Magistratura democratica
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Protezione internazionale, il diritto di impugnazione e le sezioni specializzate*

di Silvia Albano
giudice del Tribunale di Roma
L’autrice evidenzia i lati problematici della normativa introdotta con la legge 46/2017, che modifica il rito applicabile alle controversie per il riconoscimento della protezione internazionale, alla luce della sua prima applicazione. In particolare, i problemi posti dalla previsione solo eventuale dell’udienza e della compatibilità di tale disposizione con le norme costituzionali di cui agli artt. 24 e 111.

La legge n. 46/2017 ha disposto l’istituzione presso i Tribunali sedi di Corte d’appello delle sezioni specializzate in materia di protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea. Ha inoltre modificato in modo radicale il rito applicabile alle cause in materia di protezione internazionale.

La maggior parte delle norme sono entrate in vigore il 18 agosto 2017.

Lo scopo dichiarato era l’accelerazione dei tempi del procedimento anche attraverso la creazione di giudici specializzati in una materia che, anche per la stratificazione degli interventi normativi, è senz’altro molto complessa e richiede una elevata professionalità di tutti gli operatori, giudici ed avvocati. Perplessità suscita il ricorso allo strumento della decretazione d’urgenza ed al voto di fiducia per la legge di conversione. Procedimento che ha impedito la consultazione degli operatori nella materia che forse avrebbe permesso di evidenziare gli aspetti più controversi e problematici della disciplina.

Si può dire che si è persa l’occasione di una concentrazione delle tutele, in quanto le nuove sezioni specializzate saranno competenti per le materie che erano già di competenza dei Tribunali, non scalfendo la ripartizione della competenza con i giudici di pace (espulsioni) ed i giudici amministrativi (permessi di soggiorno).

Al Tribunale di Roma è stata istituita la sezione 18 (diritti della persona ed immigrazione), sostanzialmente una costola della sezione 1 che è rimasta competente esclusivamente nella materia della famiglia.

Per la materia relativa alla protezione internazionale, dopo che si era passati al rito sommario nel 2011, si è tornati al rito camerale e la competenza è collegiale (probabilmente per compensare, come si dirà, l’abrogazione dell’appello). Il medesimo rito, come abbiamo visto, si applica alle cause relative all’impugnazione dei provvedimenti che determinano il giudice competente a conoscere della domanda di protezione internazionale in base al Reg. CE cd. “Dublino 3”.

Un primo problema si pone in ordine alla disciplina transitoria: il nuovo rito si applica alle controversie introdotte a partire dal 18 agosto 2017, si ha riguardo, quindi alla data del deposito del ricorso.

Si può porre un problema, perché mentre prima alle controversie aventi ad oggetto questa materia si applicava la sospensione feriale dei termini, alle controversie introdotte dopo tale data la sospensione feriale non si applica. Che succede, quindi, se il provvedimento da impugnare è notificato prima dell’entrata in vigore della legge, ma i termini per impugnare secondo la vecchia normativa sarebbero scaduti durante il periodo feriale dopo l’entrata in vigore della legge?

Infatti l’art. 21 del dl 13/2017, come modificato dalla legge di conversione n. 46/2017, prevede che l’art. 35-bis del d.lgs 25/2008 entri in vigore dal 18 agosto 2017 ed in tale nuova norma si prevede la non applicabilità della sospensione feriale dei termini.

La questione è ancora oggetto di dibattito, ma ritengo che i termini per impugnare i provvedimenti notificati fino al 17 agosto 2017 debbano essere calcolati secondo la vecchia normativa, anche se ai relativi ricorsi sia applicabile il nuovo rito previsto dalla norma, l’interpretazione contraria porterebbe un grave vulnus al diritto di difesa che renderebbe incostituzionale la norma transitoria.

Il termine per impugnare è di trenta giorni, salvo i casi previsti dall’art. 28-bis, comma 2 del d.lgs 25/2008 e nei casi in cui il ricorrente sia trattenuto ai sensi dell’art. 6 d.lgs 142/2015 – Cpr (centri permanenti per il rimpatrio) ex Cie , in cui il termine è di quindici giorni (esattamente come prima).

