La riforma costituzionale e il referendum. Le ragioni del NO
Il testo sintetizza le ragioni che dovrebbero indurre gli elettori a votare NO al prossimo referendum confermativo. Sono avanzate obiezioni di metodo (l’oggetto della riforma non è omogeneo, e ciò obbliga chi vota ad un prendere o lasciare che ne coarta la libertà di scelta; la revisione costituzionale è stata approvata a stretta maggioranza, da parte di un Parlamento eletto sulla base di una disciplina elettorale incostituzionale, e impropriamente guidato dall’iniziativa governativa) e di merito.
Quanto a queste ultime, l’Autore contesta che un presunto deficit di governabilità sia indotto dall’attuale bicameralismo e, pur apprezzando l’idea di istituire il Senato quale organo rappresentativo delle Regioni, rileva che la riforma fallisce in tale intento.
Il nuovo Senato non sarebbe in grado di esprimere la volontà regionale, mentre, al contempo, la riforma indebolisce fortemente il ruolo delle autonomie territoriali, ma accentua oltre il dovuto i privilegi delle autonomie speciali.
Una riflessione è infine dedicata agli effetti distorsivi che il rafforzamento dell’esecutivo potrebbe produrre, a causa della nuova legge elettorale.
Il referendum e il suo oggetto eterogeneo
Nel referendum del prossimo ottobre agli elettori italiani verrà sottoposta, a quanto finora è dato sapere, una unica domanda: approvate (SI) o non approvate (NO) la legge costituzionale deliberata dalle Camere a maggioranza assoluta (ma non di due terzi) intitolata «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione»?.
Già la lettura del titolo rende chiaro che non ci troviamo di fronte ad una puntuale legge di revisione tendente a modificare una disposizione o un gruppo di disposizioni costituzionali inerenti ad un unico oggetto, sull’esempio di tutte le precedenti leggi di revisione approvate (v. ad es. la l. cost. n. 2 del 1999 «Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione»): e nemmeno di una legge tendente a una revisione complessiva di un preciso capitolo della Costituzione (come ad es. la l. cost. n. 3 del 2001 «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione»). Si tratta questa volta di un “pacchetto” di modifiche aventi molteplici oggetti, un poco come era accaduto per la prima volta con la legge approvata dalla maggioranza di centro-destra nel 2005, e respinta dal referendum del 2006.
Di fronte a questa caratteristica, molti hanno fatto notare che la libertà di voto degli elettori rischia di essere compromessa dalla mancanza di “omogeneità” dell’oggetto della riforma, per le stesse ragioni per le quali la Corte costituzionale a suo tempostabilì che non possono essere ammessi quesiti abrogativi contenenti una «pluralità di domande eterogenee, carenti di una matrice razionalmente unitaria» (sent. n. 16 del 1978). Il referendum in questione non è abrogativo ma confermativo, ma un’esigenza analoga è innegabile: se il Parlamento avesse approvato singole leggi di revisione aventi ciascuna un oggetto ben individuabile, tale esigenza sarebbe stata pienamente soddisfatta. In mancanza, dovrebbero provvedere – pur nel silenzio della legge – ad “articolare” la domanda in più quesiti, sottoposti a voti distinti, i promotori del referendum o l’Ufficio Centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, e se del caso la Corte costituzionale (adita in via incidentale dallo stesso Ufficio, o da promotori del referendum in sede di conflitto fra poteri).
Una riforma costituzionale di maggioranza
Va anche sottolineato che questa è solo la terza volta che una legge di revisione della Costituzione viene sottoposta a referendum, dopo il caso della riforma del titolo V, varata da una stretta maggioranza assoluta (di centro sinistra) nel 2001, e avallata dal referendum del 7 ottobre 2001, che vide una scarsa partecipazione (votò il 34,10 % degli aventi di diritto, e di questi approvarono la legge il 64,20 %, vale a dire meno del 22% degli elettori), e dopo quello della riforma del 2005, varata dalla allora maggioranza di centro destra, e bocciata dal referendum del 25-26 giugno 2006, cui partecipò il 52,46% degli elettori, il 61,29 % dei quali si espressero negativamente.
