Magistratura democratica

La via italiana alla flexicurity: la riforma degli ammortizzatori sociali nel Jobs Act

di Giovanni Orlandini

L’intervento legislativo sugli ammortizzatori sociali, dichiaratamente volto a realizzare quell’obiettivo di “flessicurezza” in grado di compensare l’indebolimento della condizione del lavoratore nel mercato del lavoro, non solo non annulla gli squilibri che caratterizzano il sistema pregresso, ma mette in ancora maggiore evidenza la sua più evidente lacuna: la mancanza di strumenti di tutela non a base occupazionale, destinati a tutti i cittadini che si trovino in condizioni di bisogno economico.

1. Introduzione

A dispetto della scarsa attenzione ricevuta sia sul piano mediatico che nel confronto politico-sindacale, la materia degli ammortizzatori sociali occupa uno spazio di assoluta centralità nel complessivo progetto di riforma del mercato del lavoro del Governo Renzi. Lo stesso giudizio sulla parte più discussa e dibattuta di tale progetto - quella relativa al superamento dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori – è necessariamente condizionato dal modo con cui vengono ridisegnati gli istituti destinati a tutelare chi si trova in stato di disoccupazione, se è vero che la più profonda e nobile ratio ispiratrice del Jobs Act si coglie – a detta dei suoi stessi promotori - nei principi di “flexicurity”; quei principi cioè assunti dall’Ue a stella polare per guidare i governi nazionali nell’ardua impresa di traghettare il Modello sociale europeo nel terzo millennio, tenendo insieme solidarietà e competitività dei mercati.

I due primi decreti attuativi della l. n.183/14 rappresentano plasticamente l’idea di flexicurity, che come noto sta ad indicare la necessità di spostare il fulcro delle tutele sociali – ovvero dei diritti sui quali il Modello sociale europeo si fonda - dal rapporto di lavoro al mercato del lavoro, compensando la maggior flessibilità necessaria per la competitività delle imprese con efficaci politiche attive del lavoro ed estese misure di sostegno del reddito. Non appare allora casuale che nella l. n.183/14 le deleghe relative alla “security” siano collocate prima di quelle relative alla “flexibility[1], né che il decreto sugli ammortizzatori (d.lgs n.22/15) preceda numericamente gli altri attuativi della delega: sia quello, coevo, sul licenziamento (d.lgs n.23/15) sia quello, recentissimo, sulle tipologie contrattuali (d.lgs n.81/2015). Prima, sembra suggerire il legislatore, si configurano i nuovi istituti della “sicurezza”, poi si rende possibile una maggior flessibilità, evento che proprio tali istituti privano dei suoi caratteri di drammaticità sociale. Spetterà a successivi decreti (in corso di adozione al momento in cui si scrive) completare il quadro, con la definizione delle tutele in costanza di lavoro (ovvero le nuove regole della Cassa integrazione) e soprattutto con la costruzione di un più efficiente sistema di servizi per l’impiego[2].

C’è da dire che la stessa logica riformatrice aveva ispirato la riforma del mercato del lavoro promossa dalla ministra Fornero ed attuata solo tre anni fa con la l. n. 92/2012. Il fatto che si intervenga di nuovo sulla materia a così breve distanza di tempo sta evidentemente a segnalare che tale riforma – pur se ancora in fase di attuazione - non si ritiene abbia intrapreso la strada riformatrice con sufficiente decisione. In effetti la l. n. 92/12, se da una parte ha lasciato in vita –pur indebolendolo - il meccanismo della tutela reale, dall’altra ha riformato il sistema degli ammortizzatori sociali senza modificarne i tratti di fondo. In particolare, da essa è uscito confermato l’impianto rigidamente mutualistico-assicurativo del sistema, non corretto né integrato da misure universalistiche di sostegno del reddito.

Proprio questo profilo della riforma del 2012 impedisce di ascriverla alla logica della flessicurezza, che imporrebbe di rafforzare i profili universalistici del sistema di protezione sociale contro la disoccupazione, non potendosi altrimenti garantire prestazioni economiche capaci di tutelare chiunque si trovi privo di lavoro - a prescindere dalla sua storia professionale - e per un tempo necessario ad accompagnarlo verso una nuova occupazione. Si tratta cioè di improntare maggiormente il sistema al principio di solidarietà, sia dotandosi di strumenti a carico della fiscalità generale, sia sganciando i regimi previdenziali dalla stretta osservanza del criterio di corrispettività tra prestazioni e contributi versati, in nome di una più ampia solidarietà professionale. Insomma, la flessicurezza chiede di ispirarsi più a Beveridge che a Bismarck nel configurare gli strumenti di tutela per la disoccupazione; il che rende indubbiamente problematico il suo recepimento nel nostro ordinamento, in ragione del suo storico fondarsi su basi assicurative e professionali.

Se quanto detto è vero, ci si dovrebbe attendere che proprio su questo piano la nuova riforma segni uno scarto rispetto alla precedente. Ma già la lettura della legge delega delude una simile aspettativa e segnala l’intenzione del legislatore di percorrere altre strade. La nuova disciplina si ispira alla logica assicurativa in maniera ancora più rigida rispetto alla riforma del 2012. Si legge infatti tra i principi della delega che il legislatore è chiamato a rimodulare le tutele legandole alla «pregressa storia contributiva del lavoratore», di modo che ne esca incrementata la “durata massima” del trattamento«per i lavoratori con carriere contributive più rilevanti» (art.1, lett. b), punti 1 e 2). Ovvia l’attenzione agli equilibri di bilancio dei fondi previdenziali; meno ovvio in che modo con tali principi s’intenda estendere le tutele per la disoccupazione a chi ne è rimasto privo fino ad oggi.

