualcuno del gruppo, che voleva indicare ai contadini l’autore dell’improvvido lancio. Fu anche la sua prima lezione di diritto: sia pure con linguaggio di studente di scuola media, spiegò che eravamo tutti corresponsabili, in quanto partecipanti alla battaglia. La cosa comunque finì lì, perché quell’onestuomo di contadino già all’indomani ci fece sapere che il dottore aveva detto che l’occhio era solo un po’ irritato e sarebbe guarito in pochi giorni. Ma finì anche la nostra guerra delle scorze, sostituita con più innocui passatempi.

Quei giardini e quell’intrigo di corsi d’acqua e adiacenti terreni verdeggianti non ci sono più. Oggi, al loro posto, ci sono orrendi agglomerati cementizi, che scorrono lungo il rettifilo trasformato nella strada più commerciale del paese: è la nostra “via Gluck”. Si chiama Viale del Lavoro (nobile titolo, che però suona un po’ ironico verso i nostri vecchi giochi). Io, quando sono in Calabria, ci passo tutti i giorni. Ci sono passato anche il giorno in cui Salvatore ci ha lasciato e mi sono detto: ma dai, non piangere, è soltanto uno dei tanti luoghi che hai condiviso col tuo amico.

Ed è vero, non sono scomparsi solo “i giardini”. Non c’è più nessuno dei tanti luoghi, slarghi, piazze, piazzole dove giocavamo a pallone (si fa per dire, quando andava bene avevamo una palla di pezza, pressata in un vecchio calzino). Per la verità Salvatore non aveva grande attitudine per il calcio, ma allora almeno faceva il tifo per il Castrovillari, la squadra di calcio locale, composta quasi esclusivamente di indigeni, che giocavano per passione, praticamente senza retribuzione (per le trasferte si facevano le collette); era una genuina espressione del territorio, ragazzi che, prima di approdare alla squadra che si cimentava nel campionato regionale, avevano giocato per strada, come noi. Poi Salvatore abbandonò del tutto il suo interesse per il calcio, lasciandomi solo, tanto tempo dopo, a tifare per la Roma. Ma torniamo al Castrovillari. Noi andavamo al campo sportivo a vedere gli allenamenti della squadra; stavamo addossati alla rete di recinzione, in adorante ammirazione dei nostri beniamini. Ma la nostra grande gioia era quando il pallone (l’unico a disposizione della squadra per il suo allenamento) superava la rete: si scatenava una ressa per prenderlo e rimandarlo con un calcio dentro il campo. Una volta il pallone finì nelle mani di Salvatore, che indugiava a rilanciarlo; prendeva le misure, alzando a turno le due gambe e poggiando il pallone ora sul piede destro ora sul sinistro. Uno dei calciatori, soprannominato “nuzzuliddu” (piccolo nocciolo) per la sua statura e per la sua verve, così apostrofò Salvatore: «Meh, guagliù (ragazzo), ama chiamà u geometru?».

Un episodio che, quando avevo voglia di stuzzicare e prendere un po’ in giro Salvatore, glielo ricordavo mentre svolgeva i suoi argomenti con la sua “geometrica” razionalità.

Ma torniamo a scuola. Come ho detto Salvatore era sempre il primo della classe, e concluse i suoi studi locali con un colpo a sorpresa, che credo sia rimasto unico nella storia del Liceo Garibaldi di Castrovillari e molto raro nella storia nazionale.

La mattina della prima prova (tema di Italiano) dell’esame di licenza liceale classica, i candidati videro con sorpresa che tra i banchi sedeva Salvatore, che in quell’anno aveva frequentato la seconda liceo. Nell’aula si levò un brusio e qualcuno chiese spiegazione di quella impropria presenza. Dovette intervenire il “commissario interno”, come si chiamava all’epoca, a spiegare che l’intruso era lì legittimamente, perché, avendo superato lo scrutino di seconda con la media dell’otto (e poco più), era stato ammesso all’esame di licenza, come prevedeva una regola dell’ordinamento scolastico.

Naturalmente superò brillantemente anche l’esame di maturità, al quale si era preparato “clandestinamente” (all’insaputa anche dei genitori, mi raccontava). L’elevata votazione gli diede poi accesso alla borsa di studio della Casa dello studente di Via De Lollis a Roma.