In tutti i casi precedenti e successivi le leggi di revisione furono approvate dalle due Camere con la maggioranza dei due terzi in seconda deliberazione e quindi, secondo l’art. 138 Cost., non furono soggette a referendum confermativo.
La saggia previsione costituzionale di un’approvazione – come “prima scelta” – delle modifiche con una maggioranza particolarmente ampia vale a fare della revisione costituzionale un’eventualità normalmente connessa a un largo accordo parlamentare, così confermando e consolidando il carattere di “terreno comune” fra le diverse forze politiche proprio della Costituzione. Ciò avrebbe dovuto indurre, nella presente legislatura, inauguratasi con una maggioranza molto ampia (di larga coalizione) che si propose fra l’altro di affrontare il tema delle riforme costituzionali, ad abbandonare questo proposito, e rinviarlo ad un futuro diverso, quando le condizioni del largo consenso sono venute meno: tanto più che la stretta maggioranza assoluta che ha approvato la legge con il voto finale delle due Camere era il frutto di una legge elettorale (quella del 2005) che all’inizio del 2014 è stata riconosciuta incostituzionale dalla Corte (sent. n. 1 del 2014) proprio, fra l’altro, per la eccessiva distorsione della rappresentanza proporzionale che essa induceva.
All’inizio della legislatura si era proposto di affidare comunque l’esame delle riforme, in sede referente, a un comitato parlamentare formato tenendo conto dei voti, e non solo dei seggi ottenuti dalle diverse forze politiche (nell’intento di perseguire la massima rappresentatività nel processo), e di ammettere, su richiesta, il referendum confermativo quale che fosse la maggioranza raggiunta nelle Camere. In seguito, venuta meno la maggioranza di larga coalizione, si è tornati al procedimento previsto dall’art. 138 Cost., e la maggioranza (solo assoluta) che poi ha approvato la legge è stata proprio quella “distorta” dagli effetti della legge elettorale.
Si capisce che a questo punto il Governo (che irritualmente – dato il carattere costituzionale della materia – si è assunto non solo l’iniziativa, ma la guida del procedimento parlamentare), abbia teso a rivendicare la riforma come un “proprio” risultato, sul quale chiedere un consenso degli elettori che lo legittimi definitivamente, quasi ponendo una sorta di impropria “questione di fiducia” davanti al Paese. Ma non si tratta certo di un modo corretto di affrontare i problemi costituzionali. Da ultimo, lo stesso presidente del Consiglio ha fatto una qualche marcia indietro a questo riguardo, ammettendo che si vota su quel testo e non sul Governo: ma il danno è ormai fatto, e in ogni caso la vicenda non potrà non produrre – specialmente se la riforma passerà – un effetto di indebolimento del ruolo della Costituzione come carta e “casa” comune degli italiani, al di là delle divisioni politiche. Il nostro Paese non ne avrebbe davvero bisogno, posto che il comune riferimento costituzionale è uno dei pochissimi elementi capaci ancora di esprimere l’unità del Paese.
Ragioni e “non ragioni” della riforma
Se il metodo seguito nell’impresa riformatrice appare meritevole di critica, anche il merito delle riforme deliberate lascia perplessi.
Un cambiamento delle norme costituzionali richiederebbe anzitutto di identificare correttamente gli inconvenienti che l’attuale normativa presenterebbe e gli obiettivi di miglioramento che si intendono perseguire, e poi di valutare l’idoneità, a tal fine, degli strumenti apprestati.
