Magistratura democratica

Le misure di austerity e la giurisprudenza “multilivello”.
Verso lo scollamento tra protezione europea e protezione interna?

di Giuseppe Bronzini

Nonostante sia pacifico che la Carta dei diritti dell’Ue si applica ad ogni atto, anche nazionale, che è il prodotto di un’azione dell’Unione e dei suoi organi, la Corte di giustizia in una serie di decisioni "pilatesche" si è sinora rifiutata di esaminare nel merito le misure nazionali di austerity. Anzi in alcune sentenze sono state giudicate "proporzionate e necessarie" le durissime misure adottate da Grecia, Portogallo, Romania. Solo la Corte costituzionale portoghese in passato aveva giudicato iniqui e lesivi del contenuto essenziale dei diritti sociali fondamentali alcuni provvedimenti di risanamento del bilancio nazionale (inducendo così il Governo a reperire in altro modo i fondi per rispettare gli impegni europei). Con le recenti sentenze sul blocco dell’indicizzazione delle pensioni e del rinnovo dei contratti nel pubblico impiego la nostra Corte costituzionale sembra essersi allineata a quella portoghese. Tuttavia, l’azione dell’Unione che incide su diritti sociali fondamentali continua a necessitare di una verifica giurisdizionale "europea" che si saldi ed integri con i rimedi interni, se si vuole salvare il cosiddetto modello della "tutela multilivello".

«La Germania deve lo slancio della sua ascesa economica, di cui si alimenta tutt’ora, alla saggezza delle nazioni creditrici che nel 1954 le condonarono la metà dei suoi debiti»
JürgenHabermas

«Quando sento i tedeschi dire che sono mossi solo dall’etica e che sono fermamente convinti che i debiti debbano essere pagati, penso:ma questa è una barzelletta. La Germania è esattamente il Paese che non ha mai onorato i suoi debiti»
Thomas Piketty

1. Premessa

Nel momento in cui si completa questo contributo,nonostante la chiusura per una settimana della borsa e delle banche in Grecia (sorvegliate dall’esercito), il razionamento del cibo, i consumi livellati d’autorità ai 60 euro che si possono prelevare dai bancomat e lo scarseggiare dei beni di prima necessità a cominciare dalla benzina o dei medicinali, il popolo dell’Ellade ha, con il 63,3% dei voti, appena espresso il proprio “oxi” alle ultime proposte dell’Europa per rinnovare il piano di aiuti. Scene che abbiamo già visto in Argentina o a Cipro, ma che questa volta coinvolgono grandi metropoli europee come Atene, ove nacque la democrazia occidentale e ove – evidentemente- quel valore dimostra ancor oggi una particolare resistenza a ricatti e minacce. La contesa tra Ue e governo greco verte sulle misure di austerity così come già concordate a suo tempo con la Troika (termine che ora viene pudicamente sostituito con “istituzioni”; in questi ultimi giorni si insiste invece sul ruolo dei “creditori,” quasi a far intendere che alla fine si tratti di un normale dissidio civilistico) in cambio del “salvataggio dal “default”; si contesta il loro carattere iniquo ed alla fine dannoso anche al solo fine di ripagare gli aiuti concessi, si sottolinea la poca trasparenza[1] dei meccanismi di “recovery”, attribuiti alla discrezionalità di organi “tecnici” che si sottraggono ad ogni responsabilità politica (salvo in parte - grazie alle nuove regole del Trattato di Lisbona - la Commissione). Si tratta di quel processo di “immunizzazione” delle scelte dell’Unione per gestire la crisi economica internazionale dai meccanismi di partecipazione democratica che Étienne Balibar ha definito «rivoluzione dall’alto»[2] e Jürgen Habermas «federalismo degli esecutivi»[3]; una sorta di “diritto dell’economia dell’emergenza” che schmittianamente si sottrae alle regole ordinarie europee. La situazione è ancora in pieno divenire e muta ogni momento, ma - comunque si concluda - si può certamente dire che la politica dei risanamenti dei bilanci pubblici dei Paesi in difficoltà a colpi di sacrifici e di tagli (su pensioni, stipendi, prestazioni sociali, servizi sociali etc. sino anche a provvedimenti di sterilizzazione – provvisoria - di libertà fondamentali come quelle alla contrattazione collettiva) ha condotto sino al punto di catastrofe quel processo di integrazione che si sviluppa dal 1957. Un economista progressista come Jean Paul Fitoussi si vede, così, costretto ad ammonire che «bisognava salvare l’idea di un continente che sino a pochi decenni fa era sconvolto ed oggi si trova a vivere in pace con una comune ambizione al progresso». L’integrazione europea nasce, sembra non superfluo continuare a ricordarlo proprio in questi momenti così drammatici, come una sperimentazione politico-istituzionale che vuole superare gli orrori del nazionalismo (e delle sue varianti più sanguinarie, il militarismo e il razzismo antisemita); la storia insanguinata dei confini tra Stati europei è la vera fonte per capire il successo che sino ad oggi è sembrato inarrestabile di una integrazione giuridica che - sin dall’inizio - ha cercato di declinare un’alternativa all’autodistruttività delle dinamiche di potenza degli Stati europei. Sono queste bitter experience che spiegano in gran parte, come ha ricordato in un’amara riflessione sul voto in Francia del 2005 Christian Joerges, la forza di una law after Auschitz[4] che si adopera a «lavorare attraverso il passato» per aprire nuove possibilità per la coesistenza tra i cittadini del vecchio continente. Quel luogo che ha visto nascere lo stesso concetto di “sovranità” nazionale e ha conosciuto direttamente e con la massima intensità le conseguenze più aberranti di una nozione, costitutiva del cosiddetto ius pubblicum europaeum, e in sé matrice di inimicizia insanabile e di esclusione dei diversi, come quella di “popolo”. Bene questi fondamenti “morali” del processo di integrazione sono stati logorati in poco più di un quinquennio nella gestione della crisi dell’euro con il varo di politiche impopolari e inefficaci nelle quali il volto dell’Europa si è trasformato in quello di un rude contabile, inflessibile non solo ad ogni considerazione di equità, ma persino a ragioni di efficienza economica. Ricorda ancora Fitoussi che «c’è una teoria economica di base che viene insegnata alle scuole medie che dice che quando hai un forte credito non ha senso accanirsi sul debitore per spillargli per intero quanto dovuto, perché così si finisce per ottenere niente»[5]. Le politiche di austerity hanno conosciuto in questi anni di crisi solo marginali ammorbidimenti, soprattutto dopo le ultime elezioni del Parlamento europeo con l’uscita di scena di Josè Manuel Barroso ed il formarsi di una coalizione tra PPE e socialdemocratici europei: una certa flessibilità è stata mantenuta verso l’Italia e, soprattutto la Francia, la quale però gode di attenzione “privilegiata” sin dal 2003, quando insieme alla Germania sforò platealmente i parametri sovranazionali e la proposta del Commissario Monti di procedere ad una procedura d’infrazione fu fermata. Nel suo complesso la metafisica influente la complessiva governance economica dell’Unione è rimasta la stessa: ridimensionare i bilanci pubblici attraverso risparmi il prima possibile ed ad ogni costo, anche dal punto di vista sociale. Invano economisti di fama mondiale tra cui alcuni premi Nobel hanno sottolineato come questa “cura” fosse del tutto irrazionale (e come l’istituzione della moneta comune necessariamente, per sopravvivere, dovesse completarsi con meccanismi che - almeno in parte - comportassero qualche forma di “solidarietà” tra gli Stati membri con conseguente “socializzazione” per lo meno di una quota dei deficit nazionali e la previsione di aiuti ed incentivi “sovranazionali” a tutti gli Stati per crescere e svilupparsi. La situazione di dissesto di alcuni Paesi del sud Europa dipende certamente da errori commessi dai loro Governi (nel caso della Grecia vere e proprie truffe ai danni dell’Unione) ma anche dalla particolare fragilità dell’euro che non ha comportato, come era imprescindibile, il varo di un governo economico e sociale europeo lasciando le politiche economiche e sociali ancora (almeno nominalmente) in mano agli stati nazionali[6]. È infatti inconcepibile per questa linea critica delle politiche europee che “una moneta comune” non preveda modalità di intervento che favoriscano una convergenza tra le economie nazionali e quindi investimenti sovranazionali e qualche forma di trasferimento ai Paesi in difficoltà. Non sono bastati i moniti di Amartya Sen, di Joseph Stiglitz, di Paul Krugman, tutti premi Nobel per l’economia e di tantissimi altri economisti neokenesiani[7]; neppure l’avvertimento di Krugman già alla fine del 2009[8]che se l’Europa non avesse riscoperto la strada della solidarietà verso i Paesi in difficoltà, si sarebbe aperto il varco verso il rafforzarsi di partiti europei xenofobi, populisti ed addirittura marcatamente fascisti, come abbiamo visto in questi anni di lugubri risultati elettorali in tantissime competizioni elettorali. Lo spettro del ritorno alle dinamiche autoritarie degli anni ‘30, indotte questa volta da una cattiva gestione della crisi economica in chiave sovranazionale, non è riuscita a cambiare lo stato di cose se non con vaghissime promesse di un allentamento dell’austerity, ma non per i greci che di questa hanno pagato i pressi più alti (caduta del Pil di oltre il 25%). Nessuna modifica si è riuscito nemmeno ad ipotizzare persino nella limitata prospettiva di una maggiore trasparenza dei meccanismi di gestione delle crisi: l’idea che le previsioni del Fiscal compact (Trattato internazionale) potessero - come previsto nello stesso Trattato - essere riportate nel quadro del diritto dell’Unione e che si potesse stabilire un controllo ed una verifica anche parlamentare sulle decisioni della Troika è rimasta inattuata: anzi il tanto atteso quanto deludente Report dei 4 Presidenti non offre alcuna soluzione credibile e nessun piano di interventi a breve. Inascoltato è stato anche il Parlamento europeo che è intervenuto con due Risoluzioni, la prima del 21.12.2013 sul «Potenziamento della dimensione sociale dell’Unione economica e monetaria», la seconda del 12.12.2013 sui «Problemi costituzionali di una governance a più livelli nell’Unione europea», che ha chiesto un radicale cambiamento di rotta e una democratizzazione del processo decisionale e gestionale dei provvedimenti anticrisi. Il Parlamento ha inoltre mosso severe critiche a quanto accaduto in questi ultimi 5 anni, sostenendo che le politiche di austerity e di rigore abbiano prodotto una compressione intollerabile dei livelli di prestazioni sociali. In questo modo (ha aggiunto il Parlamento) è rimasto compromesso il nucleo essenziale dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta dei diritti dell’Unione europea e del diritto internazionale; si è allargato il tasso di ineguaglianza e si è incrinata la base del “modello sociale europeo”. In proposito va segnalato anche il Rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro del 28.2.2014 “The European Social Model in times of Economic Crisis and Austerity Policies”. Una nuova Risoluzione del Parlamento europeo sull’operato della Troika del 13 marzo del 2014 ha infine stigmatizzato politiche che il relatore ha definito di «bassa macelleria sociale». Il Parlamento ha anche promosso vari studi sull’impatto delle politiche di austerity molto critici sull’accaduto.