Devo ammettere che io lì per lì rimasi male per questa sua performance. Lo inseguivo a due anni di distanza e quindi quell’anno anch’io sarei approdato al liceo, diventando suo compagno di corso, se non di classe. E lui, invece, scappava via. Mi consolai pensando che comunque lo avrei raggiunto all’Università, dove io, tre anni dopo, mi sarei iscritto al primo anno mentre lui frequentava il quarto. E invece, anche stavolta, scappò via.

Mi ero iscritto anch’io alla facoltà di Giurisprudenza ed ero stato ammesso alla Casa di Via De Lollis; mi predisponevo perciò ad un anno di “convivenza” con Salvatore, ma lui pensò bene, mentre frequentava l’ultimo anno di corso, di andarsene a Berlino Est con una borsa di studio. A Berlino fece l’incontro più importante della sua vita: conobbe Henriette, borsista francese. Divenne sua moglie, compagna, amica; con lei ha condiviso, per tutta la vita, il suo impegno culturale, ideale, politico; ed anche le lingue, l’italiano, il francese e il tedesco.

Conclusa l’esperienza berlinese, tornò a Roma per completare gli esami del corso (tutti trenta e lode, naturalmente) e dare l’esame di laurea.

Appena laureato (110 lode e pubblicazione, ovviamente), superò tre concorsi: nell’Ispettorato della Motorizzazione civile, in cui si classificò al primo dei quattro posti messi a concorso; nella magistratura militare e nella magistratura ordinaria, classificandosi in entrambi ai primissimi posti. Alla fine, dopo qualche mese alla Motorizzazione, rinunciò ai lauti emolumenti di questo ambito impiego, optando per la magistratura ordinaria e per la sua più modesta retribuzione.

Scelse Roma come sede dell’uditorato. Abitavamo molto vicini, lui in Piazzale delle Province, io in Viale Ippocrate e ci vedevamo praticamente tutti i giorni.

Erano gli anni in cui, potete non crederci, io ero il moderato e Salvatore l’estremista. Io ero “nenniano”, la corrente “autonomista” del Psi (ero ancora sotto l’effetto dei carri armati sovietici a Budapest nell’autunno 1956) e Salvatore era invece per la corrente di sinistra, i seguaci di Tullio Vecchietti, spregiativamente denominati “carristi”, per la presunta, ma insussistente, simpatia per quei carri armati (questa corrente dette poi vita alla scissione e alla fondazione del Psiup). Facevamo lunghe passeggiate nei dintorni di Piazzale delle Province, con interminabili discussioni sulla situazione politica e sporadiche incursioni nelle vicende della magistratura, cui lui ormai apparteneva ed io aspiravo di appartenere.

A un certo punto Salvatore fu raggiunto da Henriette, con Beatrice, la primogenita, che aveva tre o quattro anni e parlava solo francese. I genitori la incitavano a parlare con me in italiano, per imparare la lingua e lei rispondeva, senza timidezze: “Se Luigi vuole parlare con me, impari il francese”. Negli anni, anche con Henriette e Beatrice è nata una grande amicizia; e a me piaceva partecipare alla soddisfazione di Salvatore per i brillanti risultati, scolastici e non, di Beatrice, che ormai parlava e scriveva in perfetto italiano. Un solo ricordo: una lunga lettera in cui Beatrice, studentessa di scuola media, commentava Voltaire; Salvatore me la lesse con malcelato orgoglio ed io l’ascoltai con sincera ammirazione.

Concluso l’uditorato, non si avvalse della sua posizione in graduatoria per essere assegnato, come avrebbe potuto, ad un ufficio della Capitale. Preferì l’esperienza “di periferia”, se ne andò in Toscana, dove svolse per anni, in particolare a Pisa, la funzione più congeniale alla sua vocazione sociale, la funzione di giudice del lavoro (che esercitò per tutta la vita professionale, fino a diventare presidente della Sezione lavoro della Cassazione).