L’“universalizzazione” delle tutele è in effetti richiamata nella delega, ma solo a proposito dell’estensione dell’assicurazione contro la disoccupazione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa (art. 1, lett. b), punto 3). Si svela da subito l’uso equivoco che del concetto di “universalità” fa il legislatore italiano. Questa non segnala la volontà di garantire a tutti i cittadini privi di occupazione un reddito, secondo appunto una declinazione del concetto in chiave beveridgiana; ma piuttosto è intesa – in chiave strettamente bismarckiana - come sinonimo dell’estensione dell’ambito di applicazione dell’assicurazione sociale, in modo da renderne beneficiari anche lavoratori sino ad oggi da essa non coperti.

La via italiana alla flexicurity si profila dunque ab origine tortuosa, condizionata com’è da un approccio quanto meno anomalo. Nelle pagine che seguono si analizza in che modo essa è stata percorsa dal legislatore delegato, per capire se, nonostante le premesse di principio indichino il contrario, si è, se non completata, almeno resa più ampia la rete di protezione del reddito che, nel nostro mercato del lavoro, dovrebbe compensare le massicce dosi di flessibilità introdotte dalle riforme degli ultimi anni.

2. La Nuova ASpI: l’ampliamento dell’ambito soggettivo

Lo strumento principale di tutela contro la disoccupazione è la Nuova ASpI (Assicurazione sociale per l’impiego), che sostituisce dal maggio 2015 quella “vecchia”, introdotta dalla l. n.92/12. Si compie così il processo di razionalizzazione che aveva già portato ad articolare le previgenti indennità di disoccupazione in due tipologie di prestazioni: la principale a “requisiti pieni” (ASpI), e la “minore” a requisiti ridotti (mini-ASpI), destinata ai lavoratori disoccupati con carriere lavorative discontinue. Questa distinzione viene adesso superata, grazie all’assorbimento dei due regimi in un’unica assicurazione. La novità non è solo nominalistica, anche se gli elementi di continuità con il precedente regime sono molti ed evidenti.

Non cambiano le tipologie di lavoratori assicurati né l’evento protetto. Quanto ai primi, già grazie alla Legge Fornero la tutela è garantita a quasi tutta l’area del lavoro subordinato (apprendisti, personale artistico e soci-lavoratori delle cooperative inclusi), con la rilevante eccezione del pubblico impiego, che viene confermata. Un’eccezione, questa, che suscita perplessità e che si giustifica solo con l’idea (giuridicamente infondata e, ormai, smentita anche nei fatti) che il lavoratore pubblico non sia esposto al rischio del licenziamento[3].

Quanto all’evento protetto, la prestazione resta associata allo stato di disoccupazione “involontaria”, vale a dire conseguente al licenziamento o allo scadere del termine di durata del contratto, e non dovuta a dimissioni[4] o a risoluzione consensuale; a meno che quest’ultima non sia avvenuta nell’ambito della procedura di conciliazione davanti alla DTL, che (di nuovo) la riforma Fornero ha reso obbligatoria prima di procedere ad un licenziamento economico (ex art. 7, l. n.604/66)[5]. È stata persa l’occasione per fare definitiva chiarezza sulla questione (oggetto di una controversa giurisprudenza) della tutela dei lavoratori impiegati in regime di part-time verticale; questione che la giurisprudenza prevalente risolve negativamente in ragione del carattere “volontario” dello stato di non occupazione negli intervalli tra un periodo di lavoro ed il successivo[6].

Sembrano invece cambiare sostanzialmente i requisiti di accesso alla prestazione, in virtù dell’accorpamento in un unico regime dei due preesistenti. Proprio la modifica dei requisiti di accesso sarebbe la spia dell’intento universalistico della riforma, che – pur mantenendo l’impianto assicurativo - avrebbe ampliato significativamente il numero dei soggetti destinatari della prestazione, a beneficio dei lavoratori precari e discontinui.

Per capire la portata della nuova disciplina è però necessario tener presente che l’ambito soggettivo di applicazione dell’assicurazione era stato già ampliato nel 2012 con la creazione della mini-ASpI, la quale aveva modificato il precedente regime assicurativo “a requisiti ridotti” eliminando il gravoso requisito delle 52 settimane di anzianità contributiva (cioè di iscrizione al regime stesso) e subordinando l’accesso alla prestazione al solo versamento di tredici settimane di contribuzione nell’ultimo anno di lavoro. La mini-ASpI dava accesso a prestazioni di importo ridotto ed erogate per un numero di settimane pari alla metà di quelle di contribuzione; mentre l’accesso alle più generose prestazioni ordinarie corrisposte tramite l’ASpI restava condizionato da requisiti ben più gravosi, pari a due anni di anzianità contributiva complessiva dei quali uno (52 settimane) maturato nel biennio precedente la perdita dell’occupazione.

La valutazione in merito all’ampliamento dell’ambito soggettivo operato dalla Nuova ASpI va dunque fatta tenendo conto dei requisiti della mini-ASpI, che hanno evidentemente costituito il riferimento obbligato per operare la fusione tra i due regimi. Ciò detto, i nuovi requisiti in effetti rendono più accessibile la prestazione, dal momento che le 13 settimane di contribuzione sono oggi calcolate nell’arco di quattro anni (e non più di uno). È vero che si introduce un filtro aggiuntivo rispetto al monte contributivo precedente, prevedendo che negli ultimi 12 mesi il disoccupato debba anche far valere 30 giorni di “lavoro effettivo”[7]; ma ciò non sembra sufficiente per escludere che il bacino potenziale dei beneficiari sia destinato ad aumentare. È difficile però quantificare in che termini tale aumento si configuri[8]; e perfino se, per effetto della riforma, aumenti effettivamente la percentuale dei disoccupati tutelati, dal momento che questo dato dipende non tanto dai requisiti di accesso alla prestazione, quanto piuttosto dalla durata della sua erogazione a ciascun soggetto assicurato. Ciò è vero non solo e non tanto rispetto allo scenario prefigurato dalla riforma Fornero, quanto rispetto al regime ad essa precedente, avendo detta riforma decretato - a partire dal 1 gennaio 2017- la fine dell’indennità di mobilità, che per i lavoratori delle imprese medio-grandi ha sino ad oggi assicurato prestazioni più generose e di lunga durata[9].

