Magistratura democratica

Regole, mercato, sviluppo: il punto di vista dell’economista del lavoro

di Lia Pacelli

Il Jobs Act non è la riforma strutturale di cui l’Italia ha bisogno, ma rappresenta il completamento di quel percorso di trasferimento di potere contrattuale dai lavoratori alle imprese già in corso da almeno due decenni. La flessibilizzazione del mercato del lavoro si completa a prescindere dalla pochezza dei risultati precedenti, rendendo strutturale la precarietà del rapporto. L’esperienza ha smentito ogni legame fra flessibilità e creazione netta di posti di lavoro, e la letteratura economica ha in gran parte sottaciuto questo dato: in realtà, i flussi sempre più ingenti di persone in entrata e uscita dalle imprese permettono ora di sostituire lavoratori costosi con lavoratori meno costosi, perché il salario medio dei nuovi assunti è più basso e le loro tutele (anch’esse un costo) sono sempre inferiori, ciò che rende sempre più lontano l’obiettivo del lavoro dignitoso.

Premessa

Il Jobs Act è «l’attuazione delle riforme strutturali che l’Europa ci chiede», nella retorica mediatica martellante che lo accompagna. Ma sono pochi gli esempi, a mia memoria, in cui la comunicazione che accompagna una scelta politica si distanzia così tanto dal contenuto effettivo di un provvedimento. Basti un cenno al fatto che le riforme strutturali non riguardano, o non dovrebbero riguardare, solo il mercato del lavoro ma dovrebbero essere tese all’aumento della concorrenza nei mercati dei beni e dei servizi. L’Europa, poi, ha a che fare con la deregolamentazione del mercato del lavoro solo in tempi recenti[1], con l’acuirsi della crisi dei debiti sovrani, mentre l’Italia ha iniziato due decenni or sono a rendere più flessibile il mercato del lavoro. Di cosa si tratta allora? Il Jobs Act completa il trasferimento di potere contrattuale dai lavoratori alle imprese. Trasferimento in corso ormai da decenni, da quando il pensiero neoliberista è diventato dominante nella politica e nell’economia dei Paesi e delle organizzazioni internazionali (la Job Strategy dell’OCSE (1994)[2], è il simbolico inizio di questo processo)[3]. Da allora il dibattito sulla rigidità del mercato del lavoro e la domanda pressante di flessibilità da parte delle imprese hanno stimolato la diffusione di forme contrattuali atipiche che consentono alle imprese di assumere lavoratori senza il vincolo del contratto permanente. È passata invece in secondo piano la considerazione che la legislazione a protezione dell’impiego ha anche lo scopo di riequilibrare, almeno parzialmente, lo scarso potere contrattuale di alcune categorie di lavoratori rispetto alle imprese.

Il trasferimento di potere da una classe economica e sociale ad un’altra ha ovviamente un senso e un valore in sé, ma quello che - da economista del lavoro - vorrei discutere è il significato economico dei provvedimenti tesi alla flessibilizzazione del mercato del lavoro. Portano crescita economica, prosperità diffusa, alti tassi di occupazione? Questa è la promessa. Ma come? A quali condizioni? Il lavoro flessibile è condizione necessaria e / o sufficiente per la crescita dell’Italia?

1. Gli effetti attesi della deregolamentazione del mercato del lavoro

Gran parte della letteratura economica, dal citato rapporto OCSE del 1994 in poi, si è concentrata sugli attesi effetti positivi della deregolamentazione: migliore allocazione dei lavoratori sui posti di lavoro e conseguente crescita della produttività del lavoro; maggiore capacità delle imprese di adattarsi alle fluttuazioni di mercato e conseguente loro maggiore competitività[4]. Ma dal punto di vista dei suoi effetti sulla produttività, e quindi sulla competitività e sulla crescita, la teoria economica ci dice che tali effetti possono avere segno diverso. Da un lato ci si attende che la produttività cresca grazie all’aumentata qualità del match fra lavoratore e posto di lavoro; dall’altro la produttività può ridursi a causa del disincentivo ad investire in capitale umano[5]. Quale effetto prevale? Gaëlle e Scarpetta[6] usando dati della World Bank riferiti a circa 50 Paesi, rilevano che le imprese medio-grandi e le imprese innovative reagiscono a una elevata protezione dell’impiego investendo di più in formazione sul posto di lavoro, mentre le piccole imprese ricorrono più frequentemente a contratti a termine. MacLeod e Nakavachara[7] mostrano che quando la protezione dell’impiego aumenta anche l’occupazione di lavoratori altamente specializzati aumenta, cioè cresce l’occupazione di chi è impiegato in mansioni che richiedono elevata abilità e elevati investimenti in capitale umano specifico d’impresa; l’opposto accade per le occupazioni generiche.Dolado e Stucchi[8] mostrano una riduzione della produttività in Spagna al crescere della quota di contratti a termine e al ridursi della probabilità che questi siano convertiti in contratti a tempo indeterminato.Lucidi e Kleinknecht[9] in riferimento all’Italia stimano che le imprese che impiegano una elevata quota di dipendenti con contratti a termine ottengono tassi di crescita della produttività del lavoro più bassi. Vi è quindi più di un motivo per dubitare del binomio maggiore flessibilità - maggiore produttività.

