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Giurisprudenza e documenti

Violenza di genere e protezione internazionale. Note a margine di un recente orientamento della Corte di cassazione

di Diana Genovese
ricercatrice dell’Altro diritto e dottoranda in Teoria e Storia dei diritti umani presso l’Università di Firenze
Già nel 2002 l’Unhcr (Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati) aveva evidenziato come storicamente la definizione di “rifugiato” fosse legata ad un quadro di esperienze tipicamente maschili, trascurando la particolare condizione in cui si trovano le donne in alcune zone di provenienza.

La portata innovativa delle sentenze della Corte di cassazione in commento sta nell’aver sancito il diritto alla protezione internazionale per le vittime di violenza di genere, le quali possono vedersi riconosciuto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria.

Si tratta di un’evoluzione che mira a proporre l’utilizzo di una prospettiva di genere nel guardare alla protezione internazionale.

Già nel 2002 l’Unhcr, mettendo a punto le linee guida sulla persecuzione di genere [1], aveva evidenziato come storicamente la definizione di “rifugiato” fosse legata ad un quadro di esperienze tipicamente maschili, trascurando la particolare condizione in cui si trovano le donne in alcune zone di provenienza. Per contrastare una tale tendenza, le linee guida propongono un’interpretazione che dia conto di questa specificità, valorizzando adeguatamente le istanze relative al genere. In particolare, sottolinea l’Unhcr, occorre valutare il fondato timore di persecuzione alla luce di tutte le circostanze del caso concreto. L’analisi della situazione del Paese di origine non può, evidentemente, limitarsi all’esame della sola legislazione esistente: non basta verificare che alcune pratiche persecutorie siano proibite, occorre accertare che esse non siano neanche di fatto tollerate e che le autorità siano in grado di impedire effettivamente il loro manifestarsi.

In questo senso è andata la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica siglata ad Istanbul l’11 maggio 2011 [2].

Tale Convenzione, oltre a prevedere una serie di obblighi di criminalizzazione negli ordinamenti interni (gender-based crimes), sancisce all’art. 60 che gli Stati firmatari devono adottare «le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell’articolo 1, A(2) della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e come una forma di grave pregiudizio che dia luogo a una protezione complementare/sussidiaria».

In altre partole, le parti sono tenute a riconoscere che la violenza di genere può costituire una persecuzione, e sfociare nella concessione dello status di rifugiato, ovvero può costituire un danno grave, tale da giustificare il riconoscimento della protezione sussidiaria, così come definita dalla Direttiva 2011/95/UE.

L’art. 60, al par. 2, richiede, inoltre, che gli Stati adottino un’interpretazione sensibile al genere (gender-sensitive interpretation) per ciascuno dei motivi menzionati dalla Convenzione di Ginevra. Lungi dall’implicare un automatico riconoscimento della protezione internazionale a tutte le donne, questa disposizione impone una valutazione dei casi concreti, alla luce delle singole specificità, che tenga conto di come il genere possa influire sui motivi della persecuzione o sul rischio di un danno grave. L’Explanatory Report [3] della Convenzione di Istanbul richiama esplicitamente le linee guida dell’Unhcr del 2002 che esemplificano i casi nei quali potrebbe sussistere il rischio che le donne siano perseguitate per ragioni correlate con una della fattispecie contenute nella Convenzione di Ginevra del 1951.

All’interno di questo contesto si inserisce la sentenza n. 28152/2017 della Corte di cassazione [4], la quale si è occupata del caso di una cittadina nigeriana costretta ad abbandonare il proprio Paese di origine per essersi rifiutata, dopo la morte del marito, di unirsi in matrimonio con il cognato come impongono le pratiche funebri tradizionali locali. In conseguenza del suo rifiuto la donna era stata allontanata dalla sua abitazione, aveva perduto la potestà sui figli, era stata spogliata delle sue proprietà e perseguitata dal fratello del marito deceduto.

La richiesta di protezione internazionale era stata rigetta dalla Corte d’appello di Bologna. Secondo quest’ultima, tale situazione non può configurare una persecuzione ai sensi dell’art. 7 del d.lgs 251/2007 in quanto la richiedente, rivoltasi alle autorità del suo villaggio, aveva potuto sottrarsi all’applicazione del diritto consuetudinario locale e aveva scelto volontariamente di andare via.

Nel caso di specie, la Corte di cassazione ha deciso nel merito e riconosciuto lo status di rifugiato, ritenendo che la decisione della Corte territoriale si ponga in contrasto con il tenore dell’art. 7 del d.lgs 251/2007, secondo cui gli atti di persecuzione devono essere «sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali» (primo comma, lett. a) e possono assumere la forma, tra l’altro, di «atti specificatamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia» [secondo comma, lett. f)].