2.1. Segue: la durata della prestazione

Proprio in relazione alla durata della prestazione si manifestano gli effetti della logica mutualistico-assicurativa che si è detto ispirare la riforma. L’unificazione dei trattamenti si è tradotta infatti anche in questo caso nella generalizzazione della disciplina della mini-ASpI, con il conseguente superamento dei tratti “egualitari” che caratterizzavano il precedente regime dell’ASpI[10]. Quest’ultima, al pari della storica indennità di disoccupazione, aveva una durata stabilita dalla legge e legata all’età del lavoratore: 12 e 18 mesi rispettivamente per i lavoratori infra e ultra cinquantacinquenni. La logica era quella, propriamente solidaristica, di assicurare prestazioni di maggior durata ai soggetti considerati in stato di maggior bisogno, in ragione della difficoltà di ricollocazione nel mercato del lavoro dovuta all’età. Il nuovo regime abbandona tale logica rapportando la durata della prestazione alla pregressa storia contributiva del disoccupato, che beneficerà di prestazioni di durata pari alla metà delle settimane di contribuzione accreditate negli ultimi quattro anni, con un massimale fissato - a partire dal 2017- in settantotto settimane (18 mesi). L’emanando decreto in materia di Cassa integrazione dovrebbe eliminare tale massimale, portando il tetto a 24 mesi (art. 42, comma 3 dello schema di decreto)[11], compensando così in parte l’effetto del superamento dell’indennità di mobilità previsto proprio per il 2017. Il costo del prolungamento della durata delle prestazioni dovrebbe essere coperto con i risparmi conseguenti alla riforma del regime della Cassa integrazione, con una clausola di salvaguardia che ne rende incerto il futuro: è previsto infatti il ripristino del massimale dei 18 mesi in caso di scostamenti rispetto alle previsioni di spesa, a riprova di come la riforma sia ispirata ad una rigorosa logica di contenimento dei costi

Le nuove prestazione tuteleranno quindi più a lungo non chi è in stato di maggior bisogno, ma chi ha versato più contributi. Ne consegue che, per chi ha lavorato in maniera continuativa negli 4 anni precedenti alla cessazione del rapporto, la durata del beneficio aumenta sensibilmente rispetto alla disciplina previgente; ma per chi ha svolto attività di carattere discontinuo le prospettive possono essere opposte. Si è osservato che viene replicata sul piano previdenziale quella logica delle tutele crescenti che caratterizza la nuova disciplina del licenziamento, finendo così per alterare in modo opinabile il concetto stesso di adeguatezza dei mezzi cui l’art. 38 della Costituzione impone sia parametrata la prestazione previdenziale[12]. Non è agevole in effetti giustificare sul piano dei principi costituzionali una prestazione calcolata prescindendo dalla condizione di effettivo bisogno del beneficiario e considerando quale unico criterio di “adeguatezza” quello meritocratico del versamento dei contributi. Né regge, sotto questo profilo, il parallelo con il criterio contributivo di calcolo delle pensioni, posto il carattere temporaneo del bisogno cui fanno fronte le prestazioni per la disoccupazione; tanto più se si considera che più volte la Corte costituzionale ha ricordato al legislatore come anche per le prestazioni pensionistiche il principio di corrispettività non possa far totalmente aggio su quello di solidarietà[13]. I nuovi ammortizzatori invece abbracciano una logica individualista che trova la sua giustificazione unicamente nelle esigenze di riduzione e di controllo della spesa previdenziale.

Si è detto che questa logica va a detrimento proprio dei lavoratori precari e discontinui, ai quali possono spettare prestazioni per periodi più brevi che in passato. Ciò è vero non tanto per i lavoratori saltuari o con carriere fortemente discontinue, per i quali la durata resta calcolata con criteri analoghi al precedente regime della c.d. mini ASpI; quanto per chi aveva accesso alle più generose prestazioni dell’ASpI. Gioca in senso loro sfavorevole anche il fatto che (come precisato dallo stesso art. 5) per calcolare la durata non sono computati i periodi contributivi che hanno già dato luogo all’erogazione di prestazioni. L’effetto più eclatante di tale regola si manifesta nei confronti dei lavoratori stagionali, per i quali il nuovo regime prospetta una drastica riduzione dei benefici; se infatti il previgente regime ad un lavoratore impiegato per 6 mesi l’anno garantiva la copertura per i restanti 6 mesi, il nuovo la dimezza riducendola a tre[14].

2.2. Segue: l’importo delle prestazioni

L’attenzione agli equilibri di bilancio si svela anche nel nuovo sistema di calcolo dell’importo delle prestazioni ed ancor più nel regime della contribuzione figurativa. Aumenta infatti da due a quattro anni l’arco temporale per determinare la retribuzione media assunta come base di calcolo dell’indennità. La portata di tale modifica si coglie ancora più chiaramente leggendola in una più lunga prospettiva temporale, visto che prima della riforma del 2012 la retribuzione parametro era quella media degli ultimi tre mesi di occupazione. Non viene poi considerata la retribuzione effettivamente corrisposta al lavoratore, bensì la base imponibile che, come noto, non comprende una pluralità di voci che incidono significativamente sul suo importo complessivo.

