Magistratura democratica

Il punto di vista di un avvocato ottuagenario

di Emilio Zecca

Dopo avere ripercorso le principali tappe dell’evoluzione della giustizia tributaria in Italia, vengono evidenziati i punti critici dell’attuale sistema: dalla ridotta imparzialità oggettiva dell’organo giudicante, strutturalmente legato al Ministero dell’economia e composto da giudici che vi si dedicano come “dopolavoro”, alla irragionevole esclusione dell’azione di accertamento, alla limitazione del diritto alla prova da parte del contribuente; inoltre, si dimostra che il principio costituzionale della progressività dell’imposizione fiscale è stato di fatto abbandonato, mediante tecniche che hanno favorito, nel tempo, un aumento crescente del carico fiscale nei confronti dei ceti più poveri e di quelli medio bassi e una notevole diminuzione di esso nei confronti dei ricchi e del ceto medio-alto.

1. L’evoluzione di politica legislativa sulla “giustizia tributaria”!

Credo sia molto utile cominciare con un rapido sguardo alle vicende legislative dell’ultimo cinquantennio, anche per tentare di individuare le linee di tendenza che sono state seguite e le spinte politiche che possono averle determinate.

Negli anni dei miei studi universitari (1953-1957) il processo tributario – a parte una possibile fase preliminare davanti alle Commissioni tributarie (peraltro non indispensabile se la materia del contendere fosse stata esclusivamente giuridica) – si identificava totalmente con il processo civile davanti al giudice ordinario. La competenza per materiaera attribuita alTribunale, ai sensi dell’art. 9 secondo comma cpc nel testo ancor oggi vigente e, nel caso di imposte erariali, con l’applicazione dell’art. 25 del codice di rito (foro dello Stato). Non rilevanti né significative erano le eccezioni: dalla cognizione del giudice ordinario: restavano escluse le questioni di “estimazione semplice” del reddito o del valore, le controversie di “classificazione doganale” delle merci e pochissime altre.

Va altresì sottolineato poi che l’affidamento all’autorità giudiziaria ordinaria delle controversie in materia di imposte prendeva storicamente origine dall’art. 6 dell’antica legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo, (la legge 20 marzo 1865 n 2248 all. E) il cui testo disponeva infatti che «nelle controversie relative alle imposte così dirette, come indirette, la giurisdizione ordinaria sarà sempre esercitata in prima istanza dai Tribunali di circondario, ed in seconda istanza dalle Corti d’appello» .Si trattava, perciò, non già di una competenza occasionale e mutevole nel nostro ordinamento, bensì di una disciplina stabilita addirittura con la medesima legge fondamentale sul riparto delle giurisdizioni , i cui principii ancor oggi reggono la materia, e di una scelta, dunque, coeva alla formazione stessa dello Stato unitario e già sperimentata da quasi un secolo.

In quel tempo era inoltre diffusa la convinzione che non sarebbe stato comunque costituzionalmente possibile sottrarre la materia alla giurisdizione ordinaria, a causa del divieto di istituire nuovi giudici speciali (art. 102 Cost.), considerando del tutto pacifico il carattere meramente “amministrativo” delle Commissioni tributarie che allora operavano, e ritenendo comunque categoricamente esclusa la configurabilità di organi dotati di potere giurisdizionale la cui “organizzazione” ed il cui “funzionamento fossero, ciò malgrado, affidati ad un Ministero diverso da quello della giustizia. Il precetto dell’art. 110 della nuova Costituzione,varata da appena un decennio, rendeva una siffatta prospettiva chiaramente improponibile agli occhi di chiunque.

Tanto era radicata questa convinzione che, nella riforma organica del sistema fiscale poi varata nel 1971 (in base alla legge delega 9 ottobre 1971 n, 825), quella che introdusse le imposte ancor oggi in vigore per intenderci (l’Irpef, l’Iva ecc..), proprio al fine di evitare qualsiasi pericolo di incorrere in vizi di costituzionalità, il legislatore previde la facoltà della parte che fosse risultata soccombente nella decisione della Commissione di II grado di scegliere se proporre un ulteriore ricorso alla Commissione tributaria centrale, oppure rivolgersi invece alla Corte d’appello, «per violazione di legge e per questioni di fatto, escluse quelle relative a valutazione estimativa ed alla misura delle pene pecuniarie» (artt. 40 e segg, d.lgs n. 636/72),introducendo il relativo giudizio «con atto di citazione redatto ai sensi dell’art. 342 cpc».

Questo sistema, il quale lasciava dunque – sia pur stranamente solo nel terzo grado di giudizio e per giunta in via facoltativa – la possibilità di adire la giurisdizione ordinaria, alla parte che avesse voluto preferirla alle Commissioni tributarie, rimase in vigore per ventitre anni(dal 1 gennaio 1973 fino all’insediamento delle “Nuove commissioni” previste dal d.lgs n. 545/1992, avvenuto il 1 aprile 1996).

La mia opinione è che a quel sistema vada tutto sommato riconosciuto qualche non trascurabile pregio rispetto a quello che poi sarebbe seguito a partire dal 1996, e che è oggi, ahimè!, ancora in vigore. Il fatto che, da un punto di vista statistico, si scegliesse prevalentemente di proseguire il processo davanti alla Commissione centrale e non davanti alla Corte d’appello, dipendeva da alcuni fattori del tutto estrinseci, che non avevano nulla a che fare con aspetti attinenti alla “giustizia. Infatti gli uffici fiscali sceglievano sistematicamente di impugnare davanti alla Commissione centrale, sia per forza d’inerzia, in quanto è così che avevano sempre fatto, sia perché tale iniziativa non presentava alcuna difficoltà ed alcun rischio di incorrere in vizi procedimentali (essa si traduceva in una semplice lettera indirizzata alla Commissione centrale), sia perché offriva per giunta anche il vantaggio di eludere il fastidio delle spiegazioni e dei chiarimenti da fornire all’Avvocatura dello Stato, necessari invece qualora si fosse scelto di andare in Corte d’appello, con il pericolo oltretutto che l’Avvocatura vi scorgesse aspetti di erronea o impropria conduzione della lite nei due precedenti gradi da parte dell’Ufficio medesimo, se non addirittura degli errori nella iniziale formulazione della pretesa tributaria oggetto della lite o nella stessa sua legittimità.