Sgombriamo intanto il campo dalla tesi secondo cui il nostro attuale sistema costituzionale sarebbe caratterizzato da un eccesso di poteri di veto e da una carenza di poteri di decisione (donde l’esigenza di muovere verso un sistema più “decisionista”); e secondo cui ciò sarebbe stato storicamente dovuto (nel 1947) al timore di ritorni di autoritarismo e all’intento di limitare il potere di un partito “anti-sistema” (il partito comunista) che si temeva potesse ottenere la maggioranza elettorale. Semplicemente questo non è vero.
Che tutte le Costituzioni si siano preoccupate anzitutto di limitare il potere, scongiurando il rischio di torsioni autoritarie, è vero: nascono per questo. Ma, ciò detto, il sistema parlamentare scelto dal nostro Costituente, assicurando la consonanza tra legislativo ed esecutivo (perché il Governo non ha altra legittimazione se non quella che gli deriva dalla fiducia della maggioranza parlamentare), è proprio quello meglio in grado dal punto di vista istituzionale, in un sistema democratico pluralistico, di consentire alla maggioranza, e quindi al Governo, di realizzare i propri programmi anche attraverso le leggi, e quindi di governare, nel rispetto delle garanzie e dei diritti di tutti e sotto il controllo delle opposizioni.
Ma, si dice, le maggioranze faticano a comporsi, o si disfano spesso, o sono divise, e dunque il processo decisionale non riesce ad esplicarsi con efficacia: solo un Governo (anzi, un capo del Governo), che possa per tutta la legislatura decidere senza impacci e condizionamenti, potrebbe governare con efficacia. Di qui le ricorrenti tentazioni di abbandonare il sistema parlamentare prevedendo l’elezione diretta del capo dell’Esecutivo, sia esso il presidente della Repubblica o il presidente del Consiglio, messo in condizione di non dipendere più dalla volontà del Parlamento (con tutti i rischi collegati di riduzione della democrazia e di personalizzazione del potere).
Questa prospettiva non è peraltro (fortunatamente) oggi in gioco. La riforma in discussione non intacca le caratteristiche del nostro sistema parlamentare, e nemmeno tende ad introdurre misure di ulteriore “razionalizzazione” del parlamentarismo (come ad esempio la cosiddetta sfiducia costruttiva): limitandosi a riservare alla sola Camera dei deputati il compito di dare e togliere la fiducia al Governo, oltre a introdurre una modesta clausola (ancorché in sé apprezzabile: è uno dei pochi punti positivi della riforma) secondo cui il Governo potrebbe chiedere alla Camera di esprimersi entro un termine certo, in modo definitivo, su progetti rilevanti per il suo indirizzo politico, rendendo al contempo più severi i limiti del ricorso alla decretazione d’urgenza.
Il bicameralismo attuale non ha in realtà a che fare con poteri veto né può essere indicato come una causa che minacci la stabilità dei Governi (altro “mantra” ricorrente nel dibattito). Da quando esiste la Repubblica e fino al 2013 mai i problemi della stabilità delle maggioranze e dei governi sono dipesi dall’esistenza delle due Camere. All’epoca della Costituente, unica assemblea rappresentativa in quella fase (1946-48), sulla cui fiducia si basava il Governo, si succedettero tre governi e almeno due maggioranze alquanto diverse (di “unità nazionale” e poi “centrista”). Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, in ciascuna delle sedici legislature succedutesi fino al 2013 abbiamo avuto o una unica maggioranza, più o meno ampia (prima centrista, poi di centro-sinistra, poi di “pentapartito”, e più di recente di centro-sinistra o di centro-destra) che ha dato vita a più governi; o mutamenti di maggioranza nel corso della stessa legislatura. Ebbene, mai i problemi del formarsi o del disfarsi delle maggioranze nell’ambito della stessa legislatura - dalle vicende all’inizio degli anni Sessanta, alla formazione del governo Monti nel 2011 – sono stati dovuti all’esistenza di due Camere e ad una diversità di maggioranze all’interno di esse (la crisi, nata esplicitamente in Parlamento, del primo governo Prodi nel 1998 fu causata da un voto di sfiducia – 313 voti contro 312 – della Camera dei deputati).