La retribuzione parametro produce un indennizzo pari al 75% della stessa, percentuale che si riduce per le retribuzioni superiori ai 1.195 euro[15], fermo il massimale mensile di 1.300 euro. L’importo così calcolato decresce in misura pari al 3% per ogni mese di godimento successivo al terzo, cioè secondo un meccanismo di abbattimento più penalizzante rispetto a quello dell’ASpI[16]. Il che prospetta significative compressioni delle prestazioni di più lunga durata, fino al toccare il 63% per quelle erogate per 24 mesi.

Gli effetti della riduzione progressiva delle prestazioni si ripercuotono in maniera più rilevante che in passato sulle tutele pensionistiche del lavoratore, visto che la riforma ridefinisce il regime della contribuzione figurativa in senso peggiorativo. Le nuove regole penalizzano sia i percettori di retribuzioni più alte (in virtù di un nuovo massimale di maturazione della contribuzione) sia quelli con retribuzioni più basse (in virtù di un minimale che esclude l’accredito al di sotto di un certo importo) (art.12, d.lgs n.22/15). L’obiettivo di risparmio di spesa in questo caso va ad incidere indirettamente sul calcolo contributivo della pensione[17], già pesantemente penalizzato dalle recenti riforme.

I risparmi di spesa che il nuovo regime comporta servono evidentemente a compensare i maggiori costi cui si prevede di dover far fronte per erogare le prestazioni a chi, in base alla previgente normativa, non ne avrebbe avuto diritto. L’orizzonte entro il quale ci si è mossi resta insomma quello che ha condizionato tutti gli interventi in materia di ammortizzatori sociali degli ultimi anni: modificare il sistema tendenzialmente a costo zero, ripartendo gli oneri delle riforme tra i destinatari delle stesse; ovvero tra i lavoratori.

3. L’“universalizzazione” delle tutele: la nuova assicurazione per i collaboratori

Come premesso nella legge delega l’obiettivo dell’universalizzazione delle tutele è associato all’estensione del campo di applicazione dell’assicurazione contro la disoccupazione ai lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, iscritti in via esclusiva alla Gestione separata dell’INPS. Ciò è avvenuto attraverso la creazione della cd “DIS-COLL”, che innova il quadro degli ammortizzatori sociali esistenti dal momento che la l. n.92/12 si limitava a riconoscere a tale categoria di lavoratori un’indennità una tantum (art. 4, comma 38 l. cit.). Tuttavia che tale novità possa iscriversi in un processo di effettiva universalizzazione è quanto meno revocabile in dubbio. In primo luogo perché anche questa prestazione è regolata secondo una logica rigidamente assicurativa, che ricalca il regime della NASpI declinandolo in termini ancor più restrittivi. L’indennità è infatti prevista in via sperimentale per il 2015, mentre per gli anni successivi la sua conferma è condizionata allo stanziamento delle “occorrenti risorse finanziarie” (comma 15); il che rischia di renderla una misura più occasionale che sperimentale[18].

Che il futuro della DIS-COLL sia incerto è poi confermato dal fatto che al suo varo si dovrebbe associare il superamento di quella forma contrattuale alla quale essa è riferita, visto che con l’art.2 del d.lgs n.81/2015 sulle tipologie contrattuali ci si propone di ricondurre le collaborazione coordinate e continuative al lavoro subordinato. Si aprono di conseguenza due possibili scenari: o l’indennità in parola nasce in pratica già morta, oppure (come si ritiene) la sua istituzione conferma piuttosto che le collaborazioni coordinate e continuative sopravviveranno al Jobs Act nonostante i propositi sottesi alla norma che dovrebbe sopprimerle[19].

Certo è che restano privi di qualsiasi misura di sostegno del reddito i lavoratori autonomi tout court. L’indennità non spetta infatti ai titolari di partita IVA, il cui utilizzo è per altro destinato ad aumentare con l’entrata in vigore del d.lgs n.81/2015 che elimina gli indici presuntivi di illegittimità introdotti dalla l. n.92/12 per contrastarne l’abuso. E ciò è il segno più evidente di come l’obiettivo dell’universalizzazione delle tutele “nel mercato” non rientri nell’orizzonte dell’attuale legislatore. D’altra parte aver ignorato il lavoro autonomo è – di nuovo - la logica conseguenza del non aver voluto affrontare il nodo centrale dei meccanismi di finanziamento del sistema e dell’aver impostato l’intera riforma sull’irrigidimento del tradizionale modello assicurativo, concepito per tutelare il lavoro subordinato standard.

Quanto alla regolazione della DIS-COLL, si è detto che riproduce quella della NASpI con qualche significativa differenza in peius relativa sia ai requisiti di accesso che alla durata delle prestazioni. L’omogeneizzazione dei regimi avrebbe potuto suggerire di prevedere la possibilità, per chi alterna periodi di lavoro subordinato a periodi di collaborazione, di cumulare la relativa contribuzione[20]; una misura che avrebbe significativamente ampliato la fascia dei precari tutelati. Ma così non è stato. Per acquisire il diritto alla prestazione il collaboratore «iscritto in via esclusiva alla Gestione separata», deve avere versato almeno tre mesi di contributi nel periodo compreso tra il 1° gennaio dell’anno solare precedente alla cessazione del rapporto di lavoro e l’effettiva risoluzione dello stesso, nonché aver maturato un mese di contribuzione nell’anno solare in cui si è verificata la perdita del lavoro. Quest’ultimo requisito può essere sostituito dall’aver lavorato nello stesso periodo per un minimo di un mese, percependo un reddito almeno pari alla metà dell’importo che dà diritto all’accredito di un mese di contribuzione; con il che il legislatore delegato ha inteso attuare quanto prescritto dalla legge delega in merito all’estensione del principio di automaticità alle prestazioni in parola, limitandone al minimo gli effetti[21]. La prestazione - d’importo calcolato con gli stessi criteri della NASpI - è erogata per una durata pari alla metà dei mesi di contribuzione nel periodo di riferimento, con un massimale di 6 mesi (dunque ben più basso rispetto a quello della NASpI).

