Magistratura democratica

La nuova responsabilità per colpa grave ed i compiti dell’interprete

di Enrico Scoditti

La riforma della fattispecie di responsabilità per colpa grave è affetta da una contraddizione fondamentale: l’interpretazione di norme di diritto e la valutazione del fatto o delle prove, che sono il fatto costitutivo della responsabilità euro-unitaria, non possono esserlo per il comune illecito giudiziario. Il lavoro dell’interprete deve mirare, per ciò che concerne il comune illecito giudiziario, a svuotare le diverse figure di colpa grave di ogni possibile riferimento all’interpretazione del diritto o alla valutazione del fatto. L’eliminazione poi della “negligenza inescusabile” dalla fattispecie di responsabilità incide, per ciò che concerne l’accertamento del fatto, sulla stessa legittimazione, sociale ancor prima che istituzionale, della funzione giudiziaria.

1. L’originaria ambiguità della fattispecie di responsabilità per colpa grave

Il programma della riforma della legge sulla responsabilità civile dei magistrati (l. n. 117 del 1988) è enunciato dall’art. 1 della l. 27 febbraio 2015, n. 18: le modifiche sono volte «al fine di rendere effettiva la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, anche alla luce dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea». Le contraddizioni partono da qui. Il bilanciamento fra il principio costituzionale d’indipendenza della magistratura (artt. 101, 104 e 108 Cost.) e quello di responsabilità dei funzionari e dipendenti dello Stato (art. 28 Cost.), che il precedente regime garantiva, si basava sul fatto che elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità civile del magistrato non dovesse essere l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto o delle prove. Sono invece fatti costitutivi della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione europea l’interpretazione del diritto e la valutazione del fatto e della prova imputabile all’organo giurisdizionale. Come si disse nel caso Köbler (Corte giust. 30 settembre 2003, causa C-224/01), è proprio nell’esercizio dell’attività interpretativa che può verificarsi una violazione manifesta del diritto comunitario ed una siffatta violazione può avere luogo anche in sede di valutazione del fatto e delle prove, sia perché l’applicazione delle norme di diritto può dipendere da tale valutazione, sia perché costituisce attività interpretativa la stessa applicazione delle norme sulle prove. Così come accade nel caso di responsabilità euro-unitaria per omessa o infedele attuazione di direttiva, l’illecito non è dell’organo, giudice o legislatore, ma dello Stato. L’esercizio delle funzioni tipiche dell’organo legislativo o di quello giudiziario può essere fonte di responsabilità civile perché, dal punto di vista dell’Unione europea, ciò che rileva non è l’organo ma lo Stato nella sua unità quale Stato membro.

Riformare la responsabilità per illecito giudiziario attraverso il paradigma della responsabilità euro-unitaria dello Stato vuol dire intaccare la funzione giudiziaria perché significa considerare fatto costitutivo della responsabilità civileciò che invece connota la funzione, l’interpretazione del diritto e la valutazione del fatto o della prova. Lo scopo di rendere “effettiva” la responsabilità civile dei magistrati è stato perseguito attraverso un mezzo estraneo a quella responsabilità. Si spiega così perché sia stata apportata una modifica, modesta ma significativa, alla clausola di salvaguardia. Il riconoscimento nell’art. 2 che «nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove» risulta ora preceduto da «fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo». In base alla precedente formulazione della disposizione era chiaro che le ipotesi tipizzate di colpa grave non costituissero interpretazione di norme di diritto o valutazione del fatto e delle prove. Ora l’inciso “fatti salvi” farebbe propendere per la conclusione opposta: anche le ipotesi tipizzate di colpa grave costituiscono interpretazione di norme di diritto o valutazione del fatto e delle prove, suscettibili però di determinare la responsabilità civile. Si tratta peraltro di norma puramente definitoria e irrilevante ai fini della portata precettiva dell’art. 2. La fonte della responsabilità per i casi di colpa grave tipizzati dall’art. 2, comma 3, è infatti rappresentata dalla previsione contenuta nel primo comma del medesimo art. 2 («chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali»).