Nel 2013, per la prima e unica volta, e alquanto casualmente, le elezioni hanno dato luogo a due Camere che non esprimono la stessa maggioranza. Fino ad allora, Camera e Senato hanno in sostanza espresso sempre le stesse maggioranze, forti o deboli, ampie o meno ampie, coese o meno coese al loro interno.
La riforma in tema di bicameralismo dunque, se in qualche misura potrebbe essere in grado di ridurre i tempi del procedimento legislativo, eliminando la “duplicazione” attuale, non incide invece in alcun modo sui modi in cui le maggioranze si formano e si disfano in Parlamento. Su questo, semmai, può incidere la legge elettorale, estranea alla Costituzione. Su di essa diremo qualcosa più avanti.
Il nuovo Senato: un’idea giusta male attuata
La scelta di differenziare le due Camere, riservando a quella dei deputati il ruolo di espressione dei rapporti fra le forze politiche e fra maggioranza e opposizioni, è di per sé condivisibile. Come è pure condivisibile l’intento di fare del nuovo Senato la Camera rappresentativa delle istituzioni territoriali, e in ispecie delle Regioni, per favorire un coordinamento non solo autoritario fra Stato centrale e Regioni, nell’ottica di un regionalismo cooperativo.
Ma il punto dolente è il modo in cui si sono volute disegnare la composizione e le funzioni del Senato. Quanto alla composizione, non si sono immessi in esso di diritto i titolari delle maggiori cariche rappresentative delle Regioni (presidenti delle Giunte e dei Consigli), oltre ad un certo numero (proporzionale alla popolazione) di altri soggetti espressi dalla Regione, e soprattutto destinatari di un “mandato” unitario, così che nel nuovo Senato si esprimesse veramente la “voce” delle Regioni. Si è prevista invece la presenza di senatori eletti dai consigli regionali (con un sistema proporzionale) nel proprio seno, senza vincolo di mandato, che conserverebbero contemporaneamente la loro carica regionale (e che dovrebbero essere però eletti, misteriosamente, «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi»: sic!). Per di più, uno degli eletti in ciascuna Regione deve essere un Sindaco, però sempre eletto dal consiglio regionale (onde non si capisce quale forma di “rappresentanza” abbiano le autonomie locali nel nuovo Senato). In tutto 95 senatori, fra cui ventuno Sindaci. A questi si aggiungono gli ex presidenti della Repubblica, che restano senatori a vita, nonché un massimo di cinque senatori nominati dal presidente della Repubblica fra cittadini «che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario», i quali però, a differenza di quelli oggi nominati a vita, restano in carica solo sette anni; e che potranno essere nominati solo quando si renderanno vacanti posti lasciati dagli attuali senatori vitalizi.
Insomma, una composizione che fa a pugni per alcuni versi persino con la logica.
Quanto alle funzioni, il Senato, perduta la funzione di dare e togliere la fiducia al Governo, manterrebbe quella legislativa, in modi diversi. Per alcune limitate categorie di leggi conserverebbe gli stessi poteri della Camera (leggi bicamerali): fra queste vi sono le leggi che disciplinano particolari procedure statali riguardanti le autonomie o il raccordo con l’Unione europea, ma non vi sono molte delle leggi che lo Stato detterà nelle materie di maggior interesse per le Regioni. Per le altre leggi (monocamerali) il Senato avrà facoltà, su richiesta di un terzo dei suoi componenti e con delibera da adottare entro trenta giorni, di proporre modifiche al testo deliberato dalla Camera: su di esse si pronuncia definitivamente di nuovo la Camera (talvolta con particolari requisiti di maggioranza). Si delineano dunque diversi tipi di procedimenti legislativi a seconda delle materie, il che comporta che ogni legge abbia un contenuto interamente riconducibile solo ad una o ad altra delle materie o dei gruppi di materie indicati.
