Magistratura democratica

La riforma delle misure di sicurezza e il necessario ripensamento del percorso di cura

di Antonella Calcaterra

Il processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari come occasione di  sviluppo di rinnovate matrici culturali: non solo chiusura di “antiche scale”, ma riaffermazione di paradigmi inclusivi e riabilitativi, volti a restituire la soggettività alle persone malate. Una storia di de istituzionalizzazione con avvisi importanti per tutti i naviganti nel mare delle detenzioni.

La chiusura degli Opg, che senza ombra di dubbio rappresenta un importantissimo passaggio culturale in avanti, deve ora essere necessariamente accompagnata da un mutamento del «discorso psichiatrico», ancora troppo focalizzato sulla sola malattia ed impegnato in logiche contenitive, farmacologiche e di scarsa accoglienza. Solo quando l’attenzione si sposterà sulla cura della salute mentale delle persone in senso ampio e sugli aspetti dell’inclusione sociale e territoriale potremmo incominciare a vedere un futuro diverso e saremo di fronte ad vera applicazione dei contenuti della  riforma iniziata con la legge n. 9 del 2012 e terminata  con la legge n. 81 del 2014.

Perché di questo si parla in quella legge riformatrice, intervenuta non solo per operare una «chiusura di luoghi orrendi e crudeli», ma anche per affermare principi che coinvolgono il tema più ampio della cura e dei criteri cui essa si deve ispirare. Quella cura che deve costituire il nuovo e differente nucleo della misura di sicurezza  come declinata nell’intervento legislativo del 2014.

Si passa da un modello di cura istituzionalizzante dentro un sistema di misure di sicurezza per lo più detentive ad un modello di trattamento personalizzato ispirato a paradigmi riabilitativi ed inclusivi all’interno di un sistema di misure di sicurezza non detentive, salvo che in ipotesi caratterizzate da eccezionale gravità.

Il vero obiettivo è oggi è quello di favorire la concreta applicazione dei nuovi criteri che regolano e disciplinano le misure di sicurezza, ma anche e soprattutto di fare in modo che quelle misure non detentive tendano a «restituire la soggettività» a ciascuna persona con cure riabilitative ed inclusive. 

Due obiettivi di non facile ed immediata applicazione. Per decenni, infatti, il sistema è stato improntato ad una logica per lo più detentiva e ad una psichiatria di contenimento con conseguenziale espulsione del malato dal contesto sociale. Il processo inverso, peraltro già fortemente incentivato dalle pronunce della Corte costituzionale e dal DCPM del 2008 ma rimasto senza grandi risultati, non sarà di facile ed immediata applicazione.

1. I passaggi legislativi e l’avvio di un ripensamento del processo di cura

La disciplina che regolamenta  l’applicazione delle misure di sicurezza ed il modello di cura degli autori di reato è stata fortemente e sostanzialmente modificata dai vari interventi legislativi che hanno avuto il merito di introdurre un nuovo paradigma di cura fondato sul riconoscimento della persona; sulla base dell’imprescindibile principio secondo cui il rispetto della dignità e dei diritti della persona costituisce il principale presupposto di un intervento terapeutico efficace.

L’ultimo e più rivoluzionario, proprio per la portata in termini di modifica dei presupposti per l’applicazione delle misure e di contenuto delle cure che ne costituiscono la ragione applicativa, è quello che deriva dalla legge n. 81 del 30 maggio 2014 che è intervenuta con modifiche sul decreto legislativo n. 52 del 31 marzo 2014.

Il percorso di riforma ebbe inizio nel 2012 con la legge n. 9 del 17 febbraio  2012, ed in particolare con l’art. 3ter di quella legge, sul quale si sono innestati negli anni successivi, ed in forza di provvedimenti apparentemente deputati alla sola proroga del termine, modifiche strutturali all’impianto delle misure di sicurezza che hanno via via sancito il passaggio definitivo ad un approccio trattamentale e non segregante dell’autore di reato malato di mente.