Le riforme del mercato del lavoro in Italia sono comunque state implementate prima e a prescindere dai risultati delle analisi sui loro possibili effetti, con un chiaro approccio aprioristico del tutto in contrasto con l’evidence based policy making che “l’Europa” chiede da tempo. Negli anni ‘90 in Italia ci si è concentrati sulle cosiddette riforme al margine: si rende flessibile, cioè non tutelata dall’art. 18, l’occupazione solo di chi entra nel mercato del lavoro, lasciando invariate le tutele di chi è già occupato. Il lavoro precario avrebbe dovuto essere una condizione temporanea, la porta d’ingresso verso un lavoro tutelato. Questo avrebbe ridotto la disoccupazione giovanile e le difficoltà dei giovani nell’entrare sul mercato del lavoro, o nel trovare il primo impiego. I contratti di formazione e lavoro, nati negli anni ‘80 furono i precursori di questa strategia, seguiti nei decenni successivi dalla progressiva liberalizzazione dei contratti a termine, dall’uso sempre più ampio delle collaborazioni, delle associazioni in partecipazione e di tutte quelle forme di lavoro autonomo eterodiretto e completamente non tutelato che sono fiorite nel tempo.

La letteratura economica si è dedicata a studiare l’effettiva esistenza di questa porta d’ingresso verso il lavoro stabile, e a valutare il rischio che invece i contratti flessibili costituissero una trappola che costringe le persone nella alternanza di lavori precari e disoccupazione[10]. Da questa ampia e non sempre omogenea letteratura si traggono alcune regolarità: i contratti precari hanno operato come una porta d’ingresso quasi unicamente per chi era già forte sul mercato del lavoro: i giovani più scolarizzati, nati nelle regioni più ricche d’Europa. È legittimo il dubbio che essi sarebbero entrati comunque in una buona occupazione, anche senza porte d’ingresso appositamente create. Gli altri giovani hanno continuato a rimbalzare fra lavori precari e disoccupazione, intrappolati.

Ora il Jobs Act ci dice che se si vuole un lavoro questo non può che essere precario, non più come condizione temporanea ma permanente, normale, per tutti. Non più riforma al margine ma strutturale.

2. La creazione di posti di lavoro

Ma in un Paese come l’Italia in cui il tasso di occupazione è basso, l’aspetto cruciale non è tanto la capacità dei disoccupati di ottenere a turno un’occupazione, ruotando su un numero di posti di lavoro costanti, ma è la creazione netta di posti di lavoro. Lo scopo dichiarato da chi promuove e implementa una maggiore flessibilità del lavoro è infatti quello di rendere le imprese in grado di adattarsi alle mutevoli condizioni di mercato modificando la forza lavoro e il costo del lavoro in tempi rapidi; questo le renderebbe più efficienti e creerebbe posti di lavoro e ricchezza per tutti. Per inciso, un aspetto trascurato dalla letteratura economica è proprio l’assunto che la maggiore competitività delle imprese sui mercati porti ricchezza per tutti. In altre parole, si è scritto poco sugli effetti allocativi di questi teorizzati aumenti di produttività e competitività, dando forse per scontata la - tutta da dimostrare - maggiore efficienza allocativa di mercati più concorrenziali. A partire dagli anni ‘80 abbiamo visto invece una massiccia redistribuzione di reddito verso le fasce più ricche della popolazione[11]; ma sul punto ritornerò più avanti.