Non desideriamo entrare nel dettaglio della crisi greca, ma solo sottolineare che questa crisi mette in primo piano la legittimità di provvedimenti che incidono su diritti sociali fondamentali ai danni della popolazione più povera. La rottura con la Troika è infatti avvenuta con il rifiuto del governo Tsipras di compensare gli aiuti concessi alla popolazione in difficoltà con spese di carattere umanitario con ulteriori tagli impopolari. Una delle ragioni che, però, ha portato a questa drammatica contrapposizione ci pare essere stata la sostanziale ineffettività della tutela in chiave europea di quei diritti sociali che pur appaiono consacrati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue (nota anche come Carta di Nizza) e nella Carta sociale europea (e come diremo anche in parte nella Cedu attraverso una giurisprudenza innovativa della Corte di Strasburgo). Di questo ci occuperemo per mostrare come dalle Corti europee sia mancato un contributo, come era legittimo aspettarsi, sui limiti che una politica di risanamento dei conti pubblici deve incontrare laddove incida sul nucleo essenziale di diritti sociali fondamentali di rilievo costituzionale (interno o sovranazionale).

2. La sacralizzazione del “margine di apprezzamento” nella giurisprudenza di Strasburgo

Premettiamo che per “misure di austerity” intendiamo unitariamente due tipi di provvedimenti che comunque mantengono una loro diversità pur nella comune dipendenza da scelte o indicazioni sovranazionali. Il primo è costituto da quelle misure che gli Stati adottano nel quadro “ufficiale” di un salvataggio effettuato su richiesta del Paese per evitare un default. Sino ad oggi Irlanda, Portogallo, Grecia, Cipro e Spagna (ma limitatamente alle sue banche). Le misure sono state adottate prima dal European Financial Stability Facility (EFSF) e poi dall’European Financial Stability Mechanism (EFSM) organismi varati dall’Unione nel pieno della crisi dell’euro, attraverso una interpretazione estensiva dei Trattati, ed oggi dal MES (Meccanismo europeo di stabilità), creato da un Trattato internazionale (che si affianca al Fiscal Compact) come istituzione permanente. Le misure di salvataggio sono definite attraverso negoziati condotti dalla Troika (BCE, Commissione europea e Fondo monetario internazionale) che realizzano il principio della “condizionalità” degli aiuti alla definizione di un piano di rientro del Paese sui mercati e di normalizzazione del Paese in difficoltà. Pertanto queste misure sono definite e prestabilite in un Memorandum of undestanding che, appunto, costituisce il “piano del salvataggio” che è certamente “europeo” ma che vede il concorso anche del Fondo monetario e quindi un elemento di “internazionalizzazione” degli aiuti. La Bce, dopo una prima operazione di aiuti ai Paesi periferici nell’acquisto di titoli pubblici (soprattutto BTP e Bonos), ha poi formalizzato un ulteriore programma di aiuti che si avvicina di molto alle prime misure previste dai Fondi europei di stabilità: il piano OMT (Outright monetary transations) dell’estate del 2012 (recentemente avallato da un decisione della Corte di giustizia su rinvio pregiudiziale del Tribunale costituzionale tedesco che ora dovrà decidere la questione) che – appunto - prevede un sostegno a Paesi in difficoltà che ne facciano formale richiesta sottoposto ad una rigida condizionalità, quindi attraverso modalità che obbligano gli Stati ad adottare provvedimenti pre-definiti di ridimensionamento dei bilanci pubblici. Questo tipo di interventi realizza, senza alcun dubbio, dal punto di vista sostanziale una parziale limitazione della “sovranità” dei Paesi sussidiati posto che gli stessi, rifiutando di adempiere agli obblighi concordati, rischiano di rimanere in balia della speculazione e, quindi, di fallire. Il secondo tipo riguarda, invece, le indicazioni che gli organi di Bruxelles rivolgono agli Stati nel quadro del coordinamento delle politiche economiche e monetarie previsto dai Trattati e rafforzato durante la crisi dell’euro sia con una serie di provvedimenti adottati nel quadro del diritto dell’Unione (con i cosidetti six pack e two pack) sia con la predisposizione del «semestre europeo nel quale il controllo sull’operato degli Stati è divenuto preventivo e non successivo sulle varie finanziarie nazionali o addirittura al di fuori del quadro comunitario» con l’Euro plus acted infine con il tanto discusso Fiscal Compact (che sono Trattati internazionali). In teoria qui gli organi della governance europea non dovrebbero dare indicazioni tassative e dettagliate agli Stati dovendo solo assicurare che gli stessi non violino le regole di bilancio europee e facciano quelle riforme che sono assolutamente necessarie all’equilibrio monetario ed economico dell’Unione nel suo complesso. In sostanza, astrattamente parlando. Il primo tipo di misure sono di hard law, mentre quest’ultime sono di soft law poiché rispettano un margine di discrezionalità degli Stati, se non sui fini quantomeno sui mezzi. In realtà la sostanza delle cose è assai diversa perché Paesi che si trovano in situazione di emergenza economica non possono rischiare procedure di infrazione per deficit eccessivo e nemmeno sopportare una pressione eccessiva degli organi di Bruxelles che li mettono in una situazione ingestibile di fronte alla speculazione finanziaria. Inoltre le riforme compiute nel periodo 2010-2012 hanno reso il meccanismo di controllo sulle politiche economiche nazionali sempre più penetrante ed invasivo ed incentrato addirittura sulla valutazione delle dinamiche salariali del settore pubblico, le forme di contrattazione collettiva etc. Difficile, quindi, per Paesi non solidissimi economicamente resistere alle pressioni degli organi di Bruxelles che sono sempre più di merito, sino al dettaglio. Ricordiamo che la BCE nel 2011, prima di adottare il piano di acquisti di BTP già ricordato, mandò al Governo italiano la famosa lettera d’impegno che, peraltro, altro non era che la trascrizione delle Raccomandazioni della Commissione sul piano di riforme italiano. Esisteva una concreta possibilità di evadere le richieste avanzate tra cui quella ben nota di incrementare la flessibilità in uscita del nostro mercato del lavoro? Pertanto primo e secondo tipo di “misure di austerity” sembrano assomigliarsi sempre di più e pongono uno stesso meta-problema di legittimità: i provvedimenti di contenimento dei deficit statali sino a che punto possono incidere sul nucleo essenziale dei diritti fondamentali, in articolare di quelli di natura sociale, senza compromettere quel modello di welfare europeo che il Trattato di Lisbona ha comunque sacralizzato con il riferimento all’«economia sociale di mercato»?

Dal punto di vista astratto la Corte di Strasburgo sembrava dover essere la sede privilegiata per valutare se le “recoverymeasures” o comunque i provvedimenti raccomandati dall’Unione nel quadro della governance economica e monetaria dei Trattati rispettino o meno i diritti umani (per lo meno il loro nucleo intangibile) posto che la Corte di Strasburgo eccede la dimensione regolativa dell’Unione e quindi sembrava poter essere in condizioni di autonomia e neutralità invidiabili rispetto a dinamiche così complesse e controverse come quelle affrontate per risolvere una questione che nessuno aveva previsto nel momento in cui con il Trattato di Maastricht si era varata una politica monetaria comune ed una “moneta senza stato” e cioè il possibile default di uno o più Paesi dell’eurozona. Naturalmente un ostacolo per questo ruolo, ma su questo aspetto torneremo a breve, deriva dal fatto che i diritti di natura sociale non hanno un riconoscimento esplicito nella Convenzione, ma da tempo la Corte aveva attratto tali prerogative nell’alveo protettivo dell’art. 1, Protocollo n. 1, assimilandoli al diritto di proprietà. Queste attese sono però andate del tutto deluse. Per quanto riguarda il rispetto della Convenzione europea dei diritti umani, con riferimento al Portogallo la Corte europea dei diritti umani (sentenza Da Conceicaoã Mateus c. Portogallo, dell’8.10.2013) ha giudicato legittime le misure di austerity con le quali era stata prevista per il 2012 una riduzione dei sussidi feriali e natalizi per i soli pensionati pubblici, riduzione già giudicata incostituzionale dalla Corte costituzionale portoghese, che, però, ne aveva salvato gli effetti per il 2012. La Corte di Strasburgo ha osservato che in tema di violazione di diritti pensionistici, lo Stato disponeva di un ampio margine di apprezzamento per valutare la sussistenza di un interesse pubblico alla loro rideterminazione; questa, tuttavia, deve avere un fondamento ragionevole e salvaguardare un giusto equilibrio tra le esigenze di interesse generale della comunità e la protezione dei diritti fondamentali dell’individuo. L’essenza del diritto comunque non deve essere pregiudicata e va tenuta in conto anche la specifica natura della prestazione, apparendo inammissibile una privazione totale dei diritti che comporti la perdita dei mezzi di sussistenza. Nel caso in esame emergeva che tali misure erano state adottate in una situazione economica estrema, erano limitate nel tempo e comunque i tagli non incidevano sulla pensione-base. Pertanto la Corte ha concluso che era stato rispettato un giusto equilibrio tra l’interesse pubblico al risanamento del bilancio e quello alla protezione dei diritti fondamentali, così come già accertato in un caso simile, riguardante provvedimenti di austerity in Grecia (sentenza Koufaki e Adedy c. Grecia del 7.5.2013) e in uno riguardante la Romania (sentenza Mihaies e Sentes c. Romania del 6.12.2011). La decisione certamente lascia molto spazio al potere statale di rideterminare al ribasso le prestazioni sociali. Va però rilevato che non era stata dedotta la discriminazione per i tagli che avevano colpito i soli pensionati del settore pubblico, né problemi di retroattività degli interventi.

Queste decisioni, però, rappresentano una vera e propria “doccia scozzese“ sulle speranze di una parte importante della dottrina pro-labour che confidava sul ricorso al diritto internazionale (in particolare alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo ed all’orientamento dello stesso Comitato economico-sociale del Consiglio d’Europa) per compensare la «frigidità sociale», per riprendere una celebre espressione di Federico Mancini, mostrata da numerose decisioni della Corte di giustizia, non solo con il famoso “Laval quartet” del 2007, ma anche nella più recente Association de médiation social del 15.1.2014 con la quale è stata negata l’applicabilità orizzontale dell’art. 27 della Carta dei diritti sul diritto di informazione e consultazione nei luoghi di lavoro[9]. Senza dubbio le sentenze riflettono una notevole debolezza, in generale, della giurisprudenza di Strasburgo in materia sociale posto che, come detto, i diritti sociali per essere protetti devono essere “riconvertiti” in diritti civili e finiscono con l’acquisire una certa forza solo se sono connessi ad altri diritti come la non discriminazione o il diritto ad un giusto processo (sotto il profilo del divieto di retroattività della legge civile): il margine di apprezzamento dello Stato, fuori da queste ipotesi, è così talmente ampio da rendere la tutela fenomeno eccezionale e straordinario, in presenza di lesione dei trattamenti ad un minimo intollerabile. Ad esempio nel caso delle “pensioni svizzere” la Corte di Strasburgo nella prima sentenza Maggio c. Italia ha ritenuto legittima una riduzione delle pensioni di circa il 60% del trattamento spettante (pur essendo stato stigmatizzata la retroattività del provvedimento) mentre nella sentenza Stefanetti c. Italia la Corte ha condannato l’Italia per violazione anche dell’art. 1, del Protocollo n. 1, dopo aver accertato che la riduzione del livello delle pensioni era stata di circa l’80% e che, con tali tagli, le pensioni in godimento si erano avvicinate a quelle “minime”, pur in presenza di decenni di contributi per il lavoro prestato all’estero[10].