Lo stesso art. 3ter della legge n. 9/2012, oltre a stabilire un termine per processo di superamento degli Opg e a dettare una serie di indicazione sulle nuove e future Rems, faceva riferimento, da un lato, alla necessaria e rapida presa in carico sul territorio dai dipartimenti di salute mentale delle persone dimissibili e, dall’altro, al comma 5 alla necessità di assunzione di personale «qualificato da dedicare ai percorsi terapeutici riabilitativi finalizzati al recupero e al reinserimento sociale dei pazienti internati provenienti dagli ospedali psichiatrici giudiziari».

In alcuni passaggi e con alcuni incisi già nel 2012 si era cercato di porre qualche limite ai cosiddetti internamenti di carattere sociale, ossia a quelle proroghe dovute solo a ragioni di carattere socio-economico (più che a ragioni mediche e penali) e che riguardavano soprattutto persone disagiate senza riferimenti di accoglienza o di cura, ma si era cercato di dare anche indicazione sul carattere dell’accoglienza che i servizi avrebbero dovuto porre in essere.

Difficile dimenticare la mancanza nei servizi di operatori dedicati alle persone internate e la ferma ritrosia alla presa in carico di persone provenienti dal circuito penale. Sulla qualità della presa in carico eventualmente posta in essere, che in fondo costituisce il principale presupposto per la «tenuta» della persona, inutile spendere parole.

Il decreto legge n. 24 del 25 marzo 2013, poi convertito nella legge n. 57 del 23 maggio 2013, nel sancire una proroga del termine, intervenne anche introducendo alcuni ulteriori passaggi significativi sui principi che avrebbero dovuto regolare l’applicazione delle misure di sicurezza, le cure e la messa a punto da parte delle Regioni dei presupposti indispensabili per la concreta applicazione di quei principi.

Nel comma 6 innestato sul medesimo art. 3ter era precisato che i programmi di intervento regionale, oltre agli interventi strutturali, avrebbero dovuto prevedere «attività volte progressivamente ad incrementare la realizzazione dei percorsi terapeutici riabilitativi di cui al comma 5 (percorsi terapeutici riabilitativi finalizzati al recupero e al reinserimento sociale dei pazienti), definendo prioritariamente tempi certi e impegni precisi per il superamento degli Opg, prevedendo la dimissione di tutte le persone internate per le quali l’autorità giudiziaria abbia già escluso o escluda la sussistenza di pericolosità sociale, con l’obbligo per le aziende sanitarie locali di presa in carico all’interno di progetti terapeutici – riabilitativi che assicurino il diritto alle cure e al reinserimento sociale, a nonché a favorire l’esecuzione di misure di sicurezza alternative al ricovero in Opg o all’assegnazione alla casa di cura e custodia».

Non v’è chi non veda in questo passaggio normativo un recupero dell’imperativo basagliano che focalizza l’interesse prioritario sul malato e sulla rilevanza dei progetti di cura individuali e non solo sulla malattia. Furono sanciti i principi della priorità della cura territoriale e della inclusione sociale e del favore verso misure di sicurezza ispirate ai suddetti criteri e la necessità della messa a punto da parte delle Regioni di quanto indispensabile per l’applicazione di questi nuovi principi.

Nonostante la chiarezza di contenuti, essi non  trovarono facile applicazione.

I programmi attuativi regionali si discostavano da quanto previsto espressamente nella legge n. 57 del 2013 e disattendevano i principi di “deistituzionalizzazione”, in ragione di logiche soprattutto funzionali a politiche di contenimento, rispondenti a paure collettive, reali o presunte.

Con nota programmatica del 29 ottobre 2013 il ministero della Salute richiamava formalmente gli assessorati regionali  ed invitava le Regioni a non impegnarsi solo nella costruzione di nuovi posti letto nelle Rems, ma a rispettare soprattutto e principalmente quei principi di umanizzazione della cura, di inclusione sociale attraverso percorsi terapeuti riabilitativi e, conseguentemente, a prevedere anche il potenziamento delle risorse territoriali (riforma, quest’ultima, attraverso la quale si sarebbe  potuto dare concreta applicazione ai nuovi criteri di scelta di misure di sicurezza).

La svolta definitiva in termini di chiarezza si è avuta con la legge n. 81 del 30 maggio 2014 che, nel convertire il decreto legislativo n. 52 del 31 marzo 2014 (che era intervenuto ancora una volta sull’art. 3ter, come via via modificato, sancendo in limine il nuovo termine per la chiusura degli Opg al 31 marzo 2015) ha modificato in maniera decisa la disciplina delle misure di sicurezza ed i contenuti di cura cui esse si devono ispirare.