Completa il quadro la punitiva esclusione – in questo caso totale - del beneficio della contribuzione figurativa; una previsione che rafforza il carattere già fortemente sperequativo del regime pensionistico dei lavoratori iscritti alla Gestione separata, al punto da esporlo a dubbi di legittimità costituzionale. 

4. La tutela residuale: l’assegno di disoccupazione

Posti i molteplici profili di debolezza strutturale della DIS-COLL ed il suo carattere di misura mutualistico-assicurativa, la vera e unica misura universale di sostegno del reddito della riforma è rappresentata dal nuovo assegno di disoccupazione (ASDI), grazie al quale si affianca una tutela di natura assistenziale alle tradizionali tutele previdenziali (art. 16, d.lgs n.22/15). Si tratta in questo caso di un istituto indubbiamente innovativo per il nostro ordinamento, il cui alto valore ideale[22] è però nei fatti contraddetto da una regolazione che ne limita fortemente l’impatto sul complessivo sistema degli ammortizzatori sociali[23].

La prestazione spetta solo a chi abbia fruito per l’intera sua durata della NASpI e, ancora privo di occupazione, si trovi in condizioni economiche di bisogno. L’individuazione delle specifiche modalità di erogazione dell’assegno sono definite da un decreto ministeriale, ma la platea dei beneficiari è limitata a monte dalla dotazione del fondo deputato a finanziarlo (gestito dall’INPS): 400 milioni di euro destinati a coprire il fabbisogno stimato per il solo 2015. Il decreto in materia di Cassa integrazione in corso di adozione ne prevede il finanziamento fino al 2019, ma resta la natura sperimentale dell’istituto, il cui incerto futuro è condizionato dall’adozione di provvedimenti che continuino a finanziarlo (art. 42, comma 5 dello schema di decreto). La modesta copertura economica che lo sorregge spiega sia il basso importo e la limitata durata (75% dell’indennità di disoccupazione, con tetto pari all’assegno sociale per un massimo di 6 mesi e di complessivi 24 in un quinquennio), sia i rigidi criteri di priorità (che premiano i nuclei familiari con minorenni e l’età prossima al pensionamento), sia il vincolante requisito di disponibilità al lavoro (definito da un “patto di servizio personalizzato” predisposto dai centri per l’impiego).  

Ma tra tutti, il criterio selettivo forse più discutibile (e certamente tale sul piano sistematico) è proprio quello che lega a monte l’assegno di disoccupazione alla previa fruizione della NASpI. Trattandosi di una prestazione di base, tesa a far fronte a condizioni di bisogno dovute allo stato di disoccupazione, non si vede perché essa debba privilegiare chi ha previamente beneficiato della tutela previdenziale. L’istituto finisce in questo modo per rafforzare gli squilibri che caratterizzano il nostro sistema di ammortizzatori sociali e per evidenziare ancora di più la sua più evidente lacuna: la mancanza di strumenti di tutela non a base occupazionale, destinati a tutti i cittadini che si trovino in condizioni di bisogno economico.

5. La “nuova” Cassa integrazione

Il nuovo sistema di ammortizzatori sociali si completerà con l’adozione dei due decreti sui c.d. ammortizzatori in costanza di rapporto di lavoro (Cassa integrazione guadagni) e sui servizi per l’impiego e le politiche attive del lavoro.

La riforma della Cassa integrazione è ispirata ad un condivisibile intento di razionalizzazione del quadro esistente. Le novità più significative rispondono alla volontà di superare la logica emergenziale che ha portato spesso ad un uso distorto dell’istituto ed ha determinato modalità di finanziamento a dir poco opache. Il che giustifica un maggior rigore sia nella definizione delle causali[24] sia nella determinazione della durata complessiva dell’integrazione salariale (riducendo la possibilità di proroga[25]) e spiega la rimodulazione degli oneri a carico delle imprese, che aumentano in ragione dell’effettivo utilizzo del trattamento.  

Si tratta di modifiche che, se trovano la loro ragione di fondo -di nuovo- in esigenze di contenimento della spesa previdenziale, sono in buona parte condivisibili in quanto orientate a riportare l’istituto nell’alveo della funzione che gli è propria: quella di uno strumento di tutela che aiuta le imprese (e indirettamente i lavoratori) a superare situazioni di difficoltà preservando i livelli occupazionali. Il problema non è dunque la stretta in sé sui margini di utilizzo della Cassa, ma la debolezza delle tutele destinate al lavoratore una volta cessato il rapporto di lavoro al termine del periodo di integrazione. L’arretramento delle tutele si coglie in questo caso con evidenza confrontando il regime dell’indennità di mobilità con quello della Nuova ASpI, destinata a subentrarvi. E la vicenda degli esodati insegna quali scenari il nuovo regime può configurare per chi perde il lavoro in età avanzata, ma non sufficientemente vicina alle nuove soglie di età pensionabile.

Resta affidata ai fondi bilaterali di solidarietà la funzione di garantire l’integrazione salariale ai lavoratori impiegati in settori che ne sono rimasti fino ad oggi privi, con la rilevante novità (rispetto alla riforma Fornero che li ha istituiti) di estendere l’obbligo di costituirli a tutte le aziende con più di cinque dipendenti (e non già di 15).