È vero che la flessibilità del lavoro crea occupazione aggiuntiva? I posti di lavoro che osserviamo in un dato momento sono l’effetto dei posti di lavoro creati e distrutti, e dei lavoratori che ruotano fra di essi. In Italia i flussi di lavoratori fra posti di lavoro sono sempre stati ingentissimi: in media un terzo dei lavoratori lascia il posto di lavoro e un terzo viene assunto nel corso di un anno. Questo accadeva anche negli anni ‘80 e ‘90, prima della deregolamentazione del mercato del lavoro[12]. Il nostro è un mercato del lavoro costituito in prevalenza da imprese molto piccole, al di sotto delle soglie dimensionali che irrigidiscono il rapporto di lavoro; ma anche le (poche) imprese grandi hanno sempre trovato il modo di modificare la loro forza lavoro quando questo è stato necessario, con prepensionamenti o incentivi di vario tipo. La rotazione fra posti di lavoro è avvenuta con un saldo occupazionale quasi nullo, per poi diventare negativo negli anni della crisi. Purtroppo la letteratura economica non si è occupata molto del legame fra flessibilità e creazione netta di posti di lavoro. Un lavoro importante pubblicato nel 1990[13] ha mostrato anche dal punto di vista teorico che l’occupazione media non sarebbe cresciuta riducendo le tutele alla occupazione[14]; solo i flussi di lavoratori in entrata e in uscita dalle imprese sarebbero aumentati, e la durata dei periodi di disoccupazione si sarebbe ridotta. L’argomento non è poi stato ripreso, nemmeno per sottolineare eventualmente i rischi di una deregolamentazione spinta del mercato del lavoro, o per avvertire che questo avrebbe potuto non aumentare i posti di lavoro nella economia.

I flussi sempre più ingenti di persone in entrata e uscita dalle imprese permettono ora di sostituire lavoratori costosi con lavoratori meno costosi, perché il salario medio dei nuovi assunti è più basso e le loro tutele (anch’esse un costo) sono sempre inferiori. Nei modelli economici più semplici il minore costo del lavoro si riflette automaticamente in un aumento della domanda di lavoro da parte delle imprese, ma la realtà e ben più complessa. La domanda di lavoro dipende dai salari ma anche e soprattutto dalle aspettative sulla evoluzione dei mercati dei prodotti, dalla capacità di posizionarsi sui mercati in crescita o su quelli stagnanti. E dipende quindi anche dalla politica industriale (non solo dalla politica del lavoro) e dalla capacità di innovare processi, prodotti e organizzazione da parte delle imprese.

3. Gli effetti negativi della deregolamentazione

La letteratura economica ha scritto molto poco fino a tempi recentissimi e a crisi iniziata sui possibili effetti negativi della deregolamentazione del mercato del lavoro: minori investimenti in formazione specifica d’impresa, minori capacità di innovare da parte delle imprese. Pochissimo si è scritto sui possibili risultati nel medio/lungo periodo della conseguente possibile riduzione della produttività del lavoro[15]. La letteratura sulla gestione delle risorse umane si è invece occupata diffusamente degli effetti della riduzione della tutela della occupazione, senza la sudditanza culturale che molta della letteratura economica ha dimostrato rispetto alle teorie neoclassiche. In particolare la letteratura sulla gestione delle risorse umane sottolinea il legame fra una forza lavoro stabile nell’impresa e la capacità di accumulare conoscenze e di innovare; afferma che una elevata rotazione dei lavoratori in entrata e in uscita dall’impresa penalizza lo sviluppo di nuove idee e dell’innovazione; documenta altresì che i dipendenti sono disposti ad accettare i rischi intrinseci ad una attività innovativa solo se si sentono sicuri della loro relazione occupazionale[16].

Infine, le riforme al margine creano necessariamente una segmentazione fra lavori protetti e lavori non protetti, nonché fra i lavoratori che occupano i posti protetti e non, soprattutto se la “porta d’ingresso” costituita dai lavori flessibili verso quelli protetti non funziona come ci si aspettava. La segmentazione dei mercati del lavoro è sempre stata una preoccupazione esplicita della Unione europea, anche prima della crisi. L’Ue evidenzia due strade possibili[17]: la riduzione delle tutele per tutti i lavoratori, accompagnata da forti ed inclusivi sistemi di welfare (il modello della flexicurity), oppure l’aumento delle tutele per chi ne è escluso. In Italia, gli interventi legislativi hanno ridotto la segmentazione riducendo le tutele per tutti i lavoratori, senza però che vi si sia accompagnato il richiesto contemporaneo rafforzamento del welfare[18].Quindi la flessibilità di cui si parla tende a non configurarsi come flexicurity, bensì come precarietà occupazionale cui sono correlati disinvestimenti in formazione e perdita di professionalità specifiche[19].