Parte da qui il duro lavoro dell’interprete nel tentativo di ricondurre a conformità a Costituzione la nuova disciplina, a salvaguardia del corretto bilanciamento fra indipendenza e responsabilità. Dal punto di vista ermeneutico deve restare fermo che i casi di colpa grave non costituiscono interpretazione di norme di diritto o valutazione del fatto e delle prove, attività sottratte alla responsabilità civile in quanto identificative della funzione giudiziaria, salvo il caso della violazione manifesta del diritto dell’Unione europea, nel quale la compatibilità di responsabilità ed esercizio dell’attività interpretativa discende dall’assorbimento dell’illecito dell’organo giudiziario in quello dello Stato considerato nella sua unità.

2. L’eliminazione della “negligenza inescusabile” dalla fattispecie di responsabilità

La Corte di giustizia (Corte giust. 24 novembre 2011, causa C-379/10) aveva ritenuto incompatibilela disciplina nazionale con il diritto dell’Unione europea sia per la limitazione ai soli casi di dolo o colpa grave della responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile ad un organo giurisdizionale di ultimo grado, sia per l’esclusione di tale responsabilità qualora la violazione risultasse da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti o prove. Quanto a quest’ultimo aspetto il primo passo del legislatore, come si è appena visto, è stato quello della modifica testuale della disposizione sulla clausola di salvaguardia. La prima ragione di incompatibilità è stata invece superata liberando la fattispecie di responsabilità dal requisito della “negligenza inescusabile” e facendo coincidere la colpa grave con la stessa violazione del diritto dell’Unione europea, oltre che con altre ipotesi tipizzate di responsabilità (violazione manifesta della legge, travisamento del fatto o delle prove, affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione).

La “negligenza inescusabile”, prima elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità, è ora respinta nell’area dell’azione di rivalsa nei confronti del magistrato prevista dall’art. 7. La scissione di colpa grave e negligenza inescusabile ha determinato l’allargamento delle fattispecie di responsabilità per violazione (prima grave, ora manifesta) di legge, nonché per affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti del procedimento, non più limitate dalla negligenza inescusabile (cui si è aggiuntoil travisamento del fatto o delle prove). Venuto meno questo limite non si è avuta però solo la dilatazione della fattispecie di responsabilità, ma qualcosa di più, che tocca in particolare l’accertamento del fatto.

Come è noto, in base all’art. 4 della l. n. 117 del 1988 l’azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno. La legge non distingue fra il caso di conferma e quello di caducazione del provvedimento lesivo. Per l’ipotesi della conferma non può sfuggire che l’azione risarcitoria, venuto meno il requisito della negligenza inescusabile,avrebbe il medesimo oggetto di un giudicato che ha escluso l’affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti del procedimento o il travisamento del fatto o delle prove. Si avrebbe così un puro processo al processo, con un effetto sociale di delegittimazione del sistema di controlli endoprocessuale.

Nel caso di caducazione del provvedimento lesivo il presupposto dell’azione risarcitoria è il carattere non satisfattivo del rimedio impugnatorio nel senso che il danno deve essere configurabile nonostante il venir meno per effetto dell’impugnazione del provvedimento fonte di pregiudizio. La presenza della negligenza inescusabile impediva ogni automatismo fra il rimediodella revocazione e il rimedio risarcitorio nel senso che l’affermazione o negazione di un fatto in contrasto con gli atti del procedimento accertata in sede di revocazione non era di per sé fatto costitutivo dell’illecito giudiziario dovendo essere accertato l’ulteriore elemento determinante della negligenza inescusabile. Venuto meno quest’ultimo elemento si pongono le basi dell’automatismo fra revocazione e giudizio risarcitorio, facendo di quest’ultimo l’appendice finale di un’unitaria catena procedimentale. L’eliminazione della fase di ammissibilità della domanda di cui all’art. 5esclude ancora in modo più netto ogni soluzione di continuità fra strumento processuale di controllo del provvedimento ed azione risarcitoria.