In particolare, la suprema Corte richiama l’art. 60 della Convenzione di Istanbul e le linee guida dell’Unhcr del 2002, sopra menzionate, le quali al punto 25 evidenziano come in alcuni Stati, la religione assegni particolari ruoli o codici comportamentali rispettivamente alle donne e agli uomini. In questi casi, una donna, laddove non si attenga al ruolo assegnatole o rifiuti di attenersi ai codici, rischia di essere punita per il suo comportamento e questo rischio può generare in lei un fondato timore di essere perseguitata. Il mancato attenersi a tali codici potrebbe, infatti, essere percepito come una prova che la donna abbia opinioni religiose inaccettabili. Una donna potrebbe, dunque, dover subire un danno per il suo rifiuto, non importa se reale o supposto, di sposare determinate opinioni, di praticare una religione prescritta o di conformare il suo comportamento agli insegnamenti di una determinata religione.

Nella vicenda sottoposta all’attenzione della Corte di cassazione, la richiedente, professante la religione cristiana, si era rifiutata di sottostare alle regole consuetudinarie del proprio villaggio subendo per tale motivo la persecuzione da parte del cognato oltre che la perdita di alcuni dei suoi diritti fondamentali. Nonostante la stessa si fosse rivolta all’autorità locali, come rilevato dalla Corte d’appello, la sentenza della suprema Corte sottolinea come quest’ultime non avessero impedito che la donna perdesse i suoi figli e i suoi beni.

I giudici della Corte di cassazione ritengono pertanto che i fatti narrati della cittadina nigeriana rientrino a pieno titolo tra quelli cui fa riferimento la Convenzione di Istanbul e previsti dall’art. 7 del d.lgs 251/2007: la donna deve essere considerata vittima di una persecuzione personale e diretta per la sua appartenenza – in quanto donna – ad un gruppo sociale. Come è noto, inoltre, qualora la persecuzione provenga da un soggetto non statuale si richiede la verifica della capacità dello Stato di provenienza di offrire un’adeguata protezione alla vittima di persecuzione. Nel caso di specie, proprio il peso delle norme consuetudinarie locali avrebbe impedito alla ricorrente, secondo la Corte, di trovare adeguata protezione nelle autorità statuali.

Questa pronuncia si inserisce nell’ambito di un recente orientamento inaugurato dalla sentenza n. 12333/2017 della Corte di cassazione [5] su un caso di violenza domestica. La vicenda riguardava una cittadina marocchina vittima per anni di abusi e violenze da parte del marito anche dopo aver ottenuto il divorzio. A causa di questi episodi, l’ex-marito era stato condannato in Marocco alla pena di tre mesi di reclusione con sospensione condizionale della pena.

Lasciato il suo Paese, la donna ha fatto richiesta di protezione internazionale adducendo che in caso di rientro in Marocco sarebbe stata nuovamente esposta agli abusi e alle violenze dell’ex-marito. Sia la Commissione territoriale che il giudice di primo e secondo grado hanno rigettato la richiesta in ragione del fatto che la vicenda narrata rientrerebbe nell’ambito dei rapporti familiari non meritevoli di protezione internazionale, considerate le possibilità di tutela offerte alla donna dal suo Paese di origine.

In questo caso, la Corte di cassazione ha cassato la sentenza Corte d’appello di Roma, perché non aveva approfondito la situazione del Paese di provenienza della ricorrente e accertato l’effettiva capacità delle autorità statuali di offrire un’adeguata protezione alla donna, vittima delle violenze dell’ex-marito.

Secondo la Corte, la vicenda della donna marocchina trova tutela nelle previsioni della Convenzione di Istanbul. Ai sensi dell’art. 3, lett. b), della predetta Convenzione si definisce la «violenza domestica» come «tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima». I giudici della suprema Corte aderiscono, in particolare, alla tesi sostenuta nel ricorso secondo cui questa forma di «violenza domestica» andrebbe ricondotta nell’ambito dei trattamenti inumani e degradanti cui fa riferimento l’art. 14, lett. b), d.lgs 251/2007.

Una simile interpretazione appare coerente con la formulazione dell’art. 60 della Convenzione di Istanbul che, come ricordato, impone agli Stati firmatari di riconoscere la violenza di genere come elemento atto a fondare la protezione sussidiaria.

Giova, infine, ricordare che, oltre alla protezione internazionale, sussiste in Italia la possibilità di rilasciare un permesso per motivi umanitari alle vittime straniere di violenza domestica quando il fatto si verifichi in Italia e non nel Paese di provenienza.

Il dl 93/2013 ha infatti inserito nel corpo del d.lgs 286/1998 (TUI) il nuovo art. 18-bis [6], che consente il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari alle vittime straniere di reati inerenti la violenza domestica [7], qualora il questore ritenga sussistente un «concreto ed attuale pericolo per la sua incolumità, come conseguenza della scelta di sottrarsi alla medesima violenza o per effetto delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio».

Tale istituto risulta speculare a quello di cui all’art. 18 del d.lgs 286/1998, già esistente, con cui condivide sia la biforcazione nell’accesso (percorso giudiziario e percorso sociale [8]) sia gli stringenti requisiti per ottenere il titolo di soggiorno.

