A più di un anno dalla pronuncia della suprema Corte n. 12962 del 24 maggio 2016, l’istituto della stepchild adoption, come applicabile anche all’interno delle famiglie omosessuali, continua ad essere oggetto di studio ed elaborazione giurisprudenziale da parte delle Corti di merito.
In particolare, tre recenti pronunce rese nel maggio e nel luglio scorsi dai Tribunali per i minorenni di Venezia, Palermo e Bologna (TM Venezia, 31 maggio 2017, TM Palermo, 30 luglio 2017 e TM Bologna, 20 luglio 2017), pur aderendo in linea di principio all’indirizzo della Cassazione, e pur affermando che, l’applicabilità dell’art. 44, lett. d) della legge n. 184/1983 vada garantita anche alle coppie omosessuali, differiscono tra loro per alcune argomentazioni che, articolate da differenti punti di vista, portano a decisioni tra loro difformi.
Dunque, sebbene si possa ritenere ormai definitivamente superato l’orientamento di parte della giurisprudenza di merito che negava l’applicabilità di tale istituto alle coppie omogenitoriali (TM Torino, 11 settembre 2015 e TM Milano, 17 ottobre 2016, pronunce contrarie all’orientamento della Cassazione ed entrambe riformate in grado di appello), la giurisprudenza di merito offre variegati spunti di dibattito su alcune questioni sottese alla applicazione della norma, che meritano di essere vagliate.
In primo luogo, è utile ricordare che ormai acquisiti al dibattito, come rilevanti ed indiscussi presupposti per ogni utile approccio al tema, sono tanto il richiamo alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, in materia di adozione, vieta ogni possibile discriminazione tra coppie conviventi eterosessuali ed omosessuali (ai sensi degli artt. 8 e 14 Cedu), quanto il giudizio di pari idoneità genitoriale rispetto alle persone eterosessuali, di cui godono le coppie omogenitoriali, secondo l’ormai unanime giudizio della comunità scientifica che in tal senso si è espressa dopo accurati ed approfonditi studi di settore (studi richiamati dalla pronuncia della suprema Corte del 2016 e da copiosa giurisprudenza di merito). Tali due considerazioni, ormai patrimonio del bagaglio delle questioni poste al tappeto, rappresentano senza dubbio la garanzia per cui ogni ulteriore questione dibattuta – anche di natura squisitamente tecnica secondo i diritti sostanziali dei singoli stati membri della Unione e secondo le specifiche normative in materia di adozione – debba conformarsi ad essi quali ineludibile ostacolo a che, qualsiasi argomentazione in fatto o in diritto che, anche indirettamente, introduca elementi di giudizio che affermino una divergente posizione attiva tra coppie omosessuali e coppie eterosessuali, o rimetta in dubbio la questione relativa alla eguale idoneità genitoriale delle une e delle altre (salvo accertamenti in concreto da compiersi con i medesimi strumenti per ciascuna di esse), vada senza dubbio respinta, in quanto priva di dignità scientifica e giuridica.
Ciò posto, in assenza di una disciplina normativa, per le note vicende legate allo stralcio di essa dal corpo della legge n. 76/2016, sebbene i due presupposti suelencati appaiano ormai come questioni indiscutibili, la “delega” data alla giurisprudenza circa la applicazione della legge sulle adozioni anche alle coppie omosessuali (per effetto della clausola di riserva contenuta nell’art. 1, comma 20, legge n. 76/2016) presta il fianco a numerose prove di resistenza delle richieste di stepchild adoption, con esiti a volte differenti a seconda del tribunale adito, come le tre pronunce in esame attestano.
Il TM di Palermo, con la pronuncia del 30 luglio 2017, pur non contestando l’applicabilità della legge sulle adozioni anche alle coppie omosessuali secondo quanto affermato dalla Cassazione, muove una contestazione rispetto alla domanda di adozione presentata dal genitore sociale – nel concreto della fattispecie – basata sul meccanismo operativo della legge sulle adozioni, ed in particolare sul raccordo esistente tra l’art. 44 [la cui lett. d) disciplina l’adozione nelle cd. “forme speciali”] e gli artt. 48 e 50, per cui, evidenzia come, il vaglio positivo della domanda ed il riconoscimento positivo della relazione genitoriale tra il richiedente l’adozione e l’adottando (con conseguente statuizione della adozione), comporterebbe tuttavia la decadenza automatica dalla responsabilità genitoriale in capo al genitore biologico, circostanza rispetto alla quale quest’ultimo non ha pienamente manifestato il suo consenso allorquando lo ha invece inequivocabilmente espresso rispetto alla domanda di adozione proposta dal suo partner. A tali conclusioni il TM perviene sulla scorta di una lettura molto rigorosa (ed invero poco rispettosa del “sistema filiazione” come delineato a seguito della legge n. 219/2012) dell’art. 48 della legge citata che prevede che, in caso di adozione da parte del «coniuge» del figlio dell’altro «coniuge», la responsabilità genitoriale sarà poi esercitata da entrambi, ragion per cui, a contrariis, nel caso in cui tale adozione avvenga all’interno di un vincolo non matrimoniale (ove non è possibile indicare l’adottante come «coniuge» del genitore del minore adottando), per effetto della adozione del minore da parte del genitore sociale, quello biologico ne perderebbe la responsabilità genitoriale; il rigetto della domanda, a cui dunque il tribunale perviene, si basa proprio sul mancato consenso espresso dal genitore biologico rispetto a tale conseguenza, per lui pregiudizievole, della adozione richiesta da parte del suo convivente (consenso che, è utile osservare, contrariamente a quanto dedotto dal tribunale, non potrebbe in ogni caso mai essere validamente prestato, atteso che la responsabilità genitoriale non è un diritto disponibile a cui abdicare).