3. Il non liquet della Corte di giustizia

Sebbene ad ogni semestrale Vertice sociale trilaterale (previsto dall’art. 152 TFUE) il sindacato europeo (Ces) non manchi mai di richiedere l’introduzione di una «clausola sociale europea»[11]questa clausola in realtà c’è già, per lo meno dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 1.12.2009: l’art. 9 del TFUE recita, infatti, «nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di un adeguata protezione sociale, la lotta contro l’esclusione sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana». Si tratta di una sorta di generale e complessiva «clausola di non regresso sociale» di cui la dottrina non ha revocato in dubbio il carattere vincolante[12]; in ogni caso in alcuni Regolamenti, adottati nel quadro delle politiche di salvataggio dell’euro (six pack e two pack), l’art. 9 è significativamente richiamato, così come è stato richiamato in alcune conclusioni di Avvocati generali, a riprova che non si tratta di una mera norma di indirizzo e programmatica. Alla luce dell’art. 9 l’Unione, e per essa ogni suo organo (ivi comprese ovviamente la Bce e la Commissione), non potrebbero adottare o anche promuovere (visto che anche la funzione di coordinamento è prevista nei Trattati) provvedimenti che siano in tensione con la garanzie di una adeguata protezione sociale. Il termine “azioni” appare così generale da potersi applicare anche ai negoziati con i Paesi che richiedono aiuto finanziario o alle Raccomandazioni rivolte nel quadro del semestre europeo. In ogni caso va ricordato l’art. 51 della Carta di Nizza secondo il quale «le disposizioni della presente Carta di applicano alle istituzioni, organi ed organismi dell’unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione». Posto che la Carta offre un elenco completo di diritti sociali e del lavoro ci si era aspettati che le misure concordate dagli Stati con organi europei come sono la Bce e la Commissione potessero cadere, comunque, nel “cono d’ombra” del diritto europeo (e quindi potessero essere vagliate alla luce della Carta di Nizza) visto che i salvataggi di Grecia, Portogallo, Spagna ed Irlanda non sono avvenuti secondo le norme del MES e del Fiscal Compact (che sono Trattati internazionali) ma secondo le disposizioni previgenti dei Fondi EFSF e EFSN, adottati nel quadro dei Trattati (sia pure con qualche forzature interpretativa). Ma così disgraziatamente non è stato. Nella sentenza Pringle(C-370/2012) del 27.11.2012 la Corte di giustizia non ha accolto le riserve del sig. Thomas Pringle, parlamentare irlandese che allegava che il Trattato internazionale del 2012 sul MES (Meccanismo europeo di stabilità) violasse il diritto dell’Unione, i suoi principi generali e che fosse contrario ad alcune norme della Carta dei diritti dell’Ue, come l’art. 47 sul diritto a un ricorso effettivo. In una lunghissima e molto complessa decisione la Corte ha affermato che i Trattati Ue non proibiscono ai singoli Stati di stipulare altri accordi di diritto internazionale, a condizione che questi non siano contrari al diritto dell’Unione. Questa contrarietà non può neppure ipotizzarsi, perché salvare l’euro, e salvaguardare la stabilità monetaria nell’area che lo ha scelto come moneta comune, sono obiettivi dello stesso Trattato di Lisbona. Tuttavia la Carta dei diritti è inapplicabile, mancando il nesso tra le misure eventualmente adottate alla luce del Trattato internazionale sul MES ed il diritto dell’Unione, che resta estraneo a quell’accordo internazionale. Il sistema così delineato appare fortemente irrazionale, perché i provvedimenti che vengono adottati dal MES sono diretti a salvaguardare un istituto come l’euro che è proprio dell’Unione e sono implementati anche da un organismo come la Commissione che fa parte delle istituzioni dell’Unione. Sostenere che scelte del genere non siano sindacabili alla luce della Carta dei diritti, in quanto non rientranti nel campo del diritto dell’Unione, sembra ridimensionare di molto il ruolo, attribuito alla Carta, di parametro di legittimità sostanziale per l’intera azione dell’Unione. Il 7 marzo 2013 la Corte di Giustizia (con l’ordinanza Sindicatodos Bancarios do Norte, C-128/2012) ha affermato di non poter giudicare se le misure di austerity adottate dal Portogallo fossero in contrasto con la Carta di Nizza perché «non emergevano in concreto elementi» per ritenere che la legge portoghese, colpendo esclusivamente i salari e le pensioni dei dipendenti pubblici, intendesse attuare il diritto europeo[13]. Ancora quindi una decisione di incompetenza, che però lascia salva una possibilità di intervento della Corte a seguito di un rinvio pregiudiziale più articolato e più motivato da parte dei Giudici di merito (sono infatti pendenti altre ordinanze pregiudiziale di contenuto analogo provenienti dai Giudici portoghesi).Ora la sentenza Pringle certamente costituisce un brutto precedente per l’avvenire: se avverranno salvataggi attraverso il MES (che ha sostituito i precedenti Fondi di salvataggio) le misure “condizionali” previste non saranno scrutinabili sotto il profilo della violazione del nucleo essenziale dei diritti della Carta (art. 52 della stessa Carta). La soluzione adottata dalla Corte è apparsa in genere molto “formalistica” posto che la stessa sentenza, come abbiamo già detto, si affanna a dimostrare che i due Trattati internazionali non violano il diritto dell’Unione visto che sono assolutamente necessari a salvaguardare una istituzione della stessa Unione come l’euro (che non è una istituzione dei 19 Paesi che in concreto l’adottano, ma “comune”). Inoltre i due Trattati (il Fiscal compact e quello sul MES) attribuiscono poteri decisivi proprio agli organi “di tipo quasi-federale” dell’Unione; BCE, Corte di giustizia e Commissione. La questione potrebbe, comunque mutare, se i due Trattati fossero ricondotti nell’alveo istituzionale dell’Unione, ma il recente Rapporto dei 4 Presidenti sulle riforme della governance europea lascia intendere che il cammino è ancora molto lungo e tortuoso. Ancora più discutibile è la seconda decisione sul Portogallo visto che le misure sindacate alla luce della Carta erano state già sottoscritte nero su bianco con la Troika (formata per due terzi da organi dell’Unione) nel quadro di un salvataggio richiesto da un paese membro ad un Fondo creato alla luce dei Trattati. Il nesso, per lo meno indiretto, con le politiche e le istituzioni europee sembra difficilmente contestabile[14]. Certamente ci troviamo di fronte ad una sorta di «colpo di stato sovranazionale» (per dirla con Balibar) in quanto misure che sono richieste da organi dell’Unione per salvare una istituzione comune dell’Unione sfuggono, così, al controllo parlamentare (non avendo il PE alcun ruolo) ed anche a quello giudiziario. In questo caso la Carta di Nizza (che invece su grandi temi come la tutela della privacy, i diritti degli immigrati, la tutela antidiscriminatoria, il diritto ad un giusto processo anche nei confronti di provvedimenti adottati dall’ONU etc. ha portato ad una coraggiosa ed innovativa giurisprudenza) diventa inefficace, proprio in relazione a provvedimenti di matrice latu sensu sovranazionale, decisivi per le condizioni materiali di vita di intere popolazioni. Ancora meno sindacabili, alla luce del rispetto della Carta di Nizza, appaiono provvedimenti “raccomandati “agli Stati in difficoltà (anche se non ancora costretti a chiedere aiuto) nel quadro del coordinamento delle politiche economiche e monetarie. Qui sembra davvero arduo dimostrare che lo Stato è stato costretto ad adottare proprio un certo provvedimento che finisce per ridurre il “nucleo intangibile” di un diritto sociale fondamentale protetto dalla Carta. Non essendo il Paese ancora in situazione di virtuale default mantiene quel margine di discrezionalità che fa apparire ancora come “proprie” decisioni anche difficili ed impopolari. Sappiamo però che anche in questo caso si tratta di considerazioni che colgono solo l’aspetto “formale” della questione; se - come si dice oggi - si acconsente ad una certa flessibilità nelle regole europee (che permette di evitare di avvitarsi nella recessione) in cambio delle cosiddette riforme, quest’ultime sono sempre più di fatto valutate nel merito e scelte, in sostanza, a livello sovranazionale. Il caso dei licenziamenti per l’Italia lumeggia bene la situazione. Ha correttamente sottolineato Stefano Rodotà (La Repubblica, 9 gennaio 2014): «quel che sta accadendo nell’Unione europea è appunto una decostituzionalizzazione. Il suo sistema è stato amputato dalla Carta dei diritti fondamentali, del suo Bill of rights, che pure com’è scritto nell’art. 6 del Trattato di Lisbona, ha lo stesso valore giuridico dei Trattati». E più avanti: «l’orizzonte è mutato, l’Unione agisce come se la Carta non vi fosse, nega ai cittadini il valore aggiunto ad essa affidato proprio per acquisire legittimità attraverso la loro adesione e muta i cittadini da attori del processo europeo in puri spettatori impotenti e sfiduciati di fronte all’arrivo da Bruxelles di imposizione di sacrifici e non di garanzie dei diritti».