Frattanto avevo superato anch’io il concorso in magistratura. Finalmente eravamo diventati colleghi e continuavamo a sentirci (ai telefoni di casa, non c’erano i cellulari) e a vederci. Io andavo spesso a trovarlo, qualche volta insieme a Luigi Ferrajoli, a Borgo a Mozzano, l’ameno paesino della Lucchesia, dove aveva scelto di andare a fare il pretore. Poi, quando si trasferì a Pisa, la nostra frequentazione divenne molto più assidua, anche perché nel frattempo era nata Magistratura democratica, una delle più preziose creature degli anni Sessanta, come l’ha definita Luciana Castellina nella recensione al mio libro.

A Salvatore Md è tributaria di un pezzo importante, forse il più importante, della sua storia. Ma io qui non voglio raccontare la parte “pubblica”, su cui altri hanno già scritto molto meglio di quanto potrei fare io. Voglio continuare a raccontare il “privato” della nostra comune militanza in Md, che è durata quanto è durata la nostra vita professionale (ed anche dopo abbiamo continuato ad “amarla”, gioendo e soffrendo, come succede in tutte le grandi passioni).

Quando nacque la prima Md (1964) Salvatore era iscritto a Terzo potere, la corrente dell’Anm di “centrosinistra”. All’epoca qualcuno disse che la nascita di Md, da una costola di Terzo Potere, era una manovra “elettorale”, per meglio contrastare l’altra corrente, di “destra”, che già allora si chiamava Magistratura indipendente.

Penso con un po’ di struggimento alle passeggiate di quegli anni Sessanta, anche, d’estate, per le vie di Castrovillari (dove Salvatore veniva a passare qualche settimana con i genitori). Discutevamo della neonata Md (cui io mi ero iscritto nelle mani del compianto Girolamo Minervini), in particolare della sezione romana, dove frattanto erano approdati gli “estremisti” che ne caratterizzeranno la vita (Gabriele Cerminara, Franco Misiani, Franco Marrone, Ottorino Pesce, prematuramente scomparso nel gennaio 1970).

Quando, dopo le bombe di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, in Md ci fu la scissione e gli “scissionisti” confluirono in Terzo Potere (dando vita alla nuova corrente Impegno costituzionale), fu del tutto naturale, per Salvatore, passare a Md, insieme ad un folto gruppo di colleghi (a Roma, tra gli altri: Barone, Coiro, Gallo, Veneziano).

Da allora Salvatore è stata una figura eminente di Md, di cui fu anche segretario generale, nella seconda metà degli anni Settanta. Ma la sua militanza fu molto attiva sin dai primi anni Settanta. In quei primi anni stabilì un sodalizio con Vincenzo Accattatis e Luigi Ferrajoli, insieme ai quali elaborò una sorta di summa dei principi ispiratori dell’azione di Md (passata alla storia come “libretto giallo”, per via del colore della copertina). I tre, in coerente applicazione della loro elaborazione teorica, dalla Toscana venivano spesso a Roma, dove confluivano da tutte le regioni i “militanti” che partecipavano ai momenti della vita nazionale della corrente.

Per fronteggiare le spese di soggiorno, chiunque poteva ospitava i colleghi. A me toccavano Salvatore ed Accattatis (Ferrajoli andava nella bella casa dei genitori di Marina, sua moglie). Dormivano in un letto a castello, destinato abitualmente ai miei figli, che venivano sfrattati e mandati a dormire dalla “tata”.

Poi Ferrajoli verso la fine del 1975 se n’è andato a fare il professore e il sodalizio si è rotto. Ma Salvatore ha continuato a venire a dormire a casa mia e una volta, mentre, come di consueto, con la mia Fiat 500 lo accompagnavo alla stazione Ostiense a prendere il treno per Pisa, accadde un episodio tra il drammatico e il divertente.

Sul piazzale antistante la stazione ci colse un improvviso nubifragio. In pochi minuti il piazzale fu colmo d’acqua, che saliva paurosamente verso i vetri degli sportelli. Fummo così costretti a lasciare la 500 e guadare il laghetto che si era creato sul piazzale. E mentre stavamo per raggiungere la “riva”, tra la curiosità di passeggeri e addetti ai lavori della stazione, uno di costoro gridò all’indirizzo di Salvatore: “Ma Lei non è il presidente di Magistratura democratica?”. Salvatore rispose appena con un gesto di conferma, mentre io mi preoccupai di precisare: “Segretario, non presidente”. Quello, sorridendo, rispose: “Beh, fa lo stesso”.