Tale argomentazione, a parte una censura in rito (il tribunale solleva tale eccezione senza che alcuna delle parti la proponga), presta il fianco a numerose obiezioni che trovano il loro fondamento nei principi ispiratori della riforma del 2012, e nel conseguente superamento di qualsiasi pregressa eterogeneità della filiazione, percorso che ha consentito di ritenere ormai operante lo status unitario di figlio; nello specifico, l’art. 315 bis cc statuisce la parificazione assoluta delle relazioni genitoriali, ragion per cui, qualsiasi sia la «fonte» dell’essere genitori (concepimento naturale in corso di matrimonio o al di fuori di esso, adozione in qualsiasi forma la si ottenga), ogni figlio ha pari status giuridico, ed ogni genitore ha pari doveri nei suoi confronti secondo le ordinarie regole che disciplinano in astratto ed in concreto l’esercizio della responsabilità genitoriale. Il fondamento di tale principio, e la sua concreta operatività come disciplinata dalla norma in questione, non consente certo di ritenere che il dato letterale dell’art. 48 e la lettura acritica del termine «coniuge» possa ancora introdurre differenti discipline, quanto agli effetti della adozione (che è uno dei momenti genetici della filiazione), tra genitori uniti in matrimonio e coppie di persone tra loro conviventi. Una lettura più attenta e conforme ai principi della legge che disciplina ormai da cinque anni l’intero corpus della filiazione (e conseguentemente della genitorialità), può invece portare a conclusioni differenti, come osservato da autorevole dottrina, e cioè a ritenere che ormai, stante la generale disciplina di cui all’art. 315 bis cc, l’operatività dell’art. 48 della legge n. 184/1983, così come quella di cui agli artt. 147 e 148 cc (norme sulla condivisione della responsabilità genitoriale all’interno del matrimonio) appaiano pleonastiche e ridondanti rispetto ad un principio generale che ne riafferma il contenuto, inserendolo tuttavia in un più ampio raggio di azione, quale quello dello status unitario di genitore, oltreché di figlio.
Ed in questa ottica, appare non corretto anche il richiamo all’art. 50 della legge sulle adozioni che il TM di Palermo opera a maggior conforto del suo ragionamento: la norma infatti stabilisce che, laddove il genitore adottante sia successivamente privato della responsabilità genitoriale, occorre un apposito provvedimento del giudice per far sì che la responsabilità dei genitori biologici torni ad essere operante. Tale argomento è fuorviante rispetto ai principi sin qui esposti, atteso che, come osservato correttamente dal TM di Bologna nella sentenza del 20 luglio 2017, la norma di cui all’art. 50 della legge sulle adozioni è norma eccezionale e vale soltanto nelle ipotesi in cui al genitore adottante sia stata attribuita in via esclusiva, per effetto della adozione, la responsabilità sul minore adottato, e dunque non è pertinente il suo richiamo nel meccanismo della stepchild adoption, ove, come si è evidenziato, i principi generali di cui all’art. 315 bis cc garantiscono che, per effetto della adozione disposta, la responsabilità genitoriale dell’adottante si aggiunga (e non si sostituisca) a quella del genitore biologico.
Dunque, l’interpretazione della norma e dell’intera disciplina delle adozioni al caso di specie data dal TM di Palermo, non solo non appare rispettosa della necessità di armonizzare l’intero sistema al principio generale dello status unitario della filiazione, evitando arbitrarie disparità di trattamento ormai ritenute contra legem, ma è in netto contrasto con il principio della bigenitorialità, atteso che, nelle ipotesi di stepchild adption, per effetto della stessa, si consente sempre e soltanto di aggiungere una figura esercente la responsabilità genitoriale (il genitore sociale) a chi la esercita già in via esclusiva (l’unico genitore biologico del minore); inoltre, si evidenzia, tale interpretazione non è affatto coerente alla disciplina delle adozioni nelle forme speciali (a cui la stepchild adoption va ascritta), che, a differenza delle adozioni cd. “piene” (art. 27, legge n. 184/1983) consente all’adottato di mantenere diritti e doveri nei confronti della famiglia di origine.