Per quanto riguarda i contribuenti, poi, va considerato che essi erano assai spesso difesi da professionisti (ragionieri, commercialisti ecc.) i quali non avrebbero potuto continuare ad assisterli dinanzi al giudice ordinario, così che scegliere la Corte d’appello avrebbe significato in definitiva affidare il cliente ad un avvocato e cioè ad un altro professionista. Va rammentato infine che ricorrere alla Commissione centrale significava, in quegli anni, che non si sarebbe sentito più parlare per un lunghissimo periodo di tempo di quella controversia (astenendosi ovviamente dal presentare istanza di prelievo) e quindi, tenuto conto anche che in quel tempo le sanzioni non erano riscosse se non dopo il giudicato, la scelta avrebbe potuto rivelarsi conveniente per motivi di temporalizzazione o di strategia processuale, e cioè per motivi del tutto indipendenti dalla teorica preferibilità dell’uno o dell’altro foro in relazione allo specifico oggetto della lite.

Vi era poi un fattore che mostrava come il legislatore stesso avesse cercato – pur confermando di non poter del tutto sottrarre la materia fiscale al giudice ordinario – di privilegiare tuttavia la prosecuzione del processo davanti alla Commissione centrale. La scelta alternativa di rivolgersi alla Corte d’appello era infatti praticabile solo dopo che fosse inutilmente scaduto il termine per il ricorso alla Commissione centrale: in tal modo qualsiasi soccombenza dell’ufficio fiscale, anche su aspetti secondari ed insignificanti della lite, poteva offrire all’ufficio stesso il destro per proporre un ricorso alla Commissione centrale con l’effetto di paralizzare la scelta alternativa del contribuente e costringerlo a proseguire la lite davanti al foro prescelto dall’ufficio fiscale stesso.

Nonostante ciò, il contribuente il quale avesse voluto contestare la versione dei fatti posti dall’ufficio all’origine della pretesa fiscale, avvalendosi a tal fine dell’armamentario probatorio del processo civile, o che avesse desiderato veder risolta la controversia ad opera di un giudice il quale non solo fosse dotato dell’autorevolezza che gli proviene dall’investitura e dalla continua frequentazione del diritto, ma che fosse anche costituito da persone appartenenti alla cerchia di coloro che hanno fatto dell’imparzialità il proprio mestiere, avrebbe potuto avere qualche speranza di poterlo fare dopo i primi due gradi di giudizio dai quali fosse uscito soccombente, ricorrendo alla Corte d’appello appunto.

La cesura” definitiva con la giurisdizione ordinaria (ad eccezione ovviamente della Corte di cassazione, come supremo giudice di legittimità e, comunque, ai sensi dell’art.111 della Costituzione) avvenne solo con l’emanazione dei due decreti legislativi n. 545 e n. 546 del 1992, e con l’insediamento delle “Nuove commissioni” in essi previste. In quel momento io avevo da pochissimo tempo cessato di essere un “avvocato dello Stato” e non tardai molto a ravvisare nel nuovo assetto della giustizia tributaria il coronamento di una aspirazione a lungo coltivata e perseguita in tacita alleanza, per un verso, dagli apparati finanziari dello Stato, che avevo frequentato per oltre un trentennio come loro consulente e difensore, e, per altro verso, dalla categoria professionale dei ragionieri e dei commercialisti a difesa, per dir così, di un loro “territorio”.

Lo strumento che tali tendenze avevano sempre utilizzato per spingere verso questo tipo di soluzione era sempre stato costituito dalla rappresentazione del diritto tributario come materia ad altissima e complicatissima specializzazione, mentre i fattori che l’avevano resa vincente erano stati, da un canto, la ritrosia incomprensibile degli avvocati a studiare un po’ di ragioneria e di contabilità aziendale (benché una intera sezione del codice civile per verità ne presupponesse la conoscenza) e, dall’altro canto, la propensione delle facoltà economiche a trascurare o sottovalutare l’insegnamento di alcune materie giuridiche che avrebbero dovuto invece essere considerate indispensabili per ogni professionista che avesse dovuto occuparsi di imposizione fiscale (come ad esempio il diritto internazionale, pubblico e privato, vista la dimensione sempre più globale dei mercati economici e finanziari, il diritto costituzionale, visto che si tratta in fondo di materia coperta da riserva di legge, ed il diritto comunitario in considerazione del percorso di integrazione economica che l’Italia aveva da tempo intrapreso).

Passiamo ora, con riferimento alla situazione attuale, all’esame delle moltissime questioni che appaiono ai miei occhi irrisolte, o risolte in modo che giudico del tutto insoddisfacente.

2. L’imparzialità “oggettiva” dell’organo giudicante

La prima questione attiene alla legittimità dell’organo giudicantesotto il profilo del requisito della imparzialità richiesto dall’art. 108 e dall’art. 111 della Costituzione, oltre che dall’art. 6 della Cedu, quale parametro interposto di costituzionalità ai sensi dell’art. 117 primo comma della Costituzione italiana.