4. Due modelli di sviluppo

Due modelli di sviluppo sono possibili (per semplificare ed estremizzare il confronto): vogliamo competere sui costi o sulla qualità dei prodotti? Competere sui costi significa ridurre i costi di produzione e vendere a prezzi bassi. Non servono conoscenze diffuse, costosi investimenti in capitale umano generale o specifico d’impresa, innovazioni; servono produzioni su larga scala, mansioni parcellizzate. Ma servono anche mercati delle materie prime, dei fattori e dei beni intermedi competitivi, sui quali non pagare rendite. È evidente che abbassare solo il costo del lavoro non è sufficiente se le imprese italiane devono pagare più dei loro concorrenti stranieri l’energia, i trasporti, i finanziamenti delle banche, per citarne solo alcuni. Competere sulla qualità dei prodotti invece significa puntare sulla capacità di innovare, sull’uso delle tecnologie più avanzate, sull’accumulazione delle conoscenze dei lavoratori.

La politica dovrebbe scegliere quale modello di sviluppo è desiderabile, cioè desiderato dalla maggioranza dei cittadini se questi eleggono democraticamente chi li governa, e sostenerlo.

Dobbiamo quindi chiederci se politiche tese a ridurre i costi di licenziamento forniscano alle imprese incentivi desiderabili non solo dal punto di vista della singola impresa nel breve periodo (una riduzione dei costi) ma anche nel lungo periodo (in termini di capacità di competere, e su quali mercati) e poi dal punto di vista sociale, per la crescita del paese. Analizzando il legame fra le scelte delle imprese sul tipo di contratto (più o meno flessibile) con il quale impiegano la loro forza lavoro e sugli investimenti in capitale umano della loro forza lavoro - che sappiamo essere legati inscindibilmente a investimenti innovativi e alle attività di ricerca e sviluppo[20] si fa emergere se e quanto i costi di licenziamento modifichino o distorcano l’attività delle imprese per quanto riguarda l’investimento in capitale umano dei lavoratori.

In Cavaletto e Pacelli (2005) si mostra che «l’elemento dirimente è costituito dalla vocazione aziendale: propensione all’innovazione, investimenti in ricerca e sviluppo, forte capacità di essere competitivi con prodotti talvolta anche di nicchia ma esportabili sono caratteristiche delle imprese che decidono anche di investire in formazione in modo sistematico, che tendono alla fidelizzazione del lavoratore in quanto vero e proprio capitale per l’impresa al pari di quello economico e di conseguenza ad utilizzare contratti a tempo indeterminato. D’altra parte le imprese legate a modelli produttivi tradizionali, con rigida organizzazione, senza propensione all’innovazione sono quelle che si limitano a “usare strumentalmente” la forza lavoro, con effetti di demotivazione, elevato turnover negli organici ed utilizzo dei contratti a termine, limitata formazione affidata ai lavoratori più esperti nel ruolo ma senza un piano strutturato di intervento e valorizzazione delle conoscenze e competenze apprese».

Alla luce di queste evidenze possiamo immaginare quali siano le imprese che più verosimilmente traggono vantaggio da riforme come il Jobs Act. Inoltre, se i vantaggi non sono uniformi per tutte le imprese l’assetto competitivo fra imprese si modifica, premiando alcune imprese a detrimento di altre. Le leggi recenti in materia di lavoro (n.183/2010, n.148/2011, n.92/2012, e la legge delega n.183/2014 con i successivi decreti legislativi approvati o da approvare che costituiscono il Jobs Act) riducono le tutele della legge e degli accordi collettivi per i lavoratori. Il costo di questa diversa distribuzione del potere contrattuale fra le parti è costituito dalla rottura del patto di solidarietà fra datore di lavoro e lavoratore, patto che permette investimenti rischiosi e di medio-lungo periodo come quelli innovativi[21]. In assenza di una politica industriale, questa viene di fatto sostituita dalla politica del lavoro, ma il segno non pare quello più desiderabile per lo sviluppo del Paese. Infatti si incentivano le produzioni meno competitive a relativo discapito di chi innova e esporta e fornisce posti di lavoro di buona qualità.