Per il giudizio di diritto può reputarsi sussistente ancora una qualche discontinuità fra rimedio fisiologico di controllo del provvedimento giudiziario e azione risarcitoria. Resta infatti il limite della qualificazione di “manifesta” violazione di legge. La sostituzione di “grave” con “manifesta” è chiaramente il portato dell’influsso della giurisprudenza euro-unitaria. Si tratta di un limite che non ha l’efficacia interruttiva della sequenza impugnazione/risarcimento che la negligenza inescusabile possedeva, ma che tuttavia implica una valutazione ulteriore rispetto alla mera violazione di legge, considerando i criteri richiamati dalla norma al fine di stabilire il carattere manifesto della violazione (grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché inescusabilità e gravità dell’inosservanza). Per l’accertamento dei fatti, invece, ed in particolare per il travisamento del fatto o delle prove, ovvero per l’affermazione o negazione di un fatto in contrasto con gli atti del procedimento, l’azione risarcitoria si confonde con i rimedi fisiologici di controllo dei provvedimenti giudiziari, come ulteriore anello di una catena procedimentale, diventando quasi un momento della fisiologia del processo.

È vero che l’azione di responsabilità è proposta nei confronti dello Stato e non del magistrato. È vero anche che l’azione di rivalsa resta soggetta al limite della negligenza inescusabile, e per di più resta limitata ad un minor numero di ipotesi di colpa grave (violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea e travisamento del fatto o delle prove). Ma se si considera che la responsabilità dello Stato discende dal rapporto organico fra l’ufficio del giudice e lo Stato, come affermato dalla Corte costituzionale (sentenza 19 gennaio 1989, n. 18), e che dunque l’illecito è pur sempre un illecito giudiziario e non dello Stato in quanto tale, è indubbio che l’automatismo fra mezzo di impugnazione e giudizio risarcitorio per ciò che concerne il travisamento del fatto o delle prove, ovvero per l’affermazione o negazione di un fatto in contrasto con gli atti del procedimento, incida non tanto sul magistrato persona fisica, quanto sulla stessa funzione giudiziaria concepita come articolazione dello Stato.

È la morfologia della funzione giudiziaria che subisce un mutamento perché l’esercizio della funzione viene sottoposto al giudizio di responsabilità civile sic et simpliciter senza la presenza di criteri qualificanti sul piano della responsabilità. Che i poteri autoritativi siano sottoposti ad un processo di civilizzazione, nel senso della sottoposizione alla regola di responsabilità per i danni cagionati ai privati, è ormai un’acquisizione irreversibile del rule of law. Ma quella responsabilità presuppone criteri di attribuzione che interrompano il nesso con la fisiologia della funzione, in modo da evitare che la responsabilità civile costituisca la prosecuzione del sistema di controlli del pertinente ordinamento istituzionale e l’istituzione perda il volto autoritativo che la connota. La riduzione dell’autorità ad un comune civis è possibile solo a condizione che venga introdotto un criterio di attribuzione della responsabilità per i danni che ecceda il mero piano delle patologie della funzione affidate ai comuni controlli istituzionali (significativi in tal senso sono i modi in cui si è andata configurando la responsabilità della pubblica amministrazione per violazione degli interessi legittimi). La negligenza inescusabile nel precedente regime aveva questo compito. Ora, nel caso del travisamento del fatto o delle prove, ovvero dell’affermazione o negazione di un fatto in contrasto con gli atti del procedimento, si realizza una piena continuità fra il rimedio impugnatorio ed il rimedio risarcitorio senza alcuna soluzione di continuità, senza cioè che la negligenza inescusabile interrompa il nesso con il circuito della funzione e dei relativi controlli. La responsabilità civile diventa l’appendice del pertinente ordinamento istituzionale e sul piano soggettivo l’autorità giudiziaria non è più distinguibile dal comune civis. È in gioco, a questo punto, la stessa legittimazione, sociale ancor prima che istituzionale, della funzione giudiziaria.