Seppur eteroregolati e posti sotto il controllo e la gestione dell’INPS, i fondi devono essere costituiti per iniziativa delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali comparativamente più rappresentative; in caso di loro inerzia, opera il fondo residuale costituito con Dm. La loro effettiva attivazione è resa tanto più necessaria considerando il venir meno dei finanziamenti per la cd Cassa in deroga, che fino ad oggi ha permesso di contenere gli effetti della crisi sul piano occupazionale nei settori non coperti dal regime generale. I fondi per altro possono anche servire ad integrare le prestazioni per i lavoratori rientranti nell’ambito di applicazione della Cassa integrazione, eventualmente per sopperire alle sopra richiamate deficienze delle misure di sostegno del reddito che accompagnino alla pensione (art. 32 dello schema di decreto).

In quanto finalizzata a coprire le lacune del sistema, anche l’istituzione dei fondi bilaterali si colloca in una prospettiva di universalità, cioè di estensione e di omogeneizzazione di questa specifica forma di tutela. Tale fine – di nuovo- è perseguito adottando modelli rigidamente assicurativi, che assumono in questo caso tratti propriamente privatistici. In particolare, le prestazioni sono calcolate in pieno ossequio al principio di corrispettività rispetto ai contributi versati (ripartiti per due terzi a carico del datore e per un terzo dei lavoratori) e sui fondi grava per legge l’obbligo del pareggio di bilancio. Ne esce confermato il profilo di maggior debolezza del nuovo “pilastro” delle tutele in costanza di lavoro creato con la riforma del 2012: il fatto cioè che i fondi «non possono erogare prestazioni in carenza di disponibilità» (art. 35, comma 1), ovvero che il lavoratore perde il diritto all’integrazione salariale se mancano le relative coperture finanziarie. Con ciò la disciplina dei fondi bilaterali entra in contraddizione con il fondamentale principio previdenziale dell’automaticità delle prestazioni[26]; al punto da poter legittimamente dubitare si possa ancora parlare di prestazioni previdenziali e non di mere forme collettive di mutualità privata.

6. Il costo umano della condizionalità

È quasi superfluo sottolineare l’importanza della riforma delle cd politiche attive del lavoro e dei servizi per l’impiego, deputata a superare le storiche inefficienze che, nel nostro Paese, caratterizzano da sempre l’intervento pubblico nel mercato del lavoro. E nel decreto in corso di adozione dedicato alla materia (che completa la delega di cui all’art. 1, l. n.183/14) non mancano segnali che la direzione intrapresa sia quella giusta: in particolare positiva è la scelta di affidare ad una Agenzia nazionale per le politiche attive (ANPAL, vigilata dal Ministero del lavoro e partecipata da Stato e Regioni) il compito di garantire un più ordinato governo dei servizi per l’impiego e di coordinare gli interventi di politica attiva – la cui programmazione resta in mano alle regioni-integrandoli con le misure di sostegno del reddito erogate dall’INPS. I dubbi che i buoni propositi si traducano in una buona riorganizzazione del sistema derivano – al solito - dalle scarse risorse destinate a tal fine. Dubbi che aumentano considerando che alla costituzione della neonata agenzia si provvede “con le risorse umane, finanziarie e strumentali già disponibili a legislazione vigente” (art. 1, comma 4, lett. c, l. n.183/14).

Ragioni economiche e di bilancio - più che la volontà di contrastare gli abusi - spiegano anche i severi criteri di “condizionalità” cui l’emanando decreto subordina l’erogazione delle prestazioni economiche, specificando quanto in merito già previsto dal d.lgs n.22/15. In linea di continuità anche sotto questo profilo con la riforma del 2012, si prevede che il disoccupato decada dal diritto all’indennità se rifiuta un’offerta di lavoro “congrua”. Il concetto andrà specificato in un futuro decreto ministeriale, ma il legislatore delegato identifica un criterio di congruità dell’offerta di lavoro nella retribuzione non inferiore del 20% rispetto all’importo lordo dell’indennità cui il disoccupato ha diritto (art. 11, d.lgs n.22/15 e art. 25 dello schema di decreto sui servizi per l’impiego)[27]. Condizione, quest’ultima, di dubbia costituzionalità, in quanto una simile occupazione buon ben dirsi lesiva del diritto alla professionalità del lavoratore[28], se non della sua dignità. Penalizzazioni (che di nuovo possono arrivare fino alla perdita della prestazione) conseguono anche alla mancata partecipazione alle iniziative di carattere formativo e di riqualificazione, che il disoccupato si impegna a seguire stipulando un “patto di servizio personalizzato” con il centro per l’impiego (artt. 20 e 21 dello schema di decreto). Ed in questo caso l’attività formativa non viene neppure posta in relazione con un possibile sbocco lavorativo “congruo”[29].

Analoghi meccanismi di condizionalità sono previsti (ed inaspriti rispetto al passato) anche nei confronti dei beneficiari delle prestazioni di integrazione salariale, che vedano il loro orario su base annua ridotto oltre il 50% (art. 22). Ciò nonostante che il loro rapporto di lavoro sia sospeso e non cessato, in virtù di un istituto che proprio la riforma dovrebbe ricondurre alla sua specifica funzione (evitare la perdita del posto di lavoro): una funzione che non giustifica l’obbligo di attivarsi per trovare una diversa “congrua” occupazione[30]. Tanto meno si giustifica l’utilizzo dei lavoratori in “attività socialmente utili”, da svolgere sulla base di convenzioni con gli enti locali (art. 26): istituto che rievoca fallimentari esperienze del passato (i LSU ex l. n.451/94), ed attivabile anche per impiegare (sotto costo) disoccupati ultrassessantenni lasciati senza reddito dalla combinazione tra la riforma degli ammortizzatori e quella delle pensioni (art. 26, comma 5).