4. La tutela interna. Qualcosa si muove?

In generale le Corti superiori nazionali hanno avallato le misure impopolari di ridimensionamento dei deficit pubblici attraverso tagli alle spese sociali (pensioni, stipendi dei dipendenti pubblici, servizi, aiuti agli affitti, blocco della contrattazione collettiva in ambito pubblico, contrazione della gratuità dei servizi sanitari etc.) La parola d’ordine di matrice europea del “rigore” (spesso connotato in senso morale alla luce della nota osservazione di Friedrich Nietzsche in Genealogia della morale per cui in tedesco debito e colpa hanno la stessa radice) è stata, per dirla con Dworkin, la trumping card (carta vincente) per il ridimensionamento del welfare europeo e degli stessi poteri dei sindacati che pur, all’inizio del nuovo millennio, la Commissione guidata da Romano Prodi aveva individuato come un motore della costituzionalizzazione dell’Unione attraverso il cosiddetto dialogo sociale europeo. Ha fatto ben presto eccezione a questa “cedevolezza” agli imperativi sovranazionali la Corte costituzionale portoghese che con una serie di decisioni (la più nota è la sentenza n. 187/2013 del 5.4.2013 sui tagli stipendiali ai dipendenti pubblici) ha sanzionato l’illegittimità di alcune misure di austerità adottate nel contesto delle politiche di salvataggio del Paese, ma in riferimento a valori e principi costituzionali interni. La Corte portoghese ha precisato che «le norme adottate o che devono essere adottate dal legislatore nazionale al fine di perseguire gli obiettivi sopra citati si devono conformare alle norme dell’Unione europea, (ciò) non ha conseguenze riguardo all’applicazione delle disposizioni costituzionali. Al contrario, in un sistema costituzionale multi-livello nel quale si integrano i vari ordinamenti giuridici, le norme interne devono necessariamente conformarsi alla Costituzione. Inoltre proprio il diritto dell’Unione europea rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri, riflessa nelle strutture politiche e costituzionali di ciascuno di essi»[15]. In alcuni casi la Corte ha poi modulato gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità per non compromettere il piano di risanamento; il Governo ha poi scelto alti mezzi per raggiungere gli obiettivi di risparmio concordati con la Troika.