3. I compiti dell’interprete

Sul momento dell’interpretazione, come può intendersi facilmente, si concentra il complesso delle questioni. Il compito primario dell’interprete è quello di salvaguardare il bilanciamento fra il principio costituzionale di indipendenza della magistratura e quello di responsabilità che il vecchio art. 2 assicurava. Per far ciò è necessario stabilire una netta cesura fra interpretazione di norme di diritto e valutazione del fatto o delle prove ed i casi di colpa grave (salva l’ipotesi della responsabilità euro-unitaria, di cui interpretazione di norme di diritto e valutazione del fatto e delle prove sono elementi costitutivi). Si deve quindi operare per sottrazione, e definire le diverse figure di colpa grave svuotandole di ogni possibile riferimento all’interpretazione del diritto o alla valutazione del fatto. La linea di demarcazione da stabilire è quella fra percezione e interpretazione o valutazione.

Muovendo dalla “violazione manifesta della legge” bisogna chiarire come possa tale nozione essere tenuta separata dal campo dell’interpretazione. I criteri euro-unitari, menzionati dall’art. 2, comma 3-bis (grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché inescusabilità e gravità dell’inosservanza), danno contenuto alla nozione di colpa grave, permettono di valutare se la violazione sia “manifesta”, ma non definiscono il concetto di violazione del diritto nazionale. La questione definitoria si pone non per quei provvedimenti che, in forza del carattere abnorme, come i provvedimenti non previsti da norme vigenti, siano facilmente ascrivibili alla violazione manifesta di legge (dove il giudizio di abnormità implica che sia stato già effettuato il test relativo all’inescusabilità e gravità dell’inosservanza). Allo scopo di determinare il concetto, sottraendovi l’attività d’interpretazione di norme giuridiche, bisogna ricorrere alla distinzione fra disposizione e norma.

La disposizione è il puro enunciato linguistico in sé per sé considerato, denudato dell’attività interpretativa e privo di significato normativo. Il suo significato, prima dell’intervento dell’interprete, è puramente linguistico. La disposizione trapassa in norma grazie all’interpretazione. La norma è così il significato normativo che si estrae dall’enunciato linguistico, corrispondente alla disposizione, grazie all’interpretazione. Il senso linguistico del testo segna il confine in presenza del quale il tentativo di interpretare in modo conforme alla Costituzione una norma, della cui costituzionalità si dubita, si arresta per cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale. Ebbene, “violazione manifesta della legge” riguarda la disposizione, non la norma, e corrisponde all’inosservanza del significato linguistico della disposizione. Non è attività interpretativa in senso proprio, ma percezione della portata semantica della disposizione. Violazione di legge è quindi definibile, sul piano concettuale, come travisamento linguistico della disposizione. Per valutare se l’elusione dell’enunciato linguistico sia manifesta, risponda cioè a colpa grave, deve valutarsi il grado di chiarezza e precisione della disposizione e l’inescusabilità e gravità dell’inosservanza. Quando però ci spostiamo sul piano del diritto dell’Unione europea, dovendo interpretare la norma in modo conforme al dictum del giudice sovranazionale, bisogna fare riferimento non all’enunciato linguistico ma alla norma ed alla sua interpretazione.