Con il deposito tempestivo del ricorso la sospensiva dell’atto impugnato è automatica, salvo i casi previsti dal comma 3 del nuovo art. 35-bis. Si tratta dell’impugnazione proposta da soggetto trattenuto nei Cpr, di impugnazione di un provvedimento che dichiari l’inammissibilità della domanda di protezione ovvero che la dichiari affetta da manifesta infondatezza, e, infine, se la domanda è presentata dopo che il richiedente sia stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i controlli alla frontiera, ovvero fermato in condizioni di soggiorno illegale, al solo scopo di impedire l’adozione o l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento.

Insomma tutte ipotesi in cui si presume ex lege la strumentalità della domanda di protezione.

Bisogna chiarire, vista anche l’abitudine della Questura di Roma di affermare − nella relata di notifica del provvedimento impugnato − che il ricorso non sospende automaticamente l’efficacia del provvedimento e che il termine per impugnare è, quindi, di quindici giorni e, per quanto ho personalmente constatato, di richiamare la norma che fa riferimento alla manifesta infondatezza, che questa non può essere affermata dalla Questura, ma semmai dalla Commissione territoriale nel provvedimento di rigetto della domanda. Da tale punto di vista la norma di cui all’art. 28-bis, comma 2, lettera a) del d.lgs 25/2008 definisce esattamente cosa deve intendersi domanda manifestamente infondata: quando «il richiedente ha sollevato esclusivamente questioni che non hanno alcuna attinenza con i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale ai sensi del d.lgs 251/2007». L’art. 32, comma 1, lettera b-bis) prevede, infatti, che la Commissione territoriale (Ct) possa rigettare la domanda per manifesta infondatezza nei casi di cui all’art. 28-bis, comma 2, lettera a).

Analoga problematicità presenta la norma di cui alla lettera c) dell’art. 28-bis: chi è che ha il potere di valutare se la domanda sia stata presentata, dopo essere stato fermato in condizioni di soggiorno irregolare ed aver tentato di eludere i controlli alla frontiera, al solo scopo di impedire o ritardare l’adozione o l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento? Pur trattandosi di una delle ipotesi in cui può disporsi il trattenimento, deve presumersi che si tratti di richiedente non trattenuto in un Cpr, in quanto c’è una previsione normativa espressa apposita per tale ipotesi. Certo non può essere la Questura a deciderlo nel momento in cui notifica il provvedimento della Commissione territoriale, ma nemmeno la Ct al momento in cui decide di rigettare la richiesta di protezione internazionale credo abbia gli strumenti per deciderlo. In ogni caso tale circostanza, perché possa avere rilevanza ai fini che qui interessano, dovrebbe essere riportata nel provvedimento della Ct.

La tutela cautelare può comunque essere concessa dal giudice per gravi e circostanziate ragioni con decreto motivato inaudita altera parte, ma non può essere mai essere concessa, per espressa disposizione di legge, per un provvedimento della Ct che dichiari la domanda di protezione inammissibile per la seconda volta. Qui può porsi un problema di costituzionalità della norma qualora, dopo la seconda dichiarazione di inammissibilità, siano sopravvenute ragioni che consentirebbero di concedere la protezione internazionale o che, comunque, impedirebbero il rimpatrio del richiedente asilo. Un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma impone, pertanto, di esaminare nel merito l’istanza di sospensiva anche quando la domanda sia stata dichiarata inammissibile per la seconda volta.

In ordine alla disciplina del procedimento relativo alla sospensiva si evidenzia già lo spirito della riforma che è quello di evitare quanto più possibile l’udienza rendendo il procedimento ed il contradditorio meramente cartolare (il decreto notificato, a cura della cancelleria, unitamente alla domanda di sospensione alle parti le quali, nei cinque giorni successivi, hanno facoltà di depositare note difensive, e, nei cinque giorni ancora successivi possono depositare note di replica. Ove tali note siano state depositate, il giudice nei successivi cinque giorni, conclude il sub-procedimento cautelare ante causam con un nuovo decreto che conferma, modifica o revoca il provvedimento già emanato. L’udienza non è, quindi, proprio prevista).