Come noto, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo distingue nettamente la “imparzialità soggettiva” (e cioè quelle situazioni che il diritto processuale italiano riconduce agli istituti della “astensione” e “ricusazione” di un singolo giudice) dalla imparzialità oggettiva, che attiene invece alle modalità concrete con cui vengono scelti e nominati i giudici ordinari o speciali, nei casi in cui tali modalità, anche in relazione alla specifica tipologia di controversie di loro competenza, non appaiano sufficientemente idonee a garantire nel modo più rigoroso l’imparzialità dell’insieme complessivo del singolo ordine giudiziario.

Orbene, la maggior parte delle controversie devolute alla giurisdizione delle Commissioni tributarie si riferisce ad entrate tributarie dello Statoe sono giudicate da persone le quali – del tutto indipendentemente dalla loro scrupolosità personale (circostanza che attiene alla “imparzialità soggettiva” che qui non è in discussione) – sono state nominate con dPR, su proposta del Ministro delle finanze, previa deliberazione del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, a sua volta nominato con dPR su proposta del Ministro delle finanze ed avente sede in Roma presso il Ministero delle finanze (artt. 9 e 17 d.lgs 31 dicembre 1992 n. 5 45). Ora, queste circostanze dovrebbero essere, a mio avviso, verosimilmente considerate dalla Corte di Strasburgo come capaci di escludere il requisito dell’imparzialità “oggettiva richiesto dall’art. 6 della Convenzione, considerato che la giurisdizione della Commissioni si esercita proprio sulla materia tributaria, che costituisce la primaria competenza del Ministro che sceglie e propone la nomina dei componenti e che, soprattutto, assume la responsabilità civile, amministrativa e politica – ai sensi dell’art. 95 della Costituzione – del fatto che le entrate tributarie, del cui legittimo o illegittimo accertamento quelle commissioni dovranno giudicare, coprano le spese dello Stato, assicurando così quel pareggio di bilancio al quale occorre necessariamente tendere, se non obbligatoriamente pervenire (al netto degli effetti del ciclo economico, secondo la nuova formula dell’art. 81 della Costituzione), risultato questo che è poi a sua volta oggetto della competenza e della responsabilità dello stesso Ministro, dopo l’unificazione dei tre ministeri del Tesoro, delle Finanze e del Bilancio.

3. La violazione dell’art. 110 della Costituzione

Una ulteriore questione attiene poi al carattere “giurisdizionale” dell’attività delle Commissioni tributarie, ormai unanimemente riconosciuto, ma incomprensibilmente non coordinato con il disposto dell’art. 110 della Costituzione, normala quale impone che «l’organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia» siano affidati sempre e comunque al Ministro della giustizia.

Come noto la VI disposizione transitoria della Costituzione prevedeva che si procedesse, entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione, e quindi entro il 31 dicembre 1953 (termine sempre considerato peraltro meramente ordinatorio dalla Consulta: cfr. ad esempio Corte Cost. sentenza n. 41/1960) alla «revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti e dei Tribunali militari».

Le Commissioni tributarie non erano menzionate perché ritenute organi non giurisdizionali, ma meramente amministrativi dai Costituenti. Poi però la Corte costituzionale ne riconobbe la natura giurisdizionale (sent. 12, 41 e 42/1957, 81/1958), ma la stessa Corte successivamente mutò opinione dichiarandole di natura meramente amministrativa (sent. 6 e 10/1969), ed infine, dopo la riforma attuata con il dPR n. 636/1972 (che le supponeva giurisdizionali, ma che prudentemente affidava ai contribuenti la facoltà di promuovere un ricorso alla Corte d’appello anziché alla Commissione centrale, per evitare l’incostituzionalità sotto il profilo dell’art. 24 della Costituzione), tornò a considerarle ancora come giurisdizionali (sent. 287/1974), anche al fine di evitarne l’incostituzionalità come nuovo” giudice speciale, la cui istituzione sarebbe stata come noto vietata dalla Costituzione (art. 102 secondo comma): le Commissioni potevano essere dunque salvate solo affermando che erano sempre state organi giurisdizionali (e quindi non un nuovo” giudice speciale) e tali furono infatti riconosciute dalla Corte.Tuttavia, in quell’occasione (e nei successivi quaranta anni...) ci si dimenticò (si fa per dire...) che, in quanto tali, non potevano continuare ad essere organizzate” dal Ministero delle finanze ed a funzionare sotto l’egida delle stesse strutture che comparivano nei giudizi come parti in causa nel 99% delle controversie sottoposte alla loro giurisdizione, senza violare l’art. 110 della Costituzione.

Va sottolineato come tale aspetto di legittimità non possa e non debba essere sottovalutato in ragione del fatto che si tratterebbe solo della “organizzazione e del “funzionamento”, ma non del contenuto delle decisioni e degli orientamenti giurisprudenziali abbracciati dalle Commissioni, così che non toccherebbe il requisito della loro imparzialità”. Ciò non solo per un motivo di carattere letterale, e cioè che la Costituzione vuole che proprio l’organizzazione ed il funzionamento di qualsiasi organo giurisdizionale siano affidati al Ministro della giustizia, ma anche per un motivo sostanziale e concreto. Infatti si può osservare come il Ministero della giustizia non abbia mai fatto ricorso alle cosiddette “circolari interpretative” delle norme che i magistrati ordinari sono chiamati ad applicare, mentre il Ministero delle finanze (e poi l’Agenzia delle entrate che ne rappresenta il braccio operativo) ha sempre tradizionalmente preteso di “gestire” anche l’applicazione delle fonti primarie e delle stesse fonti secondarie (regolamenti) che esso stesso emana, attraverso la continua pubblicazione di proprie “circolari” che spiegano come le norme che gli stessi apparati hanno predisposto e fatto approvare dal Parlamento debbano essere interpretate ed applicate.