La legge di conversione, da un lato insistendo ancora sull’art. 3ter e dall’altro aggiungendo altri commi (commi 1ter, 1quater, commi 2 e 2bis), è molto più di un semplice provvedimento di proroga, ma costituisce una vera e propria riforma sostanziale delle misure di sicurezza a codice penale inalterato.

A fronte dell’inerzia delle Regioni, della resistenza della psichiatria, chiamata sin dal 2008 alle proprie responsabilità rispetto ai pazienti internati e silente per troppo tempo, la legge n. 81 semplicemente ha disarticolato il sistema, sancendo il superamento dell’approccio detentivo e segregante proprio delle misure di sicurezza e voltando in buona sostanza le spalle alle strutture detentive, il cui termine per la chiusura era nuovamente prorogato sino al 31 marzo 2015, ma che di fatto avrebbero potuto essere utilizzate solo in via marginale e residuale, e con obbligo motivazionale preciso sulla inidoneità delle misure non detentive.

La legge prevede due gruppi di disposizioni rilevantissime per il peso che le medesime hanno o che dovrebbero avere sul destino degli internati e di coloro che con problemi connessi alla malattia sarebbero entrati nel circuito penale.

Un gruppo di norme  destinate a monitorare il percorso di chiusura degli Opg attraverso la verifica di una corretta attività delle Regioni, a curare la ridefinizione dei programmi regionali  in funzione del contenimento del numero dei posti letto e a garantire che ciascun internato avesse un percorso di dimissione dalla struttura penitenziaria con progetto terapeutico riabilitativo predisposto dalle Regioni, attraverso i dipartimenti di salute mentale, da inviarsi all’Autorità giudiziaria procedente e al ministero della Salute entro 45 giorni dall’entrata in vigore della legge.

Previsione questa che ha consentito di dare un volto a ciascun internato e di “fare un pensiero” in termini di cura che fosse riferito alla persona. 

Un ulteriore gruppo di norme è intervenuto in modo sostanziale sul sistema misure di sicurezza, da un lato formalizzando il principio di sussidiarietà o residualità dell’applicazione della misura del ricovero in Opg o in casa di cura, dall’altro prevedendo criteri specifici e limitati per l’accertamento della pericolosità sociale in sede di valutazione o rivalutazione della stessa in ipotesi di persona inferma di mente e, non ultimo, stabilendo la regola generale della durata massima per le misure di sicurezza detentive. 

L’art.1 comma 1 lettera b) ha inserito una regola generale, che cristallizza il principio di residualità delle misure di sicurezza detentive: «Il Giudice dispone nei confronti dell’infermo di mente e del seminfermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza, anche in via provvisoria, diversa dal ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura, salvo quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale».

La legge ha compiuto, quindi, un ulteriore e decisivo passo verso il superamento ormai definitivo dell’automatismo applicativo di misure di sicurezza detentive, che ora possono essere disposte dal giudice solo come extrema ratio dopo aver dimostrato la inadeguatezza di ogni altra soluzione.

La rosa dei criteri disponibili per l’accertamento della pericolosità sociale è stata ridotta,  stabilendosi che può avvenire “sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’art. 133, II comma, numero 4 del codice penale”  e prevedendo che non possa costituire “elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali(art. 1 comma 1 lettera b).

Non si può dimenticare in quante occasioni il ricorso alla misure detentive sia stato motivato dalle sole condizioni di marginalità, isolamento sociale e mancanza di supporto di una rete esterna e di prese in carico da parte dei servizi competenti, più che da condizioni cliniche seriamente verificate. Per usare le stesse parole del Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, intervenuto al Senato nel marzo 2014, «la durata delle misure spesso, attualmente, non è dipendente dalla pericolosità del paziente, ma da uno stato di abbandono della persona rinchiusa o dalla mancanza di accoglienza fuori».

Su questo punto si sono focalizzate le principali discussioni tra gli studiosi e gli operatori, in ragione delle limitazioni imposte dalla legge ad una valutazione che resterebbe «monca, isolata e decontestualizzata dalle qualità soggettive della persona». Si sostiene che la norma esprimendosi a favore di una pericolosità sociale decontestualizzata restituirebbe una immagine «antropologicamente distorta dell’autore di reato»[1] come di una persona estranea alle influenze esterne.