In generale, l’inasprimento dei meccanismi di condizionalità mal si concilia con il parallelo rafforzamento della logica assicurativa, che si è visto costituire il tratto caratterizzante del nuovo sistema di ammortizzatori. Quanto più si abbraccia quella logica, tanto più la prestazione a sostegno del reddito si configura come un diritto individuale che il lavoratore acquisisce in virtù dei contributi versati, cioè del suo lavoro. Non si vede allora perché, una volta maturato, il godimento di tale diritto debba essere condizionato da sempre più gravosi oneri di attivazione.

Naturalmente criteri ancor più rigidi di condizionalità sono applicati all’ASDI, così come la medesima ratio ispira il nuovo istituto del “contratto di ricollocazione” (art. 23 dello schema di decreto), i cui tratti sono già definiti nell’art. 17, d.lgs n.22/15[31]. Con esso il disoccupato (non beneficiario di indennità) riceve un voucher (assegno di ricollocazione) da spendere presso servizi per il lavoro accreditati (pubblici o privati); sul presupposto, appunto, che sia disponibile a rispondere a qualsiasi iniziativa mirata a sbocchi occupazionali “coerenti con il fabbisogno espresso dal mercato del lavoro”.

Ciò che qui più preme evidenziare è come proprio il modo con cui viene declinata la condizionalità sia rivelatore di un approccio “ideologico” alle politiche sociali in materia di occupazione, che vuole il diritto al lavoro subordinato ad una logica economica e di mercato. Quella stessa logica che impedisce l’evoluzione del sistema in senso realmente universalistico e che rappresenta il vizio di fondo dell’intero programma di riforma in atto. A superare tale prospettiva mira la proposta di istituzione del reddito minimo garantito, non a caso totalmente scomparso dal programma di governo[32]. La garanzia di prestazioni di base svincolate da draconiani requisiti di condizionalità non risponderebbe soltanto a fondamentali esigenze di equità sociale. Liberare il beneficiario dal ricatto del “lavoro purché sia” significa rafforzare la sua forza contrattuale “nel mercato”, il che è il presupposto perché possano riequilibrarsi i rapporti di forza “nel rapporto”, oggi clamorosamente sbilanciati a favore dell’impresa[33]. Il reddito garantito in quest’ottica è una misura funzionale a rafforzare anche l’azione sindacale e con essa a favorire la ripresa delle dinamiche salariali, depresse dalla concorrenza al ribasso prodotta dall’ “esercito di riserva” disponibile sul mercato. E’ esattamente la prospettiva opposta alla fissazione per legge dei minimi salariali (prevista dall’art. 1, comma 7, lett. g), L. 183/2015), che invece tale concorrenza alimenta.

Va da sé che una simile prospettiva richiederebbe l’adozione di coraggiose politiche redistributive e di carattere espansivo; impraticabili senza contraddire le politiche di austerità che oggi vincolano i governi nazionali, specie nel sud Europa. Il che chiama in causa l’UE che proprio in materia di reddito di base manifesta un’anima duplice (se non schizofrenica), se è vero che a raccomandare agli Stati (Italia compresa) di dotarsi di strumenti universali di sicurezza sociale, sono le stesse istituzioni responsabili dei rigidi programmi di consolidamento fiscale che quelle misure rendono inattuabili[34].

[1] A. Alaimo, Ricollocazione dei disoccupati e politiche attive del lavoro. Promesse e premesse di security nel Jobs Act del Governo Renzi, W.P. CSDLE “Massimo D’Antona”. IT – 249/2015, p. 3.

[2] Lo schema di decreto legislativo recante Disposizioni per il riordino della normativa in tema di ammortizzatori sociali in costanza di lavoro e lo schema di decreto legislativo recante Disposizioni per il riordino della normativa in tema di servizi per il lavoro e di politiche attive sono stati trasmessi alle competenti commissioni parlamentari l’11 giugno 2015.

[3] Cfr. F. Liso, Il “nuovo” trattamento di disoccupazione, Rivista del Diritto della Sicurezza Sociale, 2013, p. 15, critico già nei confronti della riforma Fornero.

[4] Resta comunque tutelato il lavoratore dimessosi per giusta causa (Corte cost. 24.6.2002, n.269).

[5] Sembra invece non beneficiare dell’indennità il lavoratore che abbia accettato la proposta di risoluzione consensuale offerta dal datore in base all’art. 6, d.lgs 22/15 (cioè ai sensi della nuova disciplina del licenziamento associata al c.d. contratto a tutele crescenti); una lacuna che meriterebbe essere superata, se, com’è nella ratio del dllgs 22/15, s’intende incentivare questa forma di conciliazione.

[6] In questo senso, sia Corte Cost. 24.3.2006, n. 121 che Cass. SS. UU. n. 1732/2003; in assenza di una espressa disposizione in merito, difficile dedurre il superamento implicito di tale giurisprudenza dalla norma (art. 9, comma 3, d.lgs 22/15) che, senza distinguere tra le diverse forme di part time, ne regola le condizioni di compatibilità con il beneficio dell’indennizzo (come suggerisce M. Miscione, Jobs Act: il decreto delegato sulle indennità di disoccupazione e la ricollocazione dei disoccupati, Quotidiano giuridico.it).

[7] Un simile requisito va a detrimento di chi ha visto il rapporto sospeso per una delle ragioni previste dalla legge (maternità, congedi, malattia..); discutibile soprattutto il mancato computo dei periodi di malattia, che può escludere chi perde il lavoro per superamento del periodo di comporto.

[8] Le stime del Governo, riportate nella relazione illustrativa del decreto delegato, sono analizzate criticamente da D. Mesiti, Le nuove prestazioni previdenziali in caso di disoccupazione involontaria ed il contratto di ricollocazione, in Lavoro nella Giurisprudenza, 4/2015, spec. p. 330.