Si consideri che oggi la modulistica per la compilazione delle dichiarazioni delle imposte sul reddito recano quasi duecento pagine a doppia colonna di “Istruzioni”, che sarebbe necessario aver letto prima di potersi accingere alla compilazione; inoltre, nel corso dell’anno, l’Agenzia delle Entrate emana in media una ottantina di “circolari che leggono solo gli addetti ai lavori (con grave difficoltà oltretutto, perché scritte con linguaggi criptici ed incomprensibili a qualsiasi persona che non abbia già in precedenza assimilato la contorta “forma mentis” e gli oscuri stilemi degli autori). Inoltre, considerato che le leggi sono di fatto scritte dagli stessi personaggi che poi ne dettano le interpretazioni applicative (funzionari del Ministero o del Gabinetto del ministro e delle Direzioni centrali dell’Agenzia), è possibile constatare un progressivo deterioramento della nostra legislazione fiscale, sempre più propensa all’uso di espressioni “lasche proprio per essere poi riempite e specificate con le cosiddette circolari interpretative, e talora caratterizzate persino dall’intento di non lasciar comprendere neanche ai parlamentari che dovranno approvarle la portata che a quelle espressioni si intende poi attribuire.

Ad esempio, tutti ricordano le norme con cui furono varate le “disposizioni” del Ministro Tremonti per agevolare i “nuovi investimenti” (espressione che più lasca non si può) , subito seguite da una “circolare” in cui si spiegava che anche l’acquisto di “diritti televisivi” doveva essere trattato alla stregua di un “nuovo investimento”, anche quando riguardassero films o telenovelas già trasmesse in Italia in base a licenza temporanea di copyright. Tutti ricordano che vi fu poi una impresa che fece nuovi investimenti in “diritti televisivi” ottenendo le conseguenti agevolazioni, investimenti che alcuni anni dopo, peraltro, furono dichiarati non solo non “nuovi”, ma anche eseguiti a prezzi gonfiati, perché il venditore “off shore” era risultato riconducibile allo stesso acquirente italiano, desideroso di gonfiare così anche le successive quote di ammortamento.

È noto che le cosiddette “circolari” non sono affatto neutrali rispetto al merito del prelievo fiscale e delle relative controversie. E d’altronde, se le “circolari” fossero davvero quegli strumenti neutrali e non vincolanti, come la dottrina e la giurisprudenza affermano , e se esse non influenzassero invece spesso in modo decisivo, non solo singoli orientamenti, ma addirittura la stessa cultura esasperatamente “casistica ed asistematica” dei tributaristi e dei loro giudici specializzati, non si spiegherebbe perché mai la pubblicazione delle circolari, e dei commenti fatti da autori che utilizzano le circolari come fonti di interpretazione, siano molto ricercate tra i fiscalisti, i quali impiegano una altissima percentuale del loro tempo a leggerle ed a studiarle, né perché, quando interrogati sulla portata di una nuova legge, spesso rispondano dicendo che «... l’Agenzia non ne ha ancora chiarito la portata» e che, di conseguenza, occorra attendere ancora un po’ per avere una plausibile indicazione.

Va osservato inoltre che, un tempo, l’uso delle “circolari” e della loro “pubblicazione” era giustificato dal fatto che, non certo i giudici, ma gli uffici si ritenevano obbligati dalla loro stessa subordinazione gerarchica all’osservanza dei canoni di interpretazione applicativa enunciati.Si trattava cioè – almeno teoricamente – di un mezzo di “indirizzo e coordinamento” dell’azione accertatrice e delle tesi difensive che gli uffici avrebbero poi dovuto sostenere davanti alle Commissioni. Sennonché un primo colpo a questa giustificazione teorica delle circolari fu portato ben presto dal combinato disposto dell’art. 28 della Costituzione e dell’art. 17 del dPR n. 3/1957(recante lo «statuto degli impiegati civili dello Stato»).

La prima norma, come noto, dispone che «i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli Enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili ed amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità si estende allo Stato ed agli enti pubblici». La seconda norma, tuttora vigente, dispone però che il funzionario cui venga richiesto di compiere un atto che egli ritenga illegittimo, debba farne motivatamente rimostranza al superiore che glielo ordina, e compierlo soltanto dopo che questi gli abbia nuovamente ordinato di darvi esecuzione (a meno che non si tratti di un reato, nel qual caso deve invece rifiutarsi comunque): in tal caso la diretta responsabilità di cui all’art. 28 della Costituzione ricade non sull’autore dell’atto, bensì sul superiore gerarchico che gliene ha ordinato l’esecuzione, nonostante la rimostranza di legittimità formulata dall’impiegato di rango inferiore.

Questa disciplina fece sì che, nei primi decenni successivi all’entrata in vigore della Costituzione (quello del 1957 era un Testo unico e le sue norme preesistevano alla sua emanazione) molte circolari venissero considerate illegittime dai dirigenti degli uffici periferici (a volte anche sulla base di pareri richiesti alle Avvocature distrettuali dello Stato), sia nei casi in cui comandassero accertamenti giudicati vessatori, o lesivi di diritti soggettivi , sia nei casi in cui comandassero invece di astenersi da accertamenti giudicati possibili e legittimi. Gli alti dirigenti periferici dello Stato, e quelli dei Comuni e delle Province, avevano tutti nel loro ufficio una cassaforte, spesso stracolma, in cui conservavano gli ordini di esecuzione di atti da loro considerati illegittimi, onde servirsene qualora fosse emersa l’illegittimità di quel loro atto. Con il trascorrere del tempo però i dirigenti centrali dello Stato si resero conto che ciò minava alla radice la loro credibilità come gestori dell’uniformità applicativa delle leggi, aspetto tanto più grave in quanto (come sovente accadeva) le circolari erano frutto di accordi raggiunti con organizzazioni centrali delle imprese (l’Assonime aveva due bravissimi fiscalisti, De Angelis e Cecamore, che trattavano i contenuti delle circolari, l’uno per le imposte dirette e l’altro per le indirette), accordi che entravano in totale crisi di attendibilità ovviamente quando il loro contenuto si rivelasse esposto ad un possibile rigetto da parte della burocrazia periferica del Ministero.