Dobbiamo ricordare che l’Italia ha sempre percorso la prima via, quella che porta a competere sui costi. Infatti la nostra struttura produttiva è costituita in larga parte da imprese piccole e familiari, poco capaci di innovare (salvo eccezioni, ovviamente); si noti per inciso che non sono le soglie dimensionali nell’applicazione di più stringenti norme a protezione dell’impiego a disincentivarne la crescita[22]. Inoltre il sostegno alla ricerca di base è strutturalmente scarso e decrescente nel tempo. In passato si suppliva alla scarsa competitività nostrana con successive svalutazioni della lira. Per chi ricorda la retorica mediatica prevalente alla fine degli anni ‘90 (gli anni che preludevano al nostro ingresso nell’euro), questo era un tema importante: si diceva che non avremmo più potuto svalutare, ed avremmo quindi dovuto imboccare necessariamente la via virtuosa della maggiore produttività per rimanere sui mercati. Insomma, l’adesione all’euro era un modo per auto-imporci un comportamento “virtuoso”. Ma questo non è accaduto, complici l’afflusso massiccio di denaro e la riduzione del servizio del debito dei primi anni 2000[23], che hanno sostenuto una economia rimasta stagnante.

Conclusioni

Rimane quindi la domanda: «perché seguiamo questo modello di sviluppo?» È un errore? Difficile sostenerlo. Ogni Paese è fatto di lavoratori, imprenditori, risparmiatori e debitori, non è monolitico. Ogni politica può difendere gli uni o gli altri, ovviamente, scegliendo chi paga e chi guadagna: il reddito reale (PIL) è stagnante o si riduce, ma la quota che va al capitale cresce e quella che va al lavoro si riduce; la quota che va ai più ricchi cresce marcatamente proprio dagli anni ‘80[24]; le politiche di austerità degli ultimi anni hanno difeso i creditori e i redditi da capitale[25]. Il Jobs Act è coerente con questo processo, non ne è certamente l’unica determinante ma sta nel quadro della redistribuzione di potere e ricchezza fra classi sociali, come si diceva all’inizio.

Concludo con una citazione. «Il lavoro su cui si fonda la Repubblica non è, dunque, la forza-lavoro. È, invece, lo strumento di realizzazione della persona e di un’esistenza degna e dignitosa. Per riuscire nell’obiettivo, occorre, prima di tutto, riconoscere ai lavoratori un effettivo diritto al lavoro e, poi, dare loro le tutele giuridiche necessarie per lavorare in modo dignitoso, libero, e sicuro»[26] .Così scrivono Carla Ponterio e Rita Sanlorenzo, in un passaggio che rimanda immediatamente al concetto di lavoro dignitoso (decent work); concetto che l’ILO promuove dal 1999 in questo modo: «Il Lavoro dignitoso riassume le aspirazioni delle persone riguardo la propria vita lavorativa – le loro aspirazioni ad accedere ad un lavoro e ad una giusta retribuzione, a godere dei propri diritti, a poter esprimersi ed essere ascoltate, a beneficiare di una stabilità familiare e di uno sviluppo personale, a veder garantite giustizia ed uguaglianza di genere. Queste diverse dimensioni del Lavoro dignitoso rappresentano le fondamenta per una pace duratura nelle comunità e nella società»[27]. Vi sono in questi passi due aspetti cruciali. Il primo aspetto è il binomio inscindibile fra decent work e democrazia, il secondo è il binomio egualmente inscindibile fra equità in campo economico e pace sociale. Il Jobs Act, completando il processo ventennale che ha riaffermato le ragioni del capitale su quelle del lavoro, mette(ulteriormente) a rischio, a mio parere, entrambi questi binomi.

[1] Anche se l’Unione Europea emette direttive sui lavori atipici dalla fine degli anni ‘90, l’imposizione di riforme strutturali in tema di lavoro in cambio di sostegno finanziario risale al 2011. Si veda S. Sacchi (2015) Conditionality by other means: EU involvement in Italys structural reforms in the sovereign debt crisis, Comparative European Politics.

[2] OCSE (1004), Employment Outlook, OCSE, Paris

[3] Il tema è discusso più in dettaglio in G. Cavaletto e L. Pacelli (2014), Flessibilità del lavoro e formazione dei lavoratori. Il caso italiano, Polis, dal quale alcuni dei passi che seguono sono tratti.

[4] Per rassegne si vedano N. Nayar e G.Willinger (2001), Financial Implications of the Decision to Increase Reliance on Contingent Labor, in Decision Sciences Journal; M. De Graaf-Zijl (2006), Economic and social consequences of temporary employment,Tinbergen Institute Research Seriesn. 380.

[5] De Graaf-Zijl (2006), cit.

[6] P. Gaëlle e S. Scarpetta (2004), Employment Regulations through the eyes of employers. Do they matter and how do firms respond to them?,Policy Research Working Paper Series 3463, The World Bank.