La modifica operata sul punto non pare, però, significhi dover trascurare, sotto il profilo anamnestico, le ragioni economico sociali che possono aver determinato la condotta del soggetto, ovviamente rilevanti, come per ogni essere umano, nel dispiegarsi del suo agito, o escludere la valutazione medica delle componenti bio-psico-relazionale e dei possibili condizionamenti esterni sul disturbo psichico. In buona sostanza è possibile che le «le componenti sociali, familiari ed economiche assumano rilievo eventuale e mediato nella considerazione delle qualità soggettive della persona per una più approfondita valutazione del funzionamento psicopatologico del reo e dei meccanismi che determinano lo scompenso comportamentale»[2].

La novella ha semplicemente inteso rompere, per le ragioni sopra evidenziate, quella coazione a ripetere che ha costituito uno dei passaggi più emblematici del «passaggio dal sociale al penale», tipico della crisi del welfare state ed evitare prolungamenti della coercizione per ragioni di solitudine e di miseria umana.

Provvedimenti di proroghe rispetto ai quali non si possono che condividere i dubbi di contrasto con il principio costituzionale di cui all’art. 3: «Un prolungamento della coercizione che finisce per attuarsi soltanto a carico di soggetti costretti alla solitudine di una miseria di risorse umane ed economiche rende visibile l’impronta inconfondibile di una discriminazione basata sulle condizioni personali e sociali, la cui illegittimità è apertamente conclamata dall’art. 3 della Costituzione»e con il principio di colpevolezza: «Far dipendere la prosecuzione della limitazione della libertà della persona dal mancato miglioramento delle condizioni di vita dovuto ad una impossibilità in cui versi senza colpa la persona o dalla mancanza di percorsi di cura equivarrebbe alla pronuncia di un cieco e impietoso giudizio di disvalore sull’intera personalità del reo, incompatibile con il rispetto della pari dignità umana»[3]edemettere una decisione in qualsiasi modo svincolata da fatti soggettivi aventi valore sintomatico di pericolosità sociale verificatisi durante il percorso di cura, ma per lo più ispirata ad esigenze di tutela sociale.

La legge n. 81, tra molte polemiche, ha portato con sé un discreto numero di dimissioni grazie a progetti individuali terapeutici ed ha risvegliato l’attenzione di molti servizi territoriali di riferimento. Le relazioni ministeriali del settembre 2014, di gennaio e maggio 2015 hanno dato precise indicazioni in merito alle  fuoriuscite dal sistema detentivo (da 847 presenze al 27 maggio 2014 a 698 del 25 marzo 2015), alle buone applicazioni dei criteri soprattutto da parte dei magistrati di sorveglianza e, non ultimo, ai primi buoni esiti delle azioni di contrasto poste in essere a fronte della proliferazione delle Rems.

I numeri di posti letto sono andati riducendosi anche alla luce delle indicazioni portate dai programmi terapeutici individuali che davano per dimissibili molti pazienti (nella relazione del 3 settembre circa 425 persone su 826 erano considerate dimissibili).

Il seguito è “storia” recente. Il Parlamento lo scorso marzo  ha deciso di non disporre ulteriore proroga per la chiusura degli Opg, luoghi detentivi di cui dovremmo non avere quasi più bisogno se solo venissero applicati diffusamente i nuovi criteri che presiedono la regolamentazione delle misure di sicurezza e i principi di cura sottesi ed inclusi nella  legislazione novellata. 

2. Le necessità di coniugare le norme con la pratica psichiatrica e l’importanza di un coordinamento costruttivo tra i soggetti coinvolti nella tutela della salute mentale

Ora occorre che si applichino il più possibile le misure di sicurezza non detentive e che vi sia da parte dei servizi una presa in carico vera ed in linea con le indicazioni fornite dalla legge che ha aperto le porte alla cura della salute mentale della persona.