Eccede dai compiti di questo intervento la ricostruzione dell’atteggiamento della nostra Corte costituzionale nel periodo 2010-2015 in ordine alle legittimità delle varie misure di abbassamento del livello di protezione sociale che l’Italia ha adottato per rispondere all’esigenze di rigore sollecitate dagli organi di Bruxelles e, sino a poco tempo fa, anche per uscire da una procedura di infrazione per deficit eccessivo. Certamente è assai diffusa la convinzione che la nostra Corte non abbia svolto in questi anni un ruolo analogo a quello della Corte portoghese assumendo i vincoli europei non solo come assegnazione di obiettivi e di fini, ma anche come costrizione alle scelta dei mezzi per raggiungerli. In altre parole, posto che effettivamente il nostro Paese ha un deficit astronomico e nel lungo periodo insostenibile, questa circostanza automaticamente non è una ragione per cui si possa compromettere il nucleo essenziale di diritti sociali protetti in Costituzione, soprattutto senza neppure allegare e provare che sia l’unica strada percorribile. Le esigenze finanziarie e di bilancio altrimenti diventano - come hanno sottolineato insigni costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky commentando il “messaggio” della sentenza n. 70/2015 alla quale accenneremo brevemente – un lasciapassare per politiche inique ed impopolari e si eleva l’art. 81 della Costituzione ad una sorta di “super-norma” ordinante tutte le altre disposizioni della Carta fondamentale del 48[16].Un esempio di questa arrendevolezza costituzionale a quella che Alain Supiot ha recentemente chiamato la “gouvernance par les nombres[17]è la sentenza n. 310/213 (sul blocco degli stipendi dei professori universitari): la Corte sottolinea «con particolare riferimento poi alla ragionevolezza dello sviluppo temporale delle misure, non ci si può esimere dal considerare l’evoluzione che è intervenuta nel complessivo quadro, giuridico-economico, nazionale ed europeo». La recente riforma dell’art. 81 Cost., a cui ha dato attuazione la legge 24 dicembre 2012, n. 243 (Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione), con l’introduzione, tra l’altro, di regole sulla spesa, e dell’art. 97, primo comma, Cost., rispettivamente ad opera degli artt. 1 e 2 della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale), ma ancor prima il nuovo primo comma dell’art. 119 Cost., pongono l’accento sul rispetto dell’equilibrio dei bilanci da parte delle pubbliche amministrazioni, anche in ragione del più ampio contesto economico europeo. Non è senza significato che la direttiva 8 novembre 2011, n. 2011/85/UE (Direttiva del Consiglio relativa ai requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri), evidenzi come «la maggior parte delle misure finanziarie hanno implicazioni sul bilancio che vanno oltre il ciclo di bilancio annuale» e che «una prospettiva annuale non costituisce pertanto una base adeguata per politiche di bilancio solide», tenuto conto che, come prospettato anche dalla difesa dello Stato, vi è l’esigenza che misure strutturali di risparmio di spesa non prescindano dalle politiche economiche europee. Ebbene, il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, attraverso cui può attuarsi una politica di riequilibrio del bilancio, implicano sacrifici gravosi, quali quelli in esame, che trovano giustificazione nella situazione di crisi economica. In particolare, in ragione delle necessarie attuali prospettive pluriennali del ciclo di bilancio, tali sacrifici non possono non interessare periodi, certo definiti, ma più lunghi rispetto a quelli presi in considerazione dalle richiamate sentenze di questa Corte, pronunciate con riguardo alla manovra economica del 1992. Le norme impugnate, dunque, superano il vaglio di ragionevolezza, in quanto mirate ad un risparmio di spesa che opera riguardo a tutto il comparto del pubblico impiego, in una dimensione solidaristica − sia pure con le differenziazioni rese necessarie dai diversi statuti professionali delle categorie che vi appartengono − e per un periodo di tempo limitato, che comprende più anni in considerazione della programmazione pluriennale delle politiche di bilancio. Ancora nella più recente sentenza n.10/2015 con la quale si sono dichiarate incostituzionali le norme sulla cosiddetta Robin tax ma si è spostata per considerazioni legate alla tenuta dei conti pubblici l’efficacia della sentenza al momento della sua pubblicazione, si è affermato: «ciò chiarito in ordine al potere della Corte di regolare gli effetti delle proprie decisioni e ai relativi limiti, deve osservarsi che, nella specie, l’applicazione retroattiva della presente declaratoria di illegittimità costituzionale determinerebbe anzitutto una grave violazione dell’equilibro di bilancio ai sensi dell’art. 81 Cost.. Come questa Corte ha affermato già con la sentenza n. 260 del 1990, tale principio esige una gradualità nell’attuazione dei valori costituzionali che imponga rilevanti oneri a carico del bilancio statale. Ciò vale a fortiori dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale), che ha riaffermato il necessario rispetto dei principi di equilibrio del bilancio e di sostenibilità del debito pubblico (sentenza n. 88 del 2014). L’impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari connesse alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, del d.l. n. 112 del 2008, e successive modificazioni, determinerebbe, infatti, uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva, anche per non venire meno al rispetto dei parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale (artt. 11 e 117, primo comma, Cost.) e, in particolare, delle previsioni annuali e pluriennali indicate nelle leggi di stabilità in cui tale entrata è stata considerata a regime. Pertanto, le conseguenze complessive della rimozione con effetto retroattivo della normativa impugnata finirebbero per richiedere, in un periodo di perdurante crisi economica e finanziaria che pesa sulle fasce più deboli, una irragionevole redistribuzione della ricchezza a vantaggio di quegli operatori economici che possono avere invece beneficiato di una congiuntura favorevole. Si determinerebbe così un irrimediabile pregiudizio delle esigenze di solidarietà sociale con grave violazione degli artt. 2 e 3 Cost. ». Non vogliamo entrare nel merito del sinistro richiamo a Carl Schmitt (tirannia dei valori) in un’affermazione precedente per la quale «il compito istituzionale affidato a questa Corte richiede che la Costituzione sia garantita come un tutto unitario, in modo da assicurare una tutela sistemica e non frazionata (sentenza n. 264 del 2012) di tutti i diritti e i principi coinvolti nella decisione. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette»: per questo la Corte opera normalmente un ragionevole bilanciamento dei valori coinvolti nella normativa sottoposta al suo esame, dal momento che «[l]a Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi» (sentenza n. 85 del 2013). Tali affermazioni meriterebbero una attenta riflessione anche alla luce delle recenti critiche mosse da Luigi Ferrajoli ad una cultura esaltatrice del “bilanciamento” che finisce per far perdere di prescrittività alla formulazione dei diritti fondamentali in Costituzione e per attentare alle stesse regole di partecipazione democratica[18]. Ci sembra però che la posticipazione degli effetti della decisione al momento della sua pubblicazione non sia, comunque, adeguatamente motivata in quanto si parla di un pericolo di squilibrio nei conti dello Stato in nulla valutato e contabilizzato, che – quindi - rimane un mero espediente argomentativo; se i nostri supremi “custodi della Costituzione” devono diventare davvero dei ragionieri, allora manca la motivazione di natura contabile. Tuttavia con la sentenza n. 70/2015 questo tipo di orientamento sembra essersi invertito: nella decisione, che ha sollevato aspre polemiche soprattutto nei media, si sono dichiarate incostituzionali le norme adottate dal Governo di solidarietà nazionale presieduto da Mario Monti di blocco delle indicizzazioni delle pensioni eccedenti tre volte la pensione sociale per due anni e senza recuperi nel futuro. Come ha recentemente sottolineato Stefano Giubboni «l’importanza della sentenza della Corte va colta essenzialmente nel fatto che essa riafferma con forza lo statuto costituzionale, con le connesse garanzie, dei diritti sociali di prestazione, ancorandolo ai principi di eguaglianza sostanziale e solidarietà (artt. 2 e 3, comma 2, Cost.), contro la tendenza ad assegnare, negli esercizi di bilanciamento, una sorta di pregiudiziale prevalenza gerarchica al principio dell’equilibrio di bilancio, che pure è stato certamente rafforzato dalla recente riforma dell’art. 81 Cost. Non a caso i critici di tale decisione ne sottolineano la incompatibilità con il percorso argomentativo che ha sorretto la non meno discussa sentenza n. 10 del 2015 sulla cd. Robin Tax, nella quale il principio dell’equilibrio di bilancio, inteso rigorosamente come tendenziale pareggio strutturale tra entrate e spese dello Stato, ha addirittura indotto la Corte a derogare alla regola processuale della efficacia naturalmente retroattiva della pronuncia di incostituzionalità della legge, con conseguente integrale sacrificio, quantomeno per il pregresso, dei diritti patrimoniali dei contribuenti assoggettati alla imposta dichiarata illegittima[19]. In estrema sintesi ci sembrano cruciali due passaggi motivazionali della sentenza; quello in cui la Corte (punto n. 10 della motivazione) afferma: «la disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi. Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante “Legge di contabilità e finanza pubblica” (sentenza n. 26 del 2013, che interpreta il citato art. 17 quale «puntualizzazione tecnica» dell’art. 81 Cost.)». La Corte costituzionale evidenzia come il richiamo ai conti pubblici non possa essere generico, ma debba mostrare il nesso tra l’intervento ablativo e il ricavo atteso nel rispetto dei principi di equità e proporzionalità ed anche del carattere d’urgenza dell’intervento. Il secondo passaggio da sottolineare è quello in cui la Corte ribadisce (punto 8 della motivazione) che «Il legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali deve dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, alla stregua delle risorse finanziarie attingibili e fatta salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona (sentenza n. 316 del 2010). Per scongiurare il verificarsi di un non sopportabile scostamento fra l’andamento delle pensioni e delle retribuzioni, il legislatore non può eludere il limite della ragionevolezza (sentenza n. 226 del 1993)». Nella sentenza n, 316/2015 la Corte, pur valutando la costituzionalità del blocco della rivalutazione delle pensioni oltre le otto volte le pensioni minime stante l’eccezionalità dell’intervento, la durata per un solo anno e l’importo piuttosto elevato delle pensioni coinvolte (otto volte la minima), aveva già rivolto al legislatore un severo monito per cui la frequente reiterazione di misure intese a paralizzare il meccanismo di indicizzazione avrebbe esposto «il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità» poiché risulterebbe incrinata la principale finalità di tutela, insita nel meccanismo delle perequazione, quella che prevede una difesa modulare del potere d’acquisto delle pensioni. Pertanto, a ben guardare, l’incostituzionalità dichiarata era già implicita nei principi espressi nel 2010 dalla Corte le cui indicazioni reiterando il blocco, per ben due anni, senza meccanismi di recupero ed estendendolo a pensioni molto basse come quelle sino a tre volte la pensione minima INPS, il legislatore ha voluto ignorare. Nel momento in cui si scrive non è stata resa ancora pubblica la motivazione della decisione con cui la Corte ha dichiarato illegittimo il blocco della contrattazione nel settore pubblico (posticipando gli effetti della decisione al momento della pubblicazione della sentenza), altra misura giustificata per comprimere il deficit eccessivo italiano (e quindi per venire incontro alle Raccomandazioni di Bruxelles). Dalla sentenza n. 70/2015 della nostra Corte delle leggi ed anche dalle sentenze prima ricordate di quella portoghese emerge, pertanto, un anelito a ritrovare una integrità costituzionale nelle politiche sociali, anche di quelle adottate su impulso o costrizione sovranazionale, nel rispetto del nucleo essenziale dei diritti fondamentali, in particolare dei ceti meno abbienti (come richiesto peraltro dall’art. 52 della Carta di Nizza), che non possono essere compressi oltre determinati limiti, anche di natura temporale. Ricordano peraltro anche una nota pronuncia del Tribunale costituzionale tedesco del 2.10.2010 (Hartz IV) con la quale si afferma che il diritto fondamentale alla garanzia di un minimo di sussistenza (reddito minimo garantito) deriva dalla nozione di dignità umana fissata all’art. 1 della Costituzione tedesca in correlazione con il principio dello stato sociale (art. 20) ed implica che a ciascuno siano garantite le condizioni materiali che sono indispensabili per l’esistenza psichica della persona e per un minimo di partecipazione alla vita sociale, culturale e politica. Il principio del rispetto, aggiunge la Corte, della dignità di ogni individuo ha carattere assoluto e non può essere compromesso per ragioni di bilancio o di contenimento delle spese sociali; il Governo deve quindi dimostrare di avere soddisfatto questa pretesa attraverso procedure effettive e trasparenti. Si tratta di un sacro principio che proprio i governanti di quel paese mostrano di ignorare quando assegnano i “compiti a casa” per gli altri Stati.