 

La reazione fu duplice: da un canto, si limitò sensibilmente la responsabilità dei funzionari, circoscrivendola per legge ai soli casi di dolo e colpa grave, e dall’altro canto si cominciò a colpire con trasferimenti indesiderati i dirigenti che più spesso dissentivano dagli indirizzi delle circolari, formulando rimostranze ed esigendo l’ordine scritto. Il risultato fu che la norma costituzionale rimase totalmente inattuata e che le circolari ripresero gradualmente tutta la loro capacità di uniformazione delle condotte amministrative, ed al contempo tutta la loro potenziale carica di creazione ed alimentazione delle culture o sottoculture di applicazione “burocratica” del diritto. Oggi sembra che nessuno ricordi più l’art. 17 dello “statuto” degli impiegati civili dello Stato, che pur risulta tuttora in vigore, e non si ha notizia alcuna del fatto che un dirigente della periferia possa, anche solo incidentalmente, chiedere alla dirigenza centrale di voler assumere direttamente la responsabilità dei propri indirizzi applicativi, per quanto illegittimi e inattendibili essi possano apparire. E d’altronde non vi sono quasi più cittadini che ricordino bene la propria Costituzione e che siano sfiorati dall’idea che l’art. 28 possa essere invocato nella loro quotidiana sottomissione alle prevaricazione degli apparati burocratici Gli impiegati non sono più «al servizio esclusivo della Nazione» (art.98), ma al servizio esclusivo del loro capo ufficio, che è a sua volta al servizio esclusivo del dirigente romano che ve lo ha insediato, il quale è al servizio del suo Direttore o a quello del suo Ministro.

Si noti infine che – se si interpreta la VI disposizione transitoria nel senso che l’eccezione riferita alla Corte dei Conti ed al Consiglio di Stato riguarda solo il termine quinquennale entro cui la revisione dovesse essere fatta, ma non la necessità che una revisione fosse comunque fatta, anche dopo il termine quinquennale transitoriamente indicato – la necessità di una revisione dovrebbe riguardare non solo le Commissioni tributarie, ma anche il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti che, a quasi settanta anni dall’entrata in vigore della Costituzione, continuano ad essere “organizzati dalla Presidenza del consiglio, e non dal Ministro della giustizia, anche per le loro funzioni di carattere giurisdizionale, con l’aggravante per giunta di avere una parte di magistrati nominati direttamente dal Presidente del consiglio e non per aver vinto un concorso, come la Costituzione imporrebbe per tutti i magistrati (art. 106).

4. Il divieto di prova testimoniale e la giurisdizione “dopolavoristica”

Uno degli aspetti più spinosi dell’attuale disciplina del processo tributario è certamente costituito dalla grave amputazione che esso riceve dalla conservazione del divieto di prova testimoniale (art. 7 d.Lgs n. 546/1992), divieto che poteva essere accettato nella fase storica in cui il processo davanti alle Commissioni era considerato amministrativo, perché le parti avevano poi il diritto di adire il Tribunale ordinario, dinanzi al quale disponevano di ogni mezzo di prova dell’ordinario processo civile, ma che non può certamente essere accettato, una volta che l’accesso alla giurisdizione ordinaria sia stata preclusa (avendo abolito pure la facoltà di adire la Corte d’appello, in alternativa alla Commissione centrale, originariamente prevista dal dPR n. 636/1972).

Praticamente si è voluto che un processo il quale può scaturire, e sovente realmente scaturisce, da alcuni “fatti”, sia ridotto ad un processo di mero diritto ed in cui invece non si può mai contrastare, con gli ordinari mezzi di prova, la versione che dei “fatti offrono gli Uffici accertatori o la Guardia di finanza nei loro verbali, dove tuttavia sono spessissimo riportate dichiarazioni di persone che equivalgono a vere e proprie testimonianze, non suscettibili di essere contrastate con un controinterrogatorio delle stesse persone o con la prova testimoniale di altre. Si è escluso persino l’interrogatorio del funzionario che ha redatto l’accertamento impugnato o degli autori dei “verbali di constatazione”, così che si può tranquillamente affermare che nel processo tributario “i fatti” non si discutono e non si possono discutere, ed anzi sono per definizione quelli che risultano dalle carte dell’Agenzia o della Guardia di finanza, il che è palesemente inaccettabile alla luce dell’art. 6 della Cedu e dello stesso art. 111 della Costituzione.

Vi è inoltre un aspetto davvero inquietante in questo divieto di discutere dei fatti. Esso scaturisce dall’art. 2729 cc.Si tratta della norma che disciplina le «presunzioni semplici», esigendo che esse non possano essere ammesse se non quando siano «gravi, precise e concordanti». La disposizione ha però anche un secondo comma il quale recita: «Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova testimoniale».La ragione è del tutto evidente: dal momento che le presunzioni si basano sull’id quod plerumque accidit, non è possibile applicarle se il soggetto a danno del quale sono ammesse non può provare per testimoni che, nel suo caso, i fatti si sono concretamente allontanati da quello che accade “mediamente” in casi simili. Cioè non puoi provare un fatto in base alla “media” degli accadimenti similari se non ammetti anche che sia provata con testimoni l’”eccezione”.