Ed allora, rispetto a questa interpretazione ferma ad un dato letterale recepito acriticamente, e reso avulso da un contesto sistematico di norme e principi con cui essa stride in modo evidente, appaiono senz’altro più corrette e coerenti a tale sistema le argomentazioni riportate nella pronuncia del TM di Bologna del 20 luglio 2017, secondo cui, «l’origine del progetto genitoriale», e dunque la natura della relazione in cui tale progetto si sviluppa (matrimoniale, di fatto, eterosessuale od omosessuale) non ha alcuna possibilità di incidere in modo differente sullo status giuridico dei figli che è sempre quello unitariamente disciplinato dalla novella del 2012 sulla filiazione (e segnatamente agli artt. 315 e ss cc), e dunque l’unica e valida ragione per riconoscere l’adozione da parte del genitore sociale risiede sempre nel supremo interesse del minore a vedersi riconosciuti diritti e vantaggi connessi al riconoscimento pubblico del legame genitoriale già esistente con il genitore sociale; tale esigenza si pone come circostanza di prim’ordine che può essere pienamente armonizzata all’interno del nuovo sistema giuridico della disciplina della filiazione, in cui allo status unitario di figlio corrisponde, in via speculare, lo status unitario di genitore, qualsiasi sia la natura del rapporto di coppia e la genesi della relazione filiale.
Di secondario interesse rispetto alla ricostruzione in diritto della norma in questione, appare poi la recente pronuncia del TM di Venezia, che tuttavia merita attenzione (o forse suscita mera curiosità) in relazione ad alcune considerazioni contenute nella pur succinta motivazione. La corte veneziana, pur arrivando ad accogliere la domanda presentata da una madre sociale, e dando atto della piena adesione agli orientamenti della Cassazione in materia, ritiene indispensabile evidenziare la circostanza che le due donne siano ben consapevoli della necessità che i figli si relazionino con persone di orientamento non omosessuale. Sul punto, come già sottolineato in precedenti commenti a tale pronuncia (Il dialogo fra le corti minorili in materia di stepchild adoption, M. Gattuso e A. Schillaci, in www.articolo29.it, 11 settembre 2017), la circostanza per cui i genitori sentano l’esigenza di far confrontare i propri figli con persone di differente provenienza sociale, religiosa e razziale, e di differenti orientamenti sessuali, è senza dubbio un elemento positivo in un percorso educativo degli stessi, ma che il tribunale ritenga di sottolineare tale esigenza solo con riferimento ad una coppia omosessuale, è una circostanza che rende la motivazione del provvedimento non solo singolare, ma decisamente intrisa di valutazioni metagiuridiche e non pertinenti, nonché decisamente poco opportune, come se il collegio giudicante sentisse l’esigenza di tutelare il minore da un ambiente “atipico”, invitando i genitori a consentirgli il più possibile il raffronto con il mondo della “normalità”, almeno dal punto di vista statistico. Una evidente e, si spera, ingenua caduta di stile che, più che interesse scientifico, suscita curiosità quanto al confine delle motivazioni in diritto nei procedimenti in materia di famiglia, confine che nel caso di specie, presenta qualche difficoltà di demarcazione.
L’istituto della stepchild adoption dunque mantiene un primario ruolo nel mondo della genitorialità omosessuale, a riprova che il TM di Roma, nel 2014 (con la pronuncia poi definitivamente ratificata nel 2016 dalla Corte di cassazione) seppe sapientemente argomentare, non solo dal punto di vista della corretta ricostruzione dei confini applicativi della norma di cui all’art. 44, lett d) legge n. 184/1983, ma offrì una evoluta ed esaustiva ricognizione del concetto di «interesse del minore» nell’intero sistema delle relazioni genitoriali, dando giusto spazio all’esame della qualità della relazione, prescindendo dall’orientamento sessuale del richiedente l’adozione, elemento in fatto che, come poi statuito dalla Corte di cassazione, neanche indirettamente può essere aprioristico oggetto di valutazione tra gli elementi da vagliare per riconoscere o meno il diritto fatto valere. La giurisprudenza appare dunque sostanzialmente coerente nel ritenere ormai consolidati tali principi, che per effetto della clausola di riserva di cui al comma 20 dell’art. 1, legge. n. 76/2016, rappresentano, tra l’altro, la garanzia dell’accesso alla disciplina delle unioni civili di quanto la giurisprudenza stessa «consente» in relazione alla ampiezza applicativa della disciplina sulle adozioni. Mai come in questo campo, l’opera meritoria della giurisprudenza, a garanzia della trasversalità del diritto alla vita familiare (e dunque anche alla genitorialità) supplisce quotidianamente un ingiustificato ed imbarazzante silenzio del legislatore sul mondo della genitorialità omosessuale, realtà viva e complessa, che meriterebbe maggiore attenzione e dignità pubblica, a garanzia e tutela soprattutto di tutte le relazioni genitoriali già esistenti nei nuclei familiari omoaffettivi, sia che le si osservi dalla primaria prospettiva dell’interesse del minore, che da quella del diritto alla genitorialità da parte dell’adulto, entrambi elementi che, in una sana ricostruzione del complesso delle dinamiche familiari, meritano un approccio, anche giuridico, che sappia valorizzarli e armonizzarli senza alcun pregiudizio.