5. Quali prospettive?

Una pressione garantista delle Corti costituzionali nazionali è certamente preziosa per far uscire l’Unione dal guado dell’austerity e forse anche per correggere l’attuale orientamento delle due Corti europee; tuttavia il fatto che le politiche inique ed irrazionali dell’Unione abbiano sino ad oggi trovato una parziale risposta nelle decisioni di alcune Corti nazionali crea una asimmetria evidente nel sistema di tutela cosiddetto multilivello in quanto la risposta giudiziaria si attua non allo stesso livello in cui vengono in pratica attivate le politiche che originano la lesione dei diritti, secondo una valutazione interna e limitata quindi al Paese coinvolto. Scopo dell’approvazione di un Bill of rights europeo era proprio quello di mantenere una congruità tra l’ azione dell’Unione e la sua sindacabilità giudiziaria, con effetti potenzialmente utili per tutti i cittadini europei. Si crea peraltro il pericolo di una frattura tra giurisprudenza interna, convenzionale e sovranazionale posto che, allo stato, ciascuna viaggia su traiettorie proprie. Si rende quindi assolutamente necessario che si compiano quelle riforme istituzionali che consentano il rientro dei meccanismi della governance economica dell’Unione nell’alveo del diritto comunitario, che si conferisca ai meccanismi di condizionalità una maggiore trasparenza e li si vincolino più strettamente al rispetto dei fundamental social rights protetti dalla Carta di Nizza onde consentire a monte il controllo del Parlamento europeo ed a valle il sindacato della Corte di giustizia. Andrebbero peraltro considerati più sul serio le proposte di conferire una maggiore forza obbligante alle norme della Carta sociale europea, magari con l’adesione ad essa dell’Unione (che non creerebbe quei problemi che invece crea l’adesione dell’unione alla Cedu visto che sulla Carta sociale la Corte di Strasburgo non vanta alcun monopolio decisionale). Nel medio periodo certamente è necessario, però, ben altro; un decisivo passo in avanti nella troppo lenta costruzione del capitolo sociale europeo, di nuove direttive sui trattamenti minimi comuni, di una piena assunzione di responsabilità dell’Unione su temi come la tutela contro la disoccupazione, un salario minimo ed un reddito minimo a livello continentale – pur promessi nella campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo dagli attuali Presidenti della Commissione europea e del Parlamento europeo. Insomma la costruzione di un autentico welfare europeo, finanziato dall’Unione almeno in parte con risorse proprie, che abbia come destinatari tutti i cittadini (ed i residenti stabili) del vecchio continente, si da eliminare in radice la distinzione tra cittadini dei Paesi periferici (che debbono subire i tagli nella spesa pubblica) e dei Paesi virtuosi (che possono invece essere garantiti nella pienezza dei loro diritti)[20]. Un vero federalismo sociale, in conclusione,come quello già auspicato nel Manifesto di Ventotene [21].

[1] L’atto di accusa più radicale contro la legittimità delle “ recovery measures” viene da Andreas Fischer Lescano, allievo (e spesso coautore) di Gunther Teubner: A. F. Lescano, Competencies of the Troika. Legal limits of the istitutions of the European Union, in (a cura di I. Schoemann ed altri), Economic and financialcrisis and collective labour law in Europe, Oxford, 2014 che insiste sul carattere obbligatorio della Carta in ordine a tutte le politiche che promanano direttamente o indirettamente dall’Unione.

[2] E. Balibar, A new Europe can only come from the bottom up, in Open democracy, 6 maggio 2013.

[3] J. Habermas, Questa Europa è in crisi, Laterza, 2012.

[4] V. C. Joerges, Working the rough bitter experiences towards Constitutionalism. A critique of the Disregard for History in European Constitutional theory, EUI W.P. n. 14,2005: l’Autore richiama noti passaggi adorniani ed in particolare T. W. Adorno, The meaning of working through the past, in T.W. Adorno, Critical models. Intervention and catchword, New York, Columbia University Press, 1998. V. anche i saggi adorniani raccolti in T.W. Adorno, Contro l’antisemitismo, Roma, Manifestolibri, 1994. Questa linea ricostruttiva della costruzione europea è, notoriamente, percorsa costantemente nei lavori di Joseph. W.Weiler e di Armin von Bogdandy (e in genere accolta dalla composita scuola del nuovo costituzionalismo europeo) nei quali si gioca il principio di tolleranza costituzionale, base del nuovo ordine sovranazionale europeo, contro quello di sovranità, proprio dello ius pubblicum europaeum.