Secondo quanto si evince dalla relazione del Governo accompagnatoria del disegno di legge di conversione, la nuova disposizione dovrebbe dare attuazione all’art. 59 della Convenzione di Istanbul. La traduzione della norma internazionale nell’ordinamento interno non sembra tuttavia coglierne appieno lo spirito.

L’art. 59 della predetta Convenzione dispone, infatti, che le vittime «il cui status di residente dipende da quello del coniuge o del partner, conformemente al loro diritto interno, possano ottenere, su richiesta, in caso di scioglimento del matrimonio o della relazione, in situazioni particolarmente difficili, un titolo autonomo di soggiorno, indipendentemente dalla durata del matrimonio o della relazione».

Appare evidente che lo slittamento da «situazioni particolarmente difficili» al «concreto e attuale pericolo per l’incolumità» previsto dall’art. 18-bis vada a detrimento di tutte quelle situazioni in cui, pur sussistendo una violenza fisica, psicologica od economica, non si ravvisino ancora i profili di alto rischio che la norma italiana richiede per il rilascio del permesso di soggiorno.

Alla luce di queste considerazioni, il nuovo istituto non sembra porsi in linea con quanto richiesto dalla Convezione di Istanbul: un’adeguata attuazione della stessa avrebbe, infatti, richiesto la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell’art. 5, comma 6, TUI [9], che del resto deve essere rilasciato in forza di seri motivi risultanti da obblighi internazionali dello Stato italiano, quali sono sicuramente quelli previsti dalla Convenzione di Istanbul.

Al contrario, il legislatore ha voluto creare un istituto che ricalca quello del permesso di protezione sociale ex art. 18 TUI, che tuttavia si incentra sull’ammissione della vittima ad uno specifico programma di assistenza ed integrazione sociale idoneo a sostenere la vittima a seguito della scelta di affrancarsi dalla situazione di violenza cui è sottoposta. L’omissione della previsione di un tale programma nell’art. 18-bis rende evidente l’incoerenza della novità normativa, che da una parte richiede l’accertamento di un grave pericolo – verosimilmente – per la vita della donna, e dall’altra non prevede alcuna tutela di tipo socio-assistenziale né alcuna protezione dalle eventuali ritorsioni dell’aggressore. La mancanza di un’adeguata alternativa esistenziale alle donne che decidono di intraprendere un percorso di uscita dagli abusi subiti rischia dunque di limitarne notevolmente la portata applicativa.

In ogni caso, la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale e i giudici delle sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, nell’esaminare i casi di violenza di genere, dovranno tenere in considerazione questo nuovo strumento, segnalando al questore le situazioni di violenza domestica, eventualmente verificatisi durante il periodo di accoglienza, e invitandolo al rilascio dei provvedimenti di sua competenza.

 


[1] Unhcr, Linee guida sulla protezione internazionale n. 1. La persecuzione di genere nel contesto dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati, 7 maggio 2002, HCR/GIP/02/01, reperibili sul sito: http://www.refworld.org/cgi-bin/texis/vtx/rwmain/opendocpdf.pdf?reldoc=y&docid=5513ca474

[2] Reperibile sul sito: https://www.coe.int/it/web/conventions/full-list/-/conventions/treaty/210. Ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 giugno 2013, n. 77.

[3] Council of Europe, Explanatory Report to the Council of Europe Convention on preventing and combating violence against women and domestic violence, 11 maggio 2011, reperibile sul sito: https://rm.coe.int/16800d383a

[4] Cass. Civ., Sez. I, 24 novembre 2017, n. 28152.

[5] Cass. Civ., Sez. VI, 17 maggio 2017, n. 12333.

[6] Articolo inserito dal dl 14 agosto 2013, n. 93, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province, convertito con modificazione in legge 15 ottobre 2013, n. 119.

[7] I delitti menzionati dalla norma in esame sono: maltrattamenti in famiglia (art. 572 cp), lesioni personali, anche aggravate (artt. 582, 583 cp), mutilazioni genitali femminili (art. 583-bis cp), sequestro di persona (art. 605 cp), violenza sessuale (art. 609-bis cp), atti persecutori (art. 612-bis cp) ovvero per uno dei reati per cui è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza (art. 380 cpp) commessi in Italia in ambito di violenza domestica.

[8] Si tratta dell’ipotesi in cui le medesime situazioni di violenza o abuso emergano nel corso di interventi assistenziali dei centri antiviolenza, dei servizi sociali territoriali o dei servizi sociali specializzati nell’assistenza delle vittime di violenza.

[9] In tal senso si veda: B. Spinelli e N. Zorzella, Il permesso di soggiorno alle vittime straniere di violenza domestica: uno strumento inadeguato e inefficace, in documenti ASGI, reperibile al sito: http://old.asgi.it/home_asgi.php%3Fn=2874&l=it.html

05/02/2018
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