Lo squilibrio accentuato fra numero dei deputati (che resta 630) e numero dei senatori (100, più gli ex Presidenti) altera la composizione del Parlamento in seduta comune, che conserverebbe il potere di eleggere il presidente della Repubblica (peraltro prevedendosi che, dopo il sesto scrutinio, l’elezione possa avvenire con i soli tre quinti dei votanti, quindi anche con una maggioranza inferiore a quella minima oggi richiesta del 50% più uno dei componenti).
Una riforma anti-autonomista
Ma se quanto al Senato un’idea giusta è stata declinata in termini sbagliati, l’altro grande capitolo della riforma, cioè la revisione del titolo V in tema di Regioni ed enti locali, muove invece da un’idea sbagliata: quella che il sistema istituzionale italiano abbia bisogno di un nuovo massiccio ri-accentramento di poteri in capo allo Stato nazionale, e non di una riorganizzazione razionale, fondata sui principi fondamentali di autonomia e di decentramento, proclamati dall’art. 5 della Costituzione, che impone alla Repubblica di adeguare a tali esigenze «i principi e i metodi della sua legislazione».
Invece di affrontare le vere ragioni per le quali lo Stato non ha mai intrapreso, specie negli ultimi decenni, la strada del legiferare per principi (leggi quadro o leggi cornice), assicurando ciò che deve essere uniformemente garantito a livello nazionale in termini di diritti, e consentendo poi alla legislazione regionale e all’amministrazione locale di valorizzare le differenze e di consentire la piena esplicazione dell’autogoverno responsabile, si è proceduto attraverso una legislazione statale di estremo dettaglio e un governo sempre più accentrato delle risorse.
È singolare che a quindici anni di distanza dalla riforma del 2001, voluta allora dal centro-sinistra e approvata con una ristrettissima maggioranza, la stessa forza politica che allora volle impostare il sistema delle autonomie in una prospettiva “federalista” abbia oggi varato una riforma che ne rovescia il segno. Nel testo in vigore si elencano diciassette materie o gruppi di materie attribuite alla competenza “esclusiva” dello Stato; inoltre vi è un generoso elenco – in alcuni casi troppo generoso – di materie di competenza “concorrente”, cioè nelle quali lo Stato stabilisce i principi fondamentali, ma il resto della legislazione spetta alle Regioni. Nelle materie non elencate vale la competenza “residuale” delle Regioni.
Dopo il 2001 è cresciuto il contenzioso fra Stato e Regioni davanti alla Corte costituzionale, non per “colpa” delle competenze concorrenti, ma essenzialmente a causa della mancanza di una legislazione generale attuativa, della perdurante abitudine del legislatore statale di intervenire non sui principi ma sui dettagli, e dell’utilizzo estremamente estensivo delle competenze statali cosiddette “trasversali”, come la tutela della concorrenza o il coordinamento della finanza pubblica, che consentono di interferire anche in ambiti di per sé di spettanza delle Regioni.
La riforma, invece di cercare gli aggiustamenti opportuni per portare equilibrio nel sistema, e di correggere alcuni specifici errori del testo del 2001, propone un vero e proprio rovesciamento di prospettiva. Sopprime tutte le competenze concorrenti, trasferendo le relative materie alla competenza «esclusiva” dello Stato, sia pure, talvolta, limitandola al compito di dettare “disposizioni generali e comuni”». Questa espressione, di per sé difficilmente decifrabile, significa in sostanza che lo Stato, nelle materie tipiche dell’intervento regionale – come il governo del territorio, i servizi sociali e sanitari, il turismo, le attività culturali, – non dovrà più limitarsi a fissare i principi fondamentali e a «determinare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (come stabilisce l’attuale testo), ma potrà legiferare liberamente su tutto, per lasciare ai legislatori regionali solo lo spazio che, discrezionalmente, caso per caso riterrà, se vuole, di lasciare. Il che, come è evidente, equivale a sopprimere ogni ambito significativo di autonomia garantita costituzionalmente.