É centrale il passaggio da una visione del malato di mente come destinatario di coercizione e segregazione in quanto portatore di pericolosità sociale ad un nuovo paradigma fondato sul riconoscimento della persona, con la pienezza dei suoi diritti e della sua dignità,  di cui prendersi cura secondo principi e modalità del tutto simili a quelli applicati in ogni campo di prestazione medica. É necessario passare dalla cura della malattia attraverso metodi coercitivi o farmacologici al “prendersi cura” delle persone attraverso la personalizzazione dei trattamenti con interventi socio-riabilitativo e socio–sanitari e prospettive riabilitative che consentano un recupero nei pazienti di abilità e funzioni sociali.

Per realizzare questo i dipartimenti di salute mentale devono essere nelle condizioni di poter fornire le prestazioni indicate con incrementi di risorse, che dovranno essere necessariamente trasferite dall’obiettivo di costruzione di Rems al potenziamento del personale specializzato.

É percepibile una pervicacia di alcune Regioni, in funzione di programmi volti alla costruzione di luoghi paradetentivi, che fa tornare alla memoria la difficoltà di implementazione che dovette affrontare la legge n. 180, proprio per l’immobilismo delle Regioni. Ancora non si è realizzata, nonostante le indicazioni della legge n. 81, la rimodulazione di alcuni progetti regionali. Si attende il perfezionamento delle Rems transitorie che consentiranno di ricevere in via residuale le persone ritenute bisognose di una misura detentiva. Un’accoglienza che dovrà avvenire nel pieno rispetto delle regole di capienza massima stabilita per ciascuna residenza, non superiore a venti persone, in modo che venga garantita una cura, possibile soltanto dove vi siano proporzione tra operatori e persone e non vi sia sovraffollamento.

Si continua ad assistere ad un uso eccessivo, e non in linea con i nuovi criteri di legge, di applicazione di misure provvisorie, per lo più in mancanza di necessità e in palese violazione dei principi sanciti dalla legge n. 81 e, purtroppo, ad aggravamenti spesso collegati a normali scompensi o ad agiti che dovrebbero trovare una gestione da parte degli operatori.

Questo fa si che le poche Rems transitorie esistenti vengano riempite oltre i limiti indicati dalla legge e con pazienti che provengono da ogni Regione, soprattutto da quelle Regioni che hanno assistito “dall’esterno” a questo processo senza mettere in campo le risorse e senza realizzare le strutture necessarie. É auspicabile una rapida transizione verso la messa a punto delle Rems da parte di tutte le Regioni, ma soprattutto l’abbandono di un atteggiamento di resistenza sia da una parte di psichiatria ancora troppo “difensiva”, che da parte della magistratura, soprattutto dei giudici di cognizione. La terza relazione ministeriale è esplicita nel sottolineare che la diminuzione dei numeri «non può essere attribuita a una riduzione degli ingressi (che anzi risultano aumentati) come sarebbe dovuto avvenire a seguito dell’applicazione dei più restrittivi criteri della legge».

Il passaggio successivo e non meno necessario è quello del controllo anche dei contenuti di cura delle misure non detentive della libertà vigilata.

Purtroppo sovente queste ultime sono correlate ad intervento psichiatrico lontano dai principi ispiratori di una norma che ha introdotto la previsione di programmi riabilitativi volti a garantire l’individuazione di un percorso di  inclusione territoriale e sociale.

Se non si vuole ripetere quel fenomeno espulsivo messo in atto per decenni con la misura detentiva occorre vigilare che quel modello non si riproponga all’interno di libertà vigilate che prevedano  sistematiche inclusioni comunitarie in luoghi lontani dai territori e dai contesti sociali di riferimento  per lo più con pratiche di contenimento farmacologico. Percorsi rispetto ai quali i servizi funzionano quali finanziatori senza conoscere la consistenza e la qualità degli interventi psichiatrici.  I servizi purtroppo spesso pagano per non accogliere nel territorio con un inevitabile spreco di risorse che potrebbero essere utilizzate diversamente.

La riforma ha certamente il merito di aver mosso alcuni decisivi passi verso la tutela di quel nucleo irrinunciabile della dignità dell’individuo protetto da garanzie e limiti espressamente posti dalla Costituzione e verso un parametro di cura orientato verso il paradigma della psichiatria inclusiva che dovrebbe prevedere interventi integrati di tipo medico e socio-riabilitativo con attenzione rivolta alla salute mentale in senso ampio che coinvolge bisogni medici, socio-riabilitativi e socio–assistenziali.