Orbene, nel diritto tributario abbiamo un uso sfrenato delle presunzioni semplici, talora espressamente previste dalla legge ( ad esempio, art. 37 terzo comma del dPR n. 600/1973) pur essendo poi vietata nel processo la prova testimoniale. E la cosa più straordinaria è che la cosa viene considerata spesso del tutto normale dai difensori, i quali, al massimo, arrivano a contestare il carattere grave, preciso e concordante della singola presunzione, ma non sono di solito neanche sfiorati dall’idea che vi sia una gravissima ed insanabile contraddizione tra il fatto di ammettere prove presuntive, vietando però quella testimoniale.

Tutto ciò ha naturalmente le sue cause precise che risiedono essenzialmente in alcune circostanze cui si è già fatto cenno. Per un verso nel fatto che la materia tributaria - esigendo una conoscenza approfondita della contabilità aziendale e dei principi che la governano - è stata vilmente trascurata dalla cultura giuridica degli avvocati, finendo così per diventare dominata dai commercialisti, i quali a loro volta non amano e non coltivano le scienze giuridiche, non conoscono il diritto costituzionale e non hanno mai pensato di dover interrogare o controinterrogare un testimone nella loro vita. Per altro verso, inoltre, il carattere assai approssimativo dell’accertamento dei fatti nel processo tributario è stato abilmente favorito dal legislatore ministeriale delle leggi tributarie, il quale ha inventato ed accreditato come normaleuna giurisdizione di carattere – per dir così – sistematicamente “dopolavoristico”, dove il sistema retributivo del magistrato giudicante dia assolutamente per scontato che non possa certo pretendersi da lui che debba anche perder tempo a sentire testimoni ed assistere agli interrogatori dei funzionari o militari che hanno redatto i verbali di constatazione.

Ma naturalmente il divieto di prove orali non cessa perciò di essere palesemente contrario all’art. 6 della Cedu e pertanto incostituzionale ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, violazione che è poi tanto più grave quando si consideri che in quel processo non ci si limita a decidere soltanto sui tributi, ma si decide anche sulle connesse sanzioni chiamate “amministrative”, ma che peraltro, nella maggior parte dei casi, sono invece da considerare “penali” secondo il criterio sostanzialistico del diritto comunitario, ed a dispetto del criterio puramente nominalistico adottato in Italia, il che rende tale criterio anch’esso incostituzionale ai sensi della predetta norma. Sta di fatto che la maggior parte delle sanzioni fiscali corrispondano – secondo il criterio di ragguaglio delle pene pecuniarie alle pene detentive di cui all’art. 134 cp – quasi sempre ad anni ed anni di reclusione quando non addirittura ad un ergastolo o ad un cumulo di ergastoli, essendosi indotto il legislatore a moltiplicare ed inasprire sempre più le sanzioni, piuttosto che il tributo, perché le prime non si calcolano ai fini della determinazione della pressione fiscale (determinata dalla percentuale delle entrate fiscali, sanzioni escluse quindi, sul Pil) riducendo così anche le sanzioni a meri coefficienti di moltiplicazione delle entrate tributarie, e che lasciano però immutata la misura statistica della pressione fiscale, più che a misure afflittive.

5. La amputazione più grave: la struttura del processo come processo di annullamento di “atti impositivi”

Una questione di fondamentale importanza riguarda infine un’altra amputazione del processo tributario: in esso non è ammessa l’azione di accertamento e quindi nemmeno quella di accertamento negativo, perché esso è disciplinato in modo da poter essere introdotto soltanto come impugnazione di atti dell’amministrazione indicati tassativamente dall’art. 19 del d.lgs n. 546/1992, così che – ad esempio – il contribuente non può contrastare gli atti diversi da quelli elencati, ancorché essi rechino l’elencazione di pretese fiscali argomentate e motivate (come nei verbali di constatazione ad esempio), finché l’ufficio competente non decida di farle valere con atti di accertamento, il che può accadere o non accadere entro un termine lunghissimo di tempo, costringendo così il contribuente a vivere obbligatoriamente nell’incertezza giuridica circa la fondatezza o infondatezza di quelle pretese per molti anni, incertezza che spesso ridonda in forme di grave pregiudizio (ai fini, ad esempio, dei propri affidamenti bancari e della appostazione dei fondi rischi in bilancio ecc. ecc.) e che il contribuente non può assumere l’iniziativa di far accertare come esistenti o inesistenti fino a tanto che l’Ufficio non decida di far valere o di lasciare decadere le medesime pretese. Vi sono verbali, o anche semplici circolari, che pregiudicano gli interessi di intere categorie di contribuenti i quali tuttavia non possono fare a meno di sentirsi minacciati dal loro contenuto, che li assume come attuali o come futuri debitori del fisco per motivi che essi considerano invece infondati giuridicamente.

Orbene, in tali occasioni il pregiudizio è autonomamente determinato dalla situazione di incertezza che una interpretazione bislacca o infondata della legge (nella circolare) o dei fatti (nel verbale di constatazione) arreca al cittadino e dalla circostanza che egli non può assumere alcuna iniziativa idonea a far accertare da un giudice la fondatezza o l’infondatezza di questi atti, eliminando in tal modo l’incertezza, ma può soltanto aspettare gli anni (spesso quattro o cinque addirittura) che occorrono all’ufficio per decidere se far valere o non far valere quelle pretese, se modificare o non modificare quell’interpretazione applicativa della legge.