Alle Regioni resterebbero, in base al nuovo testo, competenze, per lo più di mera organizzazione di servizi, nei limiti risultanti dalle “disposizioni generali e comuni” dettate dal legislatore statale, in materie espressamene elencate, oltre ad una competenza innominata o residuale nelle materie non attribuite allo Stato (e che peraltro si è già dimostrata pressoché priva di rilievo pratico data la “espansività” delle competenze statali “trasversali”). In più, un nuova “clausola di supremazia” (indubbiamente utile in un sistema che fosse fortemente decentrato) consentirebbe allo Stato di intervenire, per esigenze di unità giuridica o economica della Repubblica o per la tutela dell’interesse nazionale, in materie diverse da quelle ad esso riservate.
La nuova distribuzione delle competenze legislative comporterebbe anche sia un accentramento delle competenze regolamentari (che spetterebbero allo Stato, salvo facoltà di delega, in tutte le materie attribuite alla sua competenza legislativa), sia una riduzione della competenza delle Regioni a collocare in capo agli enti locali le funzioni amministrative, posto che tale collocazione sarebbe sempre compito dello Stato nelle materie di potestà legislativa statale.
Anche l’autonomia finanziaria (di entrata e di spesa) delle Regioni risulta ulteriormente compromessa, posto che non solo non si è dato finora alcun seguito ai principi del cd federalismo fiscale sanciti dall’art. 119 della Costituzione ed espressi dalla mai attuata legge n. 42 del 2009, ma, nella riforma costituzionale ora approvata, si rivede l’art. 119 accentuando il ruolo della legge dello Stato nel disciplinare, anche nel dettaglio, le entrate tributarie delle Regioni: con ciò ponendo le premesse per una ulteriore subordinazione delle Regioni ad uno stretto controllo finanziario dello Stato, anche al di là della giusta esigenza di assicurare un armonico governo complessivo della finanza pubblica.
Infine, non si può trascurare una contraddizione della legge di riforma. Essa prevede che le nuove norme modificative del Titolo V della Costituzione (quello appunto sulle Regioni e gli enti locali) non si applicano alle Regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e relative Province autonome, Friuli-Venezia Giulia) «fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime».
Le disposizioni della riforma del 2001 si applicavano invece anche a queste Regioni «per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite», nel giusto intento di non farle restare nemmeno temporaneamente “indietro” rispetto agli ampliamenti di autonomia che la riforma stessa riservava alle Regioni ordinarie. Mentre allora ci si era preoccupati di parificare le Regioni speciali alle ordinarie, per tutto ciò che non tocca le ragioni della specialità, oggi invece si accentua la differenza, sia pure a titolo transitorio (ma la transizione rischia di essere infinita, in attesa che si realizzino le intese per modificare gli statuti). Così, ad esempio, mentre scompaiono per le Regioni ordinarie le competenze legislative concorrenti, quelle medesime competenze restano in capo alle Regioni speciali in quanto previste dai rispettivi statuti. Non solo dunque rimarrebbe, ma si accentuerebbe, in forza di una riforma che pretende di cambiare il quadro generale del regionalismo, la differenza di disciplina fra le Regioni ordinarie e quelle speciali, anche per aspetti in cui non sussistono le ragioni originarie, e tuttora valide, della autonomia differenziata. Per le Regioni ordinarie invece, pur restando la clausola costituzionale (art. 116, terzo comma), che consente l’ampliamento con legge, sulla base di intese, delle relative competenze, se ne restringe l’ambito di applicazione, escludendo da esso tutte le materie già di competenza concorrente e oggi passate alla competenza statale esclusiva, salvo solo alcune di queste, nominativamente indicate.