Tutto questo comporta una partecipazione dei servizi al progetto in termini veri in vista ed in funzione della concretizzazione di una cura inclusiva e che solo in maniera residua preveda la collocazione in strutture comunitarie che non dovranno avere la caratteristica di parcheggi con regole spesso incomprensibili.  

Questo passaggio pur faticoso resta irrinunciabile per non rendere solo apparente il valore storico di questa legge. É importante salvaguardare la parte più nobile e più costruttiva di questa riforma che ha inteso porre l’accento sulla singolarità delle persone e sulla assoluta necessità di una vera accoglienza. Non basta chiudere luoghi orrendi e posteggiare le persone in sedicenti comunità terapeutiche lontano dal mondo o in Rems che ripropongano modelli manicomiali. Perché la storia degli ergastoli bianchi rischierebbe di ripetersi all’interno di luoghi inconsistenti dal punto di vista delle cure e lontani dai percorsi di vita delle persone che dovrebbero essere per quanto possibile riattivati.  Libertà vigilate rispetto alle quali non vige neppure la regola del termine massimo introdotta dalla legge n. 81.

Occorre inevitabilmente dotare di risorse i servizi territoriali, coinvolgere il welfare e i servizi sociali e far si che gli interventi siano finalizzati, dove possibile, a “seguire” il malato nel suo territorio di riferimento «con e nella sua storia» e nel suo percorso di vita e non solo attraverso somministrazione di farmaci.

Occorre creare canali di comunicazione tra soggetti che siano parte necessaria nella formazione del percorsi di cura che sarà oggetto della misura di sicurezza. Capita ancora troppo spesso che i giudici non sappiano se e quale percorso di cura abbia in atto una persona sottoposta a procedimento penale e che i medici non offrano all’autorità giudiziaria soluzioni di cura alternative a quelle detentive  e che vi sia scarso ascolto di chi conosce la storia del paziente. La creazione di specifici accordi per la definizione di modalità di collaborazione ai fini dell’attuazione delle disposizioni normative di cui alla legge 31 maggio 2014 n. 81 è suggerita pure dall’art. 7  regolamento delle Rems in vigore. 

Inutile ricordare gli esiti positivi delle esperienze regionali ove vi è cooperazione rispetto al percorso di cura del paziente nella consapevolezza e con rispetto del ruolo responsabile che ciascuno deve ricoprire, amministratori di sostegno compresi, troppo spesso lontani dalle esperienze giudiziarie delle persone e, quindi,  di scarsissimo aiuto.

Il cammino è inevitabilmente lungo.  Per la resistenza di chi per troppi anni ha preferito non occuparsi di questi pazienti,  per le paure che porta con sé un passaggio di queste dimensioni, per l’ incapacità di molti medici di accogliere un paradigma di cura quale quello che la nuova legge porta con sé e, non ultimo, per la inevitabile sopravvivenza di una pratica giudiziaria ispirata alla sicurezza e alla tutela sociale a discapito del singolo.

Resta forte e chiaro però il cambiamento dell’atteggiamento culturale del Legislatore sul problema dalla sofferenza umana e e della marginalità e sono chiare le nuove indicazioni improntate al principio del favor libertatis e della restituzione di una soggettività e dignità  persa da tempo.

I passaggi di riforma sinora realizzati ci mettono a disposizione gli strumenti per modificare gli interventi giuridici e di cura i cui drammatici esiti sono per decenni sempre ricaduti sulla dignità, sulla libertà e sull’imprescindibile diritto di cura e di inclusione degli  individui.

È auspicabile che i soggetti che a vario titolo sono chiamati ad occuparsi di tutte le questioni cui la legge n.81/2014 ha dato una nuova risposta mantengano vivo e comprendano lo spirito riformatore, superando rigidi schematismi che per troppo tempo hanno fatto velo a drammatiche condizioni detentive e ad inesistenti interventi di cura.

[1] In questi termini, ord. Trib. Sorv. Messina, 16 luglio 2014 n. 430.

[2] G. Dodaro, Nuova pericolosità sociale e promozione dei diritti fondamentali della persona malata di mente, in Diritto Penale, 5/2015 p. 611

[3] Dodaro, ivi.