[9] L’indennità di mobilità è corrisposta ai lavoratori rientranti nell’ambito di applicazione della CIGS per un minimo di 12 mesi (per i lavoratori con meno di 40 anni) e fino a un massimo di 48 mesi (per i lavoratori ultracinquantenni impiegati in aziende del Mezzogiorno).

[10]Così P. Capurso, Assicurazione Sociale per l’Impiego 2.0: cambia ancora la tutela per la disoccupazione, in Il Lavoro nella Giurisprudenza 4/2015, p.345.

[11] Lo schema di decreto sugli ammortizzatori in costanza di lavoro, nelle norme rubricate alle “disposizioni finanziarie” contiene anche alcune puntuali modifiche del d.lgs. 22/15 tese a correggerne le più evidenti sperequazioni emerse all’indomani della sua attuazione.

[12] Capurso, Assicurazione Sociale per l’Impiego 2.0, cit., p. 345

[13] Tra le tante, cfr. la celebre Corte Cost. 23.1.1986, n. 31.

[14] Con l’art. 42, comma 4 dell’adottando decreto sulla Cassa integrazione si intende coprire questa falla della riforma, assicurando per il 2015 il mantenimento della durata semestrale ai lavoratori stagionali del settore del turismo, che si trovino entro il 31 dicembre 2015 in stato di disoccupazione; resta da vedere cosa accadrà a partire dal 1 gennaio 2016, posto che comunque la “toppa” non vale neppure per l’anno in corso per i lavoratori impiegati in altri settori.

[15] Se la retribuzione di riferimento supera i 1.195 euro, la prestazione è incrementata in misura pari al 25% del differenziale tra la retribuzione mensile e detta soglia massima.

[16] La legge 92/12 prevedeva una riduzione dell’indennità del 15% dopo 6 mesi e di un ulteriore 15% dopo 12 mesi.

[17] Ne consegue una situazione potenzialmente discriminatoria rispetto ai lavoratori la cui pensione è calcolata con il retributivo (così S. Renga, Post fata resurgo: la rivincita del principio assicurativo nella tutela della disoccupazione, Lavoro e diritto, 2015, 87).

[18] Renga, Post fata resurgo, cit., p. 88.

[19] L’art. 2, d.lgs 81/2015 elimina il lavoro a progetto ma non le co.co.co. di cui all’art. 409 cpc (espressamente richiamato dall’art. 52), ricondotte al lavoro subordinato solo quando il committente «organizza le modalità di esecuzione della prestazione» del lavoratore; cioè non sempre.

[20] M. Cinelli, Gli ammortizzatori sociali nel disegno di riforma del mercato del lavoro, Rivista del Diritto della Sicurezza Sociale, 2012, p. 246.

[21] La nuova disciplina può produrre effetti regressivi su quella giurisprudenza che già ha riconosciuto l’applicabilità del principio di automaticità ai regimi previdenziali dei lavoratori a progetto (Trib. Bergamo 23 dicembre 2013, n. 941).

[22] Così M. Cinelli, Diritto della Previdenza Sociale, Torino, 2015, p. 373.

[23] Contra F. Carinci, Jobs Act atto II: la legge delega sul mercato del lavoro, in Carinci- Tiraboschi, I decreti attuativi del Jobs Act: prima lettura e interpretazioni, e-book Adapt n.21, 2014, p. 16 che vi coglie un’«innovazione estremamente significativa che, se attuata, metterà il nostro paese al passo con gli altri».

[24] In particolare viene confermata la scomparsa della CIGS per cessazione dell’attività dell’azienda.

[25] La durata massima del trattamento straordinario è fissata in 24 mesi nel quinquennio mobile, e può arrivare a 36 mesi se l’integrazione è concessa sulla base di contratti di solidarietà (art. 22 dello schema di decreto).

[26] Cinelli, Gli ammortizzatori sociali, cit., p. 259.

[27] La normativa previgente la l.92/12 rapportava la congruità dell’offerta alla retribuzione di provenienza e non all’indennità di disoccupazione.

[28] Cinelli, Diritto della previdenza, cit., p. 384.

[29] Da ciò i rilievi critici ancora di Cinelli, ult. cit., p. 385.

[30] Spia di tale contraddizione “sistematica” si coglie nel fatto che i lavoratori in Cassa integrazione nello schema di decreto sono ricondotti nella categoria, di nuovo conio, dei “disoccupati parziali” (art. 19, comma 4, lett. c).

[31] In merito, ampiamente, Alaimo, Ricollocazione dei disoccupati, cit., p. 11 ss.

[32] G. Bronzini, Che fine ha fatto il reddito garantito?, Rivista giuridica del lavoro, 2014, p. 335 ss.

[33] Sostenere il reddito minimo garantito non significa porre l’enfasi sulla (illusoria) libertà di scelta del lavoro, a scapito della tutela nel lavoro (così V. Bavaro, Reddito di cittadinanza, salario minimo legale e diritto sindacale, Rivista del diritto della sicurezza sociale, 2014, p. 186); ma riconoscere la libertà di “rifiutare” il lavoro, se tale tutela non c’è.

[34] Come chiosa a ragione S. Giubboni, Il reddito minimo garantito nel sistema di sicurezza sociale. Le proposte per l’Italia in prospettiva europea, Rivista del diritto della sicurezza sociale, 2014, p.156 le raccomandazioni delle istituzioni UE in merito al reddito minimo garantito assumono così “un amaro sapore beffardo, che aumenta, invece di ridurre, il senso di frustrazione e di risentimento di larghissimi strati delle popolazioni nazionali impoveriti nei confronti dell’Unione”.