La retorica del contenimento dei costi
Quanto all’obiettivo, sbandierato fin dal titolo della legge, del «contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni», in realtà esso sembra frutto di un atteggiamento pericolosamente corrivo verso le pulsioni anti-politiche che percorrono oggi la società. Le istituzioni non si riformano per ridurne il costo (il “costo” della democrazia) ma per farle funzionare meglio. Il numero degli organi elettivi e il numero dei componenti di tali organi si determinano in base a esigenze di rappresentatività e di funzionalità, non in base ad una generica richiesta di eliminazione di “poltrone” (quasi che le cariche elettive costituissero dei privilegi da abolire, invece che luoghi ove si serve la comunità «con disciplina ed onore» (art. 54 Cost.).
Così cancellare dalla Costituzione le Province – anche per le Regioni più grandi, in cui è difficile negare l’esigenza di un livello intermedio di governo locale – per evocare poi non meglio identificati «enti di area vasta», senza precisare se siano elettivi, è un’altra evidente concessione alla retorica delle “poltrone” da abolire. E nella stessa linea si collocano alcune specifiche disposizioni della legge di riforma che pretendono di dettare (in Costituzione!) criteri quantitativi precisi per la commisurazione delle indennità per i titolari degli organi regionali, e divieti di corresponsione di contributi ai gruppi consiliari regionali, traendo evidente spunto da diffusi scandali in materia. Tutte norme “simboliche”, indicative di una volontà, si direbbe, di “umiliare” le istituzioni regionali previste dalla Costituzione.
La legge elettorale: governabilità versus rappresentanza
Qualche riflessione merita infine, benché di per sé estraneo alla riforma costituzionale, ma spesso ad essa connesso nel dibattito pubblico, il tema della nuova legge elettorale per la Camera (il cosiddetto “Italicum”). Ad essa si attribuisce la “virtù” di assicurare la stabilità dei governi, poiché, per effetto del premio di maggioranza alla lista che al primo turno raggiunga il 40% dei voti, o che, essendo fra le due più votate al primo turno, vinca il “ballottaggio”, si avrebbe la certezza che una e una sola lista otterrebbe comunque la maggioranza assoluta della Camera e potrebbe dunque esprimere un Governo stabile, “di legislatura”.
Il sistema elettorale indicato sembra congegnato in modo da adattarsi bene solo ad un sistema politico fondamentalmente bipartitico o almeno bipolare. Non ad un sistema politico, come il nostro attuale, caratterizzato da almeno tre grandi formazioni in grado di ottenere il 25-30% dei voti, ma difficilmente in grado di andare molto oltre questa soglia di consenso, e da forze minori spesso tendenzialmente “estreme”, da una parte e dall’altra dello schieramento; e per di più in cui le stesse forze politiche appaiono da un lato sempre più divise al proprio interno, dall’altro incapaci di stipulare accordi di coalizione espliciti, programmatici e non di semplice spartizione del potere.
In un simile sistema, è molto dubbio che abbia senso costruire un meccanismo in base al quale tutto il potere di maggioranza verrebbe messo a priori nelle mani di una forza politica che rappresenti in ipotesi solo un quarto dei votanti (e magari un ottavo degli elettori). L’equilibrio fra rappresentanza e cosiddetta governabilità sarebbe del tutto sbilanciato in questo secondo senso. Quanto più certe tradizionali linee di divisione fra schieramenti politici sembrano in parte scolorirsi, e i partiti tendono a divenire fazioni personali, tanto più sarebbe invece necessario indurre i gruppi politici a cercare tra di loro le affinità e le differenze, e a ragionare se occorre in termini di coalizioni di programma e non di pura competizione fra persone. Inoltre, specie nei momenti di maggiore difficoltà della società, si dovrebbero cercare prima le ragioni di possibile intesa che quelle di aprioristica contrapposizione.
Non è questo, ripeto, il tema posto a referendum. Ma, se mai si dovesse tener conto della legge elettorale approvata anche ai fini di apprezzare la riforma costituzionale, questo sarebbe a mio giudizio un ulteriore motivo per esprimersi negativamente.