Nel caso in cui il giudice dichiari che il provvedimento deve essere considerato automaticamente sospeso per effetto della proposizione del ricorso a tale procedimento ovviamente non si dà corso.

Già in questa fase – ma vedremo più avanti come sia fondamentale per l’esito del procedimento, in particolare in ordine alla possibilità di provocare la fissazione dell’udienza per la trattazione nel merito e l’audizione del richiedente – viene in questione la professionalità dell’avvocato ed i requisiti del ricorso.

La materia complessa richiede la specializzazione e la sussistenza di specifiche competenze non solo in capo al giudice, ma anche in capo al difensore. I poteri officiosi del giudice in questa delicata materia che, non dimentichiamolo mai ha ad oggetto i diritti fondamentali delle persone, non possono rimediare ai compiti ed alle responsabilità che sono proprie del difensore.

Purtroppo assistiamo a volte alla redazione di ricorsi seriali, sostanzialmente privi di motivazione, che si limitano a riportare sinteticamente quanto dichiarato dal richiedente in sede di audizione innanzi alla Commissione territoriale e poi utilizzano una motivazione standard per tutti.

Si tratta di ricorsi che non hanno i requisiti richiesti dal codice di procedura civile e che andrebbero a rigore dichiarati nulli. Scelta che ancora nella nostra sezione non abbiamo compiuto perché danneggerebbe irrimediabilmente soggetti deboli che non hanno gli strumenti culturali per effettuare una scelta consapevole del difensore, ma stiamo discutendo il da farsi.

È importantissimo, quindi, che gli organismi dell’avvocatura moltiplichino le occasioni di formazione e trovino un modo per effettuare un controllo, anche di ordine deontologico, delle modalità con le quali vengono reperiti i clienti, tenuto conto che si tratta di persone che hanno diritto tutte, o quasi, al gratuito patrocinio. Il rischio, quindi, che per lucrare sul gratuito patrocinio vi siano comportamenti poco trasparenti e illeciti sul piano deontologico è molto alto. Sarebbe necessaria la istituzione di liste di difensori abilitati al gratuito patrocinio specializzati nella materia, cui sia possibile accedere solo dopo avere seguito un apposito percorso formativo.

Tornando all’istanza di sospensiva proposta nel ricorso. È importante che sia motivata anche in ordine alle ragioni per le quali si contesta la sussistenza di ipotesi nelle quali non operi la sospensione automatica. La richiesta di sospensiva viene a volte inserita automaticamente nei ricorsi, anche quando non ve ne è la necessità, perché da nessuna parte si afferma che la sospensione non è automatica, determinando un aggravio per la cancelleria (costretta dalla nuova normativa ad aprire un sub-procedimento cautelare) e per il giudice che deve decidere sulla domanda.

È necessario, quindi, evidenziare se le ragioni che vengano addotte per negare la sospensione automatica siano fondate od invece il caso rientri in una delle ipotesi di sospensione automatica e, in caso contrario, le gravi e circostanziate ragioni per cui il provvedimento dovrebbe essere sospeso.

Come con la precedente disciplina il ricorso è notificato alla commissione territoriale a cura della cancelleria ed è trasmesso al pm che stende le sue conclusioni, segnalando la presenza di eventuali cause ostative al riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria.

La parte convenuta può stare in giudizio avvalendosi di suoi dipendenti o di un rappresentante della Commissione che ha adottato l’atto (quindi il Ministero non è tenuto alla difesa ad opera dell’avvocatura erariale), e può depositare una nota difensiva entro venti giorni dalla notificazione del ricorso, cui può replicare il ricorrente nei venti giorni successivi. La Commissione che ha adottato l’atto impugnato che, entro venti giorni dalla notifica del ricorso, rende disponibili al Tribunale tutti gli atti posti a fondamento della decisione stessa e, segnatamente, la copia della domanda di protezione internazionale, copia della videoregistrazione e del verbale di trascrizione della videoregistrazione, nonché copia di tutta la documentazione comunque acquisita nel corso della procedura amministrativa e, soprattutto, la documentazione sulla situazione sociale, politica ed economica del Paese di provenienza del richiedente che è stata utilizzata per la decisione impugnata.