Passando alle ulteriori ipotesi di colpa grave, “travisamento delle prove” è nozione distinta da quella di “valutazione delle prove”. Per la sua definizione può farsi riferimento alla giurisprudenza sull’art. 606 lett. e) cpp, la quale ha chiarito che il travisamento della prova non tocca il livello della valutazione, ma si arresta alla fase antecedente dell’errata percezione di quanto riportato dall’atto istruttorio (Cass. 12 dicembre 2012, n. 9338, M.). È errore sul significante, che si traduce nell’utilizzo di un risultato di prova inesistente (o incontestabilmente diverso da quella reale), e non sul significato della prova (Cass. 21 gennaio 2011, n. 18542, C.). In coerenza a quanto rilevato a proposito della violazione manifesta di legge, si può affermare che, manifestandosi anche le prove in enunciati linguistici, il travisamento concerna il misconoscimento dei dati linguistici, e dunque il livello percettivo che precede la valutazione. Quest’ultima interviene in una fase successiva, quando, delimitato il campo semantico, si aprono le diverse opzioni valutative. Così definita la nozione di “travisamento delle prove”, essa intercetta un ambito che conserva dei margini di distinzione da quello di affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti del procedimento.

Quella che non pare possibile è l’ actio finium regundorum fra “valutazione del fatto” e “travisamento del fatto”. In primo luogo, proprio la giurisprudenza sull’art. 606 lett. e) cpp ci ricorda che il travisamento del fatto implica la valutazione delle risultanze processuali, motivo per il quale il vizio non è deducibile innanzi alla Corte di cassazione (da ultimo Cass. 14 febbraio 2012, n. 25255, M.). Il punto critico risiede soprattutto nella dissociazione della nozione di travisamento del fatto da quella di affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti del procedimento, e nella necessità quindi di identificare per il travisamento uno spazio fra la valutazione del fatto e l’affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti, profilo quest’ultimo attinente alla percezione della realtà, e non al suo apprezzamento.

Le due nozioni, ditravisamento del fatto e di affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti del procedimento,in realtà convergono. Ne è una conferma l’art. 2 d.leg. 23 febbraio 2006 n. 109, sugli illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, che contiene il riferimento solo al «travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile». Costante è poi nella giurisprudenza civile la riconducibilità del travisamento del fatto all’errore revocatorio di cui all’art. 395 n. 4 cpc (Cass. 9 gennaio 2007, n. 213; 18 novembre 2004, n. 21870; 16 marzo 2003, n. 9626). La ricaduta a questo punto nell’attività di valutazione del fatto pare inevitabile. L’area della percezione risulta tutta occupata dall’affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti, e non resta che la zona (successiva alla percezione) della valutazione. Né può ritenersi il travisamento un mero doppione dell’errore revocatorio, stante l’inammissibilità del richiamo in una fattispecie legale ad un elemento normativamente irrilevante. Lo sdoppiamento che l’art. 2, comma 3, ha stabilito fra travisamento del fatto e affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti del procedimento incrina in modo serio il bilanciamento fra il principio costituzionale di indipendenza della magistratura e quello di responsabilità perché invade il campo della valutazione del fatto, istituzionalmente affidato al libero convincimento del giudice. Quando il senso linguistico della disposizione non consente altre vie, e tale ci sembra il caso del travisamento del fatto, la questione di legittimità costituzionale diventa attuale. Si consideri peraltro che la previsione nell’attuale art. 7 del travisamento del fatto, e non dell’affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti, comporta che la rivalsa sia esercitabile non nei limiti dell’errore revocatorio (se così fosse sarebbe stata contemplata l’affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti) ma nell’ipotesi più lata, date le implicazioni valutative, di travisamento.

4. I problemi irrisolti dal punto di vista della responsabilità euro-unitaria

La procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per la non conformità al diritto Ue della l. n. 117 del 1988 è stata archiviata dalla Commissione europea con decisione del 26 marzo 2015. La futura applicazione della disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati potrà portare però nuove tensioni data la contraddizione di fondo che mina il testo legislativo: l’interpretazione di norme di diritto e la valutazione del fatto e delle prove, che sono il fatto costitutivo della responsabilità euro-unitaria, non possono esserlo per il comune illecito giudiziario. Quanto alla violazione manifesta del diritto, per certi versi si è andati anche al di là di quanto l’Unione europea aveva richiesto, ed il riferimento è alla previsione nell’art. 2, comma 3-bis, che introduce quale criterio per stabilire se sussista la violazione manifesta del diritto Ue il contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia. Le tensioni potranno aversi invece per ciò che concerne l’accertamento del fatto.