Ora, come dicono i giocatori di scacchi, spesso una duratura “minaccia” reca un nocumento assai maggiore di quanto non recherebbe una sua immediata “esecuzione” (E. Lasker, secondo campione del mondo) perché la perdurante incertezza su quale sia la soluzione della questione può essere, a volte, persino peggiore della più infausta delle soluzioni possibili .Quando i processi tributari potevano continuare, oppure direttamente saltare, davanti al Tribunale ordinario, l’azione di accertamento negativo era ammessa: bastava semplicemente avere un interesse (ex art. 100 cpc) a che una pretesa del fisco, anche se informalmente vantatada un ufficio in una lettera (diretta o circolare che fosse) o in un processo verbale di constatazione, fosse dichiarata infondata, per assumere l’iniziativa di farla accertare come illegittima o insussistente. Se poi l’ufficio intendeva coltivarla con un accertamento entro i termini di decadenza, si riunivano i due processi, ma il contribuente non era costretto a vivere indefinitamente nell’incertezza.

Non si capisce perché mai un ipotetico creditore debba costringere tutti gli ipotetici debitori a vivere nell’incertezza per anni, prima di decidere se intende far valere o non far valere il suo credito, né perché mai l’ipotetico debitore fiscale debba essere privato dell’azione di “accertamento negativo” della quale qualsiasi altro soggetto, indicato come debitore da qualsiasi altro ipotetico creditore, dispone. Non esiste infatti nessuna ragione giuridica di natura sostanziale o processuale per questa amputazione del processo tributario, che è un processo di diritti e non di mero controllo del corretto uso di poteri discrezionali da parte della Pa: vi è solo il desiderio dell’ente impositore di non essere prevenuto nella decisione di portare all’attenzione di una autorità giurisdizionale determinate questioni, e, sopratutto, il desiderio del Governo di evitare nel modo più drastico che ogni cittadino possa parlare in giudizio di qualsiasi altra cosa che non siano le sole sue proprie tasse, senza poter mettere in discussione il sistema normativo di prelievo nel suo insieme, benché, l’entità e la misura del prelievo effettuato su di lui sia palesemente funzione del prelievo effettuato su tutti gli altri, e quindi, funzione proprio del sistema normativo di prelievo nel suo complesso. Ciò peraltro appare in palese contrasto con l’art. 24 della Costituzioneche assicura ad ogni cittadino che si ritenga leso in un suo diritto, quale che sia l’origine di tale lesione, la possibilità di agire in giudizio per il ristoro pieno del suo diritto. Ma tutto ciò sarà più chiaro fra poco.

6. Il “trade off” tra la progressività sul prelievo o sul costo dei servizi

Come noto, al fine di poter realizzare gli scopi indicati nel secondo comma dell’art. 3 della Costituzione («... rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale...») è stato previsto che il prelievo fiscaleavvenga a carico dei cittadini tutti «in ragione della loro capacità contributiva» e che il sistema fiscale nel suo complesso sia «informato a criteri di progressività» (art. 53). Ora questo precetto, volto alla realizzazione di quegli scopi, era stato effettivamente e puntigliosamente perseguito nei primi anni della Repubblica, ad opera di un grande ed importante Ministro delle finanze della nostra storia repubblicana, il valtellinese Ezio Vanoni, che lo aveva d’altronde preconizzato sin dal novembre del 1943, nel famoso Codice di Camaldoli, insieme all’altro economista cattolico, anch’egli valtellinese, Pasquale Saraceno. Nella parte economica di quel codice si ritrova infatti in nuce non solo l’art. 53 della nostra Costituzione, ma tutta la legislazione tributaria degli anni cinquanta sfociata poi nel Tu delle imposte sul reddito del 1958.Infatti se si va a prendere quella legislazione si vede che essa era tutta imperniata su due grandi principichiamati a concorrere per la realizzazione della finalità di cui all’art. 3: quello della discriminazione qualitativa dei redditie quello della discriminazione quantitativa dei redditi.

Vi era innanzitutto il calcolo di una imposta (R.M.) con aliquota proporzionale, ma diversa e decrescentea seconda che si trattasse di redditi di solo capitale (cat. A), oppure di capitale e lavoro, cioè d’impresa (cat. B), di lavoro autonomo (cat. C1) o di lavoro subordinato (cat. C2). Questa prima voce del prelievo serviva appunto alla discriminazione qualitativa del reddito, diversificando l’onere impositivo a seconda della fonte che lo aveva prodotto. Poi lo stesso reddito veniva sottoposto invece ad una discriminazione quantitativa, ai fini del calcolo della imposta complementare progressiva sul reddito. Vi era a tal fine una tabella allegata alla legge con una serie continua e crescente di scaglioni di reddito cui corrispondevano altrettante aliquote assai basse sui redditi più modesti e poi progressivamente più elevate.

Ad esempio, l’aliquota più bassa (appena fuori della “no tax area”) era del 2% che saliva progressivamente fino a quella del 50% prevista per un reddito pari a Lit. 500 milioni (oggi corrispondenti, in potere d’acquisto, secondo l’Istat, ad Euro 6.857.000,00). L’imposta progressiva personale sul reddito era dunque pari all’importo corrispondente alla propria aliquota, detratta l’imposta proporzionale, (R.M.) prima calcolata, corrisposta a parte e diversificata a seconda della fonte.

Un esame di quelle aliquote, paragonate all’Irpef che oggi sarebbe dovuta sugli stessi scaglioni di reddito (aggiornati con l’indice “Istat-Rivaluta” al valore odierno traducendo i valori al 31.12.1958 in quelli al 31.12.2014) è estremamente significativo: si riscontra infatti, nel cinquantennio che corre dal 1958 ad oggi, un sensibile e fortissimo aumento del prelievo sui redditi più bassi e medi a fronte di una flessione altrettanto sensibile del prelievo sui redditi via via più alti. Vediamo degli esempi considerando vari livelli reddituali.