Entrambi inzuppati d’acqua fino alla cintola, accompagnai fino al treno Salvatore, che impugnava i calzini che si era tolti mentre l’acqua inondava la 500.

Io dovetti aspettare circa un’ora che l’acqua si ritirasse. La 500, che era rimasta immersa per tutto quel tempo, campeggiava ormai all’asciutto al centro del piazzale ed io pensai che sarebbe stato necessario il carro-attrezzi per portarla via; ma, giusto per vederne le reazioni, girai la chiave dell’avviamento. Il motore si avviò senza problemi e da allora la 500 prese un altro nome: la anfibia.

L’indomani, al telefono, Salvatore mi raccontò che sul treno aveva cercato di asciugarsi alla bella e meglio, ma che lo avevano salvato da sicura polmonite quei calzini, che aveva avuto la prontezza di spirito di togliersi sottraendoli all’inondazione.

Io gli raccontai il mio felice ritorno a casa ed espressi il mio compiacimento: dissi che la nostra disavventura era stata compensata dal fatto che un uomo del popolo aveva mostrato di conoscere Md e il suo leader. Frutto evidente, osservai, della sua apparizione in Tv (una delle rarissime) la sera precedente in un dibattito sulla “questione giustizia”. Lui non si scaldò più di tanto, continuando a mostrare tutto il suo scetticismo sulla utilità della pubblicità mediatica.

Perché bisogna sapere che Salvatore nutriva una sorta di idiosincrasia per i media. Edmondo Bruti Liberati, che con Salvatore e Franco Ippolito faceva parte della rappresentanza di Md al Csm nel quadriennio 1981-85, espresse qualche volta il suo cordiale malumore, perché Salvatore, non solo non collaborava, ma, più o meno inconsciamente, ostacolava i rapporti che lui faticosamente intratteneva con i media al fine di far conoscere all’esterno l’azione di Md nel Csm.

Ovviamente non è che Salvatore fosse ostile alla stampa, di cui riconosceva senza esitazione l’imprescindibile funzione democratica. Ma il suo abito mentale, incline all’approfondimento e alieno da schematiche approssimazioni, non gli consentiva di partecipare attivamente alla cronaca quotidiana, tant’è che spesso non leggeva neanche i giornali e si faceva riassumere le notizie essenziali dalla paziente Henriette.

Io stesso sono stato testimone di alcuni degli episodi in cui Salvatore mostrava di non apprezzare le attenzioni della stampa. Ne voglio ricordare un paio. Una quotata giornalista voleva intervistarlo su non ricordo quale argomento; lui era, come al solito, restio, ma era propenso a cedere trattandosi di un quotidiano amico; sennonché, nei preliminari dell’intervista, lui, indispettito da alcune ipotesi di domande che sembravano ignorare quello che scriveva il quotidiano amico, disse a un certo punto alla intervistatrice: “Ma lei lo legge il giornale su cui scrive?” La giornalista si offese e l’intervista sfumò.

Il Transatlantico della Camera è il luogo in cui i giornalisti abilitati danno la caccia alle notizie che possono fornire i parlamentari, che sono ben lieti di fornirle per vedere comparire il loro nome sui giornali. Un giorno, mentre facevamo capannello con altri deputati, si avvicinò il cronista di un importante quotidiano nazionale che, con riguardo alla notizia principale che si discuteva in quei giorni, si rivolse a Salvatore con l’aria di chi si aspetta un gran ringraziamento e gli disse: “Ti ho citato nel servizio che uscirà domani”. Salvatore secco: “Hai fatto male, fai calare le vendite, cancellami”. Ovviamente il nome di Salvatore non comparve in quel servizio.