Come si è visto, nella misura in cui rifluisce nella violazione manifesta del diritto anche la valutazione del fatto, dal punto di vista euro-unitario, può essere fonte di responsabilità e la Corte di giustizia esige per l’appunto una disciplina che non escluda la responsabilità dello Stato per valutazione di fatti o prove. Il travisamento del fatto, quale nozione evocatrice della valutazione del fatto, come abbiamo poc’anzi dimostrato, garantirebbe la compatibilità euro-unitaria della disciplina. Il punto è che proprio quale nozione allusiva alla valutazione del fatto ingenera in modo fondato un dubbio di legittimità costituzionale della norma per ciò che concerne il comune illecito giudiziario. Nella misura in cui è coerente alla pretesa euro-unitaria il travisamento del fatto è gravemente sospetto di incostituzionalità. Si tratta di una contraddizione da cui non è agevole venir fuori. La nozione di travisamento del fatto è peraltro il risultato di un compromesso non riuscito. Non si poteva parlare apertamente di valutazione del fatto, perché la presenza del comune illecito giudiziario non lo avrebbe consentito. Si è quindi ripiegato sul travisamento del fatto, ma la mancanza di spazio rispetto all’errore revocatorio già contemplato dall’affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti,ha comportato l’inevitabile confluenza nell’area della valutazione.Tutto questo sempre che un domani la Corte di giustizia non ritenga insufficiente la stessa nozione di travisamento del fatto per la presenza di dimensioni della valutazione del fatto che il travisamento non può evocare.

Resta con chiarezza aperto un problema di adempimento del dictum sovranazionale per quanto riguarda il travisamento delle prove. Il travisamento non attiene al piano della valutazione, ma a quello precedente della percezione. Resta quindi fuori l’ambito della valutazione della prova che, nella misura in cui rifluisce in violazione manifesta del diritto vigente, dovrebbe integrare un’ipotesi di responsabilità dal punto di vista euro-unitario. Le sorti della compatibilità euro-unitaria della disciplina dovrebbero essere affidate a questo punto alla possibilità di interpretare in modo conforme al diritto dell’Unione europea la norma, e cioè intendere travisamento come incidente sul piano della valutazione della prova, ma bisogna superare il senso linguistico della disposizione, cosa non agevole, dato che travisamento è qui chiaramente relativo alla fase della percezione, e non a quella successiva della valutazione (senza dire poi che, ove si acceda ad una simile interpretazione, essa dovrebbe valere solo nei limiti della responsabilità euro-unitaria, mentre per quanto concerne il comune illecito giudiziario si dovrebbe restare al naturale significato della disposizione, che è quello della percezione antecedente la valutazione, pena l’introduzione di un dubbio di legittimità costituzionale).

«Rendere effettiva la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, anche alla luce dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea», come recita l’esordio della l. n. 18 del 2015, ha voluto dire cadere in irrisolte antinomie. Anziché procedere attraverso l’indebita commistione di illecito giudiziario ed illecito euro-unitario dello Stato, sarebbe stato sufficiente introdurre una norma che sottraesse al regime della l. n. 117 del 1988 la responsabilità euro-unitaria dello Stato imputabile ad organo giurisdizionale di ultimo grado (sempre che non si fosse puntato più ambiziosamente ad una legge organica sulla materia della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione europea). Si sarebbe potuto procedere liberamente sul piano dell’illecito dello Stato senza i vincoli dell’illecito giudiziario, modellando però pur sempre la rivalsa su quella prevista per il comune illecito giudiziario (a garanzia del bilanciamento di indipendenza e responsabilità e per rispetto del canone di ragionevolezza quanto al raffronto con l’analoga disciplina in materia di responsabilità civile del magistrato). E non si sarebbe alterato quell’equilibrio fra indipendenza della magistratura e responsabilità che la vecchia l. n. 117 garantiva.