Questo può porre un problema, perché la difesa del ricorrente al momento di redigere il ricorso, ed il giudice al momento di decidere sulla sospensiva, non ha a disposizione tutta la documentazione che la commissione ha usato per la decisione, ma solo il provvedimento impugnato ed il verbale di audizione (salva la possibilità di accesso agli atti da parte del difensore, ma con tempi che non sembrano compatibili con i ristretti termini per impugnare).

La legge prevede che il giudice per decidere si avvalga anche delle Coi (Country of origin information) predisposte dalla commissione nazionale per il diritto di asilo.

Qui si pone un problema delicato: da un lato la Commissione nazionale è un organo del Ministero dell’interno, una delle parti del procedimento, per cui riterrei che il giudice non possa fondare la sua decisione solo su queste. Dall’altro lato, il giudice può decidere su Coi acquisite autonomamente che non sono state sottoposte al contraddittorio delle parti? Così avviene molto spesso, ma ritengo che non possano essere poste a base della decisione Coi rimaste estranee al contraddittorio delle parti, infatti le informazioni aggiornate sul Paese di origine sono elementi di prova che non possono tecnicamente essere considerate «fatto notorio» e come tali utilizzabili dal giudice anche in assenza di contraddittorio, in quanto esse spesso non sono univoche e non hanno tutte lo stesso grado di attendibilità, con conseguente ampio margine di interpretazione da parte di chi le utilizza. Dovrebbero, quindi, essere evidenziate dal giudice e sottoposte al contraddittorio delle parti.

La legge, sempre al dichiarato fine, di accelerare il procedimento, prevede che l’udienza sia solo eventuale, salvo alcune eccezioni.

In primo luogo deve essere sempre fissata udienza se non sia disponibile la videoregistrazione dell’audizione.

Pertanto, posto, che attualmente non sono nemmeno state acquistate le attrezzature per provvedere alla videoregistrazione e trascrizione dell’audizione nella forma del riconoscimento vocale, in questa prima fase la fissazione dell’udienza sarà sempre obbligatoria.

Ci sono ulteriori eccezioni nelle quali il giudice ha il potere discrezionale di fissare l’udienza, e qui il ruolo del difensore ed una chiara redazione del ricorso hanno un’importanza fondamentale, ove si voglia consentire una ulteriore audizione del richiedente innanzi al giudice.

Con l’abolizione dell’appello, ormai tutto si gioca nell’unica fase del giudizio innanzi al Tribunale, è quindi importante che tutti gli elementi necessari siano correttamente posti al vaglio del giudice.

Il giudice fissa l’udienza quando:

- visionata la videoregistrazione, ritiene necessario disporre l’audizione dell’interessato, il che si verificherà quando il colloquio in Commissione sia stato carente o poco approfondito, sicché alcuni aspetti della narrazione debbano essere chiariti;

- ritiene indispensabile richiedere chiarimenti alle parti;

- dispone consulenza tecnica o l’assunzione di nuove prove, anche d’ufficio (e tra le prove vi potrebbero essere pure le Coi);

- il ricorrente ne abbia fatto motivata richiesta nel ricorso introduttivo ed il giudice ritenga essenziale la trattazione in udienza della causa; a questo proposito giova sottolineare che, se la richiesta di celebrazione dell’udienza è ben motivata, il suo rigetto immotivato è censurabile in Cassazione;

- l’impugnazione si fonda su elementi di fatto non dedotti nel corso della fase amministrativa.