[5] J. P. Fitoussi, Rischiamo il disastro; la Merkel poteva evitarlo se voleva salvare l’Ue, in Repubblica, 1 Luglio, 2015.

[6] Di recente Joseph Stiglitz ha sottolineato come il termine “aiuti” sia davvero improprio visto che i fondi della Troika sono andati tutti a pagare i creditori (compreso lauti interessi), a cominciare dalle banche franco-tedesche: J. Stglitz, Europe’s Attack On Greek Democracy, in www.socialeurope.eu.

[7] Sul piano più ufficiale vanno ricordate le più recenti posizioni critiche sull’austerity del capo degli economisti (ora dimissionario) dello stesso Fondo monetario internazionale – Olivier Blanchard - e il molto citato studio – sempre a cura del Fondo - che dimostra come le previsioni generalmente accettate dell’impatto sul PIL interno delle misure di contenimento dei deficit pubblici fossero notevolmente errate per difetto: insomma la dimostrazione che la cura può essere più nociva dello stesso male. Sul tema cfr. da ultimo S. Caponetti, The economic crisis and Employment, W.P. Massimo D’Antona int. N. 121/2015; Kilpatrick, B. De Witte, A comparative framing of fundamental rights challenges to social crisis measures in the eurozone, European Journal of social law, n. 1-2- 2014; lo studio del Parlamento europeo del marzo del 2015, Impact of the crisis on (social) fundamental rights in the EU, in www.europeanrights.eu; per una ricostruzione generale delle politiche dell’Unione durante la crisi cfr. G. Allegri, G. Bronzini, Sogno europeo o incubo? Come l’Europa potrà tornare ad essere democratica solidale e capace di difendersi dai mercati finanziari, Fazi, 2014.

[8]P. Krugman, Come salvare l’Europa, in Internazionale 28.1.2011 (in precedenza pubblicato sul New York Times Magazine). L’analisi di Krugman si tinge di nero in pochi mesi: in Depression and democracy, New York Times, dell’ 11.12.2011l’insigne premio Nobel già afferma: «first of all the crisis of euro is killing the european dream. The sharred currency, which was supposed to bind nations toghether, has instead created an atmosfere of bitter acrimony». Krugman vede ora solo politiche recessive che avvitano gli Stati europei in un destino di disoccupazione e privazioni che destabilizza i regimi politici, soprattutto quelli più fragili come l’Ungheria nella quale si sta rafforzando senza grandi contrasti, aiutato dall’ansia che monta di fronte ad una Unione ad una Unione che chiede solo austerity e sacrifici, un partito xenofobo di estrema destra.

[9] Questa correzione da parte del diritto internazionale, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, e del diritto comunitario, come interpretato dalla Corte di giustizia è sembrata una strada interessante soprattutto dopo la sentenza Demir c. Turchia del 2008 in materia di sciopero e di diritto alla contrattazione collettiva di Strasburgo molto più permissiva dei noti arresti Viking e Laval del 2007 della Corte del Lussemburgo. Cfr. G. Bronzini, Diritto alla contrattazione collettiva e diritto di sciopero entrano nell’alveo protettivo della Cedu: una nuova frontiera per il garantismo sociale in Europa?, in Riv. it. dir. lav. 2009, p. 970. Cfr. anche S. Sciarra, L’Europa e il lavoro. Solidiarietà e conflitto in tempi di crisi, Laterza, 2013 che sottolinea le linee divergenti in materia di sciopero e libertà sindacali tra Corte di giustizia, Corte Edu e Comitati ILO. La recente sentenza R.M.T. v. Regno Unito dell’8.4.2014, pur adottata con numerose opinioni dissenzienti, che ha negato la tutela dell’art. 11 della Cedu ad uno sciopero di solidarietà (nel quale vengono esaminati anche gli articoli 12 e 28 della Carta di Nizza) appare obiettivamente ridimensionare la valenza garantista del più recente orientamento della Corte di Strasburgo nella materia. Su tale ultima decisione cfr. V. De Stefano, Cedu, Corte di Strasburgo e sciopero della solidarietà: qualche conferma e molte questioni aperte, in RGL n. 2/2014.

[10]Per una critica della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia sociale rinvio al mio, Rapporto di lavoro diritti sociali e Carte europee dei diritti. Regole di ingaggio, livello di protezione, rapporti tra le due Carte, W.P. n. 188/2015 Massimo D’Antona, ed al mio e-book, Limiti alla retroattività delle legge civile, Arance, 2015. Sul ruolo si Strasburgo in materia sociale cfr., L. Tria, La Corte europea e i diritti socio-economici in AA.VV. La CEDU e il ruolo delle Corti (a cura di P. Gianniti), Bologna, 2015, 1605 e ss..

[11]A questa rivendicazione di recente si è aggiunta quella, più innovativa e pertinente, di un social compact che definisca un insieme di protezioni sociali che l’Unione dovrebbe perseguire necessariamente non solo come limite alle politiche di austerity ma come obiettivi dell’Unione.

[12] Cfr. G. Bronzini, Il modello sociale europeo, in (a cura di F. Bassanini e G. Tiberi); Le nuove istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, Il Mulino, 2009; cfr. anche la bellissima e completissima ricostruzione dell’impatto delle recovery measures sui diritti sociali fondamentali di Pasquale Chieco, Crisi economica, vincoli europei e diritti fondamentali dei lavoratori, Relazione al Congresso Aidlass 2015, reperibile nel sito dell’Aidlass.

[13] Sulle decisioni di competenza della Corte di giustizia in ordine alla Carta cfr. il mio, Rapporto di lavoro… cit.; nonché sui primi anni di applicazione della Carta, G. Bronzini, Il Pluslavore giuridico della Carta di Nizza, in (a cura di R. Cosio e R. Foglia), Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, Giuffrè, 2013.

[14] S. Borelli, Corte Edu versus Troika. Cronaca di una sconfitta annunciata oppure no?, in RGL n.2/2014.

[15] Cfr. sulla vicenda S. Borelli, Corte Edu…, cit. e P. Chieco, Crisi economica…, cit..

[16] Sul punto cfr. S. Giubboni, I diritti sociali alla prova della crisi: l’Italia nel quadro europeo; A. Lo Faro, Compatibilità economiche, diritti del lavoro e istanze di tutela dei diritti fondamentali: qualche spunto di riflessione dal caso italiano; ; D. Tega, Welfare e crisi davanti alla Corte costituzionale, tutti in DLRI, n, 2/2014.

[17]A. Supiot, La Gouvernance par les nombres, Fayard, 2015.

[18] Per una recente, vigorosa, critica alle teorie del bilanciamento ritenute poco compatibili con il principio democratico cfr. L. Ferrajoli, Dei diritti e delle garanzie. Conversazione con M. Barberis, Il Mulino, 2013 e dello stesso Autore, La democrazia attraverso i diritti, Laterza, 2013.

[19] S. Giubboni, Le pensioni nello Stato costituzionale, in Etica ed economia n. 23/2015. Sulle due decisioni, la n. 10 e la n. 70 sono già apparsi decine di commenti. Per ragione di spazio rinviamo a quelli uscite su Forum costituzionale, su Federalismi e sulla rivista dell’AIC.

[20]Per questa prospettiva Cfr. G. Allegri, G. Bronzini, Sogno europeo…, cit..

[21] Cfr. G. Allegri, G. Bronzini (a cura di), Un manifesto per il futuro, Manifestolibri, 2014.