[7] W. MacLeod, e V. Nakavachara, (2007), Can Wrongful Discharge Law Enhance Employment?, The Economic Journal.

[8] J. Dolado e D. Stucchi (2008): Do Temporary Contracts Affect TFP? Evidence from Spanish Manufacturing Firms?, IZA Discussion Paper No. 3832

[9] F. Lucidi e A. Kleinknecht (2010): Little innovation, many jobs: An econometric analysis of the Italian labour productivity crisis, Cambridge Journal of Economics.

[10] Per una rassegna si veda A. Booth, J. Dolado e J. Frank, 2002, Symposium On Temporary Work Introduction, Economic Journal. Per l’Italia: F. Devicienti, F. Berton e L. Pacelli (2011), Are Temporary Jobs a Port of Entry into Permanent Employment? Evidence from Matched Employer-Employee Data, International Journal of Manpower.

[11] T. Picketty (2013): Il capitale nel XXI secolo, Bompiani [la versione italiana].

[12] B. Contini e R. Revelli (1992), Imprese, occupazione e retribuzioni al microscopio, Il Mulino, Bologna.B. Contini e R. Revelli (1997):Gross flows vs. net flows in the labour market: what is there to be learned ?, Labour Economics.B. Contini (2002): Osservatorio sulla mobilità del lavoro in Italia: imprese, lavoratori e salari, Il Mulino, Bologna.B. Contini and U. Trivellato (2005), Eppur si muove, Il Mulino.

[13] Bentolila S. e Bertola G. (1990), Firing Costs and Labour Demand: How Bad Is Eurosclerosis?, Review of Economic Studies.

[14] Alcuni lavori o rassegne confermano il risultato previsto da Bertola e Bentolila, ovvero un effetto a priori indeterminato, molto spesso nullo: Cazes, S. (2013), Labour market institutions, in S. Cazes a S. Verick (a cura di) Perspectives on labour economics for development, Geneva: ILO; OECD (2004), Employment Outlook, Paris: OECD; C. Noelke (2011), The consequences of employment protection legislation for the youth labour market, MZES Working Paper no. 144.

[15] Per rassegne si vedano N. Nayar e G. Willinger (2001),cit; De Graaf-Zijl M. (2006), cit..

[16] Per rassegne si vedanoJ. Storey, P. Quintas, P. Taylor e W. Fowle (2002), Flexible employment contracts and their implications for product and process innovation, The International Journal of Human Resource Management; V. Hailey (2001), Breaking the mould? Innovation as a strategy for corporate renewal, The International Journal of Human Resource Management.

[17] European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (2007), Varieties of flexicurity: Reflections on key elements of flexibility and security, Dublin.

[18] È vero che sia la legge Fornero che il Jobs Act ampliano la platea dei beneficiari dei sussidi di disoccupazione, ed il secondo aumenta un poco anche la generosità dei sussidi. Ma sussidi definiti in proporzione al salario e alla quantità di lavoro prestata evidentemente si riducono se si riducono i parametri sui quali si calcola l’ammontare e la durata della prestazione. Inoltre continuiamo a non avere nessuna tutela per i più poveri (nessuna forma di reddito minimo).

[19]Il tema è discusso più in dettaglio in G. Cavaletto e L. Pacelli (2014), cit. Si veda anche M. Malgarini, M. Mancini e L. Pacelli (2012): Temporary hires and innovative investments, Applied Economics; F. Berton, M. Richiardi e S. Sacchi 2009, Flexinsecurity, Bologna, il Mulino; ISFOL (2007), Investimenti in formazione e performance aziendali nelle strategie delle grandi imprese in Italia, Roma, Isfol.

[20] Storey et al. (2002), cit.

[21] Storey et al. (2002), cit.; Hailey (2001), cit.

[22] Il punto è discusso e dimostrato in A. Borgarello, P. Garibaldi e L. Pacelli (2004): Employment Protection Legislation and the Size of Firms, Il Giornale degli Economisti.

[23] Blith (2013): Austerity, the History of a Dangerous Idea, Oxford University Press.

[24] Picketty (2013), cit..

[25] Blith (2013), cit..

[26] Carla Ponterio e Rita Sanlorenzo (2014): E lo chiaman lavoro, I Ricci, pagina 19.

[27] http://www.ilo.org/rome/ilo-cosa-fa/lavoro-dignitoso/lang--it/index.htm, accesso del 14 giugno 2015; e D. Ghai (2003): Decent work: Concept and indicators, International Labour Review.