Questa situazione può verificarsi in molteplici casi, sia per la sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi idonei a supportare la domanda di protezione, come il peggioramento delle condizioni politiche o sociali del Paese di origine, sia in ragione della possibilità che il richiedente innanzi alla Commissione abbia ritenuto, per i più svariati motivi, di non raccontare tutte le ragioni per le quali ha lasciato il Paese. Ma anche l’ipotesi nelle quali siano sopravvenute ragioni per riconoscere la protezione umanitaria, per motivi di salute ad esempio, o per integrazione sul territorio italiano (attività lavorativa).

È chiaro, quindi, che la prospettazione effettuata nel ricorso avrà efficacia decisiva, così come la documentazione attestante le ragioni sopravvenute o comprovanti quanto dichiarato innanzi alla Commissione territoriale.

La nuova normativa pone un serio problema interpretativo in ordine al rito applicabile per le richieste di protezione umanitaria.

Il problema si pone perché l’art. 35-bis del d.lgs 25/2008, che disciplina il nuovo rito, fa riferimento a «le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei provvedimenti previsti dall’art. 35», e l’art. 35 fa riferimento allo status di rifugiato ed alla protezione sussidiaria, mentre la protezione umanitaria (misura atipica) è prevista dal comma 3 dell’art. 32 del d.lgs 25/2008. Sicché dalla lettera della norma sembrerebbe che la domanda di protezione umanitaria sia soggetta al rito sommario, di competenza del giudice monocratico, e la decisone soggetta all’appello.

Senonché è prassi comune che con l’impugnazione del provvedimento di rigetto della Ct vengano chieste in via gradata tutte e tre le forme di protezione. È chiaro che in questo caso il giudizio non possa essere che unico, essendo evidente il rischio di contrasto di giudicati.

L’art. 3, comma 3, del dl n. 13/2017, convertito nella legge n. 46/2017, prescrive che la competenza delle sezioni specializzate sia estesa anche alle cause che «presentino ragioni di connessione» con quelle elencate nei commi 1 e 2.

Deve, secondo chi scrive, affermarsi l’esigenza di una trattazione unitaria davanti alla sezione specializzata in composizione collegiale anche delle domande rivolte ad ottenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari essendo la situazione giuridica soggettiva sottesa a tale domanda riconducibile alla categoria dei diritti umani fondamentali garantiti dall’art. 2 Cost. e 3 Cedu (così da ultimo Cass., sez. unite, n. 5059/2017) da assoggettare allo speciale regime probatorio proprio delle cause relative alle domande di protezione internazionale. Peraltro nell’ipotesi, molto più frequente, che, all’esito del rigetto da parte della Commissione territoriale, si proponga ricorso con conclusioni multiple, dirette ad ottenere in via principale rifugio e protezione sussidiaria ed in via subordinata la protezione umanitaria, sembra difficilmente contestabile la competenza del giudice collegiale anche per la domanda connessa.

La soluzione è meno evidente nel caso in cui il ricorrente impugni la decisione della Commissione territoriale chiedendo unicamente il riconoscimento della protezione umanitaria, in assenza, quindi, di connessione con altre domande. Qui potrebbe apparire legittima la proposizione della controversia in via autonoma: la competenza sarebbe della sezione specializzata in composizione monocratica e non vi sarebbero preclusioni ad un secondo grado di giudizio di merito.

Ma tale soluzione non tiene conto della peculiarità del processo di protezione internazionale che non è un’impugnazione dell’atto amministrativo, ma ha ad oggetto il riconoscimento di un diritto soggettivo, tant’è il giudice della protezione, oltre ad essere soggetto all’obbligo di cooperazione istruttoria, è (almeno parzialmente) svincolato dal principio della domanda e, in ipotesi astratta, potrebbe riconoscere una misura tipica anche a chi si limita a chiedere il riconoscimento di quella atipica; la regola è infatti che come la Commissione territoriale, anche il giudice, debba in primo luogo accertare se sussistono le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato, in caso negativo se sussistano le condizioni per il riconoscimento della protezione sussidiaria (art. 8, comma 2, d.lgs 25/2008) ed infine per la protezione umanitaria. Infatti, ormai da tempo la giurisprudenza della Cassazione ha statuito che la tripartizione delle misure di protezione contiene in sé la previsione dell’asilo costituzionale, sicché parrebbe evidente che anche la protezione umanitaria rientri nell’ambito del più generale «sistema asilo». Per cui anche in questo caso deve ritenersi sussistente la competenza collegiale e la sottoposizione al rito camerale.