Evocando la comune vicenda parlamentare, posso dire che sono stati anni di assidua e fattiva collaborazione. Salvatore era stato eletto alla Camera nel 1992 e quando anch’io arrivai alla Camera (1994), lui naturalmente andò al Senato. Realizzavamo il “bicameralismo perfetto”, secondo la presa in giro di qualche collega. In realtà, essendo entrambi componenti delle rispettive Commissioni giustizia (lui con l’incarico di vicepresidente), potevamo dare un fattivo contributo al coordinamento dei lavori tra le due Camere. Della sua intensa ed apprezzata attività parlamentare, mi piace ricordare la relazione alla proposta di legge sull’abolizione dell’ergastolo approvata dal Senato sul finire dell’ultima Legislatura. Una relazione vibrante di umanità e di cultura giuridica, che non bastò a vincere la pavidità securitaria, che affliggeva già allora anche la sinistra. La proposta si arenò nelle secche della Camera, ma resta un documento imprescindibile per affrontare con serietà e consapevolezza il tema della pena perpetua.

Il nostro sodalizio ebbe un gran peso anche nel Comitato parlamentare di controllo dei servizi segreti. Essendo un organismo di piccole dimensioni (nove membri), era la sede ideale per l’attitudine di Salvatore all’argomentazione rigorosa, approfondita, scevra da qualunque tentazione propagandistica. Salvatore ne fece parte per tutta la legislatura (1996-2001), io dovetti dimettermi a fine 1999, quando assunsi la difesa di Öcalan, di cui il Comitato doveva occuparsi in relazione al ruolo svolto dai servizi nell’ingresso in Italia del leader kurdo.

Sul piano personale, il più gradevole ricordo di quegli anni sono le lunghe chiacchierate serali, preferibilmente con gelato, nel prezioso e piccolo terrazzo della sua abitazione all’ultimo piano di Via della Dogana Vecchia, nel bel palazzotto di fronte al Senato, dove, per disposizione di Lelio Basso, ha sede l’omonima Fondazione.

Basso teneva in grande considerazione Salvatore, ne era il principale consulente giuridico, tant’è che lo chiamò a fondare con lui (1973) il Tribunale Russell, sul cui modello nacque poi il Tribunale permanente dei popoli, di cui Salvatore fu a lungo presidente. La Fondazione, nel piangerne la scomparsa, ne ha ricordato «l’intera vita spesa nella difesa dei diritti fondamentali delle persone e dei diritti dei popoli».

Conclusa l’esperienza parlamentare, Salvatore tornò alla sua amata giurisdizione del lavoro. Il nostro sodalizio continuò nei “cenacoli”. Quando lui e Henriette erano a Roma, ci vedevamo a cena con cadenza settimanale o almeno mensile, spesso con la partecipazione di Marina e Luigi Ferrajoli e di Chiara e Giuseppe Cascini. E d’estate mia moglie ed io andavamo ospiti a Montmiral, il ridente paesino della Marne, dove Henriette e Salvatore amavano trascorrere le loro vacanze.

Questo rapporto di amicizia unico, di una intera vita, mi mancherà senza rimedio; mi accompagnerà il suo ricordo. E ancora con un ricordo personale voglio concludere questo mio racconto.

Dormivo ancora della grossa nella mia amata casetta delle Vigne di Castrovillari, quando Salvatore, insieme a suo figlio Vincenzo (un ragazzone di una ventina d’anni, forte come una quercia, simpatico, generoso) e ad un amico comune (Giorgio Massacra), vengono a tirarmi giù dal letto. Senza possibilità di replica da parte mia, mi portano sul Pollino, fino alla vetta più alta, il Dolcedorme (oltre 2000 metri). Una vetta che io sono riuscito a raggiungere solo grazie alle poderose spinte di Vincenzo. Devo a lui se, da lassù, ho potuto ammirare, per la prima (e unica) volta, la vista impareggiabile dell’orizzonte segnato dai due mari, a ovest il Tirreno, ad est lo Jonio. Dopo qualche anno Vincenzo ci ha lasciati, stroncato da una grave malattia. Da quel momento il ricordo di quell’amena escursione si è velato di una profonda tristezza, oggi rinnovata dalla scomparsa di Salvatore.



[1] L. Ferrajoli, Salvatore Senese, la sua lezione di fronte allo squallore di oggi, in Il Manifesto, 18 giugno 2019, https://ilmanifesto.it/salvatore-senese-la-sua-lezione-di-fronte-allo-squallore-di-oggi/

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