La «protezione umanitaria» consiste, infatti, nel riconoscimento da parte delle Commissioni territoriali o del giudice del merito dell'esistenza di situazioni «vulnerabili» non rientranti nelle misure tipiche o perché aventi il carattere della temporaneità o perché vi sia un impedimento al riconoscimento della protezione sussidiaria, o, infine, perché intrinsecamente diverse nel contenuto rispetto alla protezione internazionale ma caratterizzate da un’esigenza qualificabile come umanitaria (problemi sanitari, madri di minori, etc.). Il permesso umanitario è una misura atipica e residuale idonea ad integrare l'ampiezza del diritto d'asilo costituzionale così come definito dall'art. 10 Cost. (vds. Cass. n. 15466/2014).

Questa soluzione è quella adottata dalla sezione 18 del Tribunale di Roma.

La competenza monocratica ed il rito sommario residua, quindi, solo nell’ipotesi in cui venga impugnato il provvedimento di rigetto del permesso di soggiorno per motivi umanitari adottato dal Questore.

Nonostante l’abolizione dell’appello deve ritenersi, pena l’incostituzionalità di tutta la nuova normativa procedurale avente ad oggetto diritti fondamentali della persona, che il giudizio innanzi al Tribunale conservi la sua caratteristica di giudizio sull’accertamento della sussistenza del diritto e non sull’atto amministrativo. Si tratta di un giudizio in parte sganciato dal principio della domanda (il giudice ha l’obbligo di verificare la sussistenza di tutte le ipotesi di protezione anche nel caso nel ricorso si chiedesse solo l’ipotesi più attenuata di protezione) e fondato sull’attenuazione dell’onere probatorio incombente sulla parte, in quanto soggetto al dovere di cooperazione istruttoria da parte del giudice.

Spesso la decisione si fonda esclusivamente sul giudizio di credibilità delle dichiarazioni del richiedente, alla luce delle informazioni sulla situazione socio-economica e politica del Paese di provenienza. L’audizione del richiedente ha un ruolo centrale ai fini della decisione, tanto che riterrei che il rigetto della domanda non possa fondarsi su un giudizio di non credibilità se il giudice non abbia sentito personalmente il richiedente, nel contraddittorio tra le parti, pena la incostituzionalità delle norme per violazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.) e del giusto processo (art. 111 Cost.), posto che nel procedimento innanzi alla Ct non è previsto nemmeno l’obbligo di difesa tecnica del richiedente e la presenza del difensore alla sua audizione; non è, infatti, prevista la possibilità del gratuito patrocinio trattandosi di un procedimento amministrativo e non giurisdizionale.

La Corte di giustizia ha avuto modo di pronunciarsi sulla necessità dell’audizione in caso di rigetto della domanda (Moussa Saks, 26 luglio 2017), stabilendo che è possibile non procedere all’audizione innanzi al giudice nella sola ipotesi in cui la domanda sia manifestamente infondata. Come abbiamo visto la legge italiana [art. 28-bis, comma 2, lettera a) del d.lgs 25/2008] definisce esattamente cosa deve intendersi domanda manifestamente infondata: quando «il richiedente ha sollevato esclusivamente questioni che non hanno alcuna attinenza con i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale ai sensi del d.lgs 251/2007». In tutti gli altri casi, pertanto, dovrà disporsi l’audizione del richiedente nel caso si intenda rigettare la domanda.

*Relazione tenuta al seminario “Il ruolo del giudice ordinario alla luce del cd. decreto Minniti-Orlando” organizzato dal dipartimento Economia e Diritto-Università La Sapienza e CECIL  (Roma, 9 gennaio 2018)

16/05/2018
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