A. Un reddito di Lit. 2.000.000 era tassato (al lordo dell’imposta proporzionale) con l’aliquota del 4,12% scontando un tributo di Lit. 82.400: oggi un reddito equivalente in termini di potere d’acquisto sarebbe pari ad Euro 27.431,09 e sconterebbe con le aliquote “Vanoni” un’imposta di Euro 1.130, 15mentre oggi in realtà sconta un’Irpef del 27% pari ad Euro 6.806,00, più elevata di sei voltequella che il fisco avrebbe percetto nel 1958;

B. un reddito di Lit .4.000.000 era tassato (al lordo dell’imposta proporzionale) con l’aliquota del 5,46% scontando un tributo di Lit. 218.400: oggi un reddito equivalente in termini di potere d’acquisto sarebbe pari ad Euro 54.682,18e sconterebbe con le aliquote “Vanoni” un’imposta di Euro 2.985,60, mentre oggi in realtà sconta un’Irpef del 38%pari ad Euro 20.779,20, più elevata di sette voltequella del 1958;

C. un reddito di Lit. 10.000.000 era tassato (al lordo dell’imposta proporzionale) con l’aliquota dell’8,11% scontando un tributo di Lit 811.000: oggi un reddito equivalente in termini di potere d’acquisto sarebbe pari ad Euro 137.155,46 e sconterebbe con le aliquote “Vanoni” un’imposta di Euro 11.123,30, mentre oggi in realtà sconta un’Irpef del 43% pari ad Euro 58.976,80 più elevata di almeno cinque voltequella del 1958;

D. un reddito di Lit. 20.000.000 era tassato (al lordo dell’imposta proporzionale) con l’aliquota dell’11,08%, scontando un tributo pari a Lit. 2.206.000: oggi un reddito equivalente in termini di potere d’acquisto sarebbe pari ad Euro 274.310,92e sconterebbe con le aliquote Vanoni un’imposta pari ad Euro 30.393, 55, mentre oggi in realtà sconta un’Irpef del 43% pari ad Euro 117.953,70 più elevata di circa tre volte quella del 1958.

Come si vede il prelievo è andato sempre aumentando nell’ultimo cinquantennio per i redditi più bassi e per quelli di media entità e dimensione. Per trovare uno scaglione per il quale il prelievo del 1958 sia più elevato di quello odierno bisogna arrivare agli scaglioni di reddito intorno a Lit. 400.000.000, equivalente, in termini di potere d’acquisto, ad Euro 5.486.218,00 (cioè ad un reddito certamente riservato a pochissime persone) che era allora tassato con l’aliquota del 45,04% ed oggi è invece tassato con il 43%, che rappresenta la massima aliquota odierna, mentre nel 1958 l’aliquota più elevata era quella del 50% riservata ai redditi pari o superiori a Lit. 500.000.000,00 equivalente in termini di potere d’acquisto ad Euro 6.857.772,00 oggi invece tassata con l’aliquota assai inferiore del 43%.

La conclusione, che appare chiarissima da questo esame, è che il prelievo sui ceti poveri e sul ceto medio è andato sempre aumentando fino a raggiungere livelli inaccettabili, mentre quella sui ceti più ricchi è andata progressivamente scemando, e che pertanto non è vero che vi sia un problema genericamente definito come di eccessiva pressione fiscale che deve essere affrontato diminuendo genericamente ilpeso delle tasse, come ama dire il nostro Presidente del consiglio, ma un problema di aumentare le imposte a carico dei ceti ricchi e medio alti per abbassare il prelievo sui ceti più poveri e su quelli medio bassi. Il problema, come si vede, è “strutturalmente diverso” da quello che vanno propagandando i nostri politici. Si tratta di una delle tante dichiarazioni che sono in realtà delle autentiche forme di pubblicità ingannevole a mio avviso.

Vediamo ora quali sono stati gli effettidel processo che abbiamo appena descritto. Benché la scienza delle Finanze non abbia mai studiato i benefici effetti della progressività, se non essenzialmente sul fronte del prelievo, e benché la nostra Costituzione non la contempli, se non nell’art. 53 e quindi sul fronte delle entrate, il nostro ceto politico si è sovente trovato a dover finanziare il costo di alcuni servizi essenziali e costituzionalmente imposti da altre disposizioni costituzionali: ad esempio, il diritto alla salute e cioè la sanità, il diritto all’istruzione e cioè la scuola ecc... ciò che imponeva il reperimento di risorse che non c’erano, anche a causa del progressivo abbandono del sistema fiscale creato dal Ministro Vanoni e della libera circolazione dei capitali (che hanno il vizio di recarsi dove vengono tassati di meno e dove sono remunerati di più).

Allora – pur di non dover tornare ai sistemi fortemente progressivi del Ministro Vanoni sul fronte del prelievo – hanno inventato un marchingegno che non dovrebbe esistere nel prelievo delle imposte e che è studiato come un problema totalmente diverso nella scienza delle finanze: hanno cioè cominciato, e poi proseguito, a praticare la progressività, anziché sul fronte del prelievo, sul fronte del costo dei servizi. Hanno cioè inventato il “ticket” che i più ricchi o i meno poveri devono pagare quando si ammalano e chiedono di essere curati, oppure quando i loro figli vanno all’Università, oppure quando chiedono di poter usufruire di un qualsiasi altro servizio che– a prelievo fiscale progressivo realmente efficiente ed efficace – dovrebbe essere istituzionalmente gratuito per tutti ovvero avere un costo indifferenziato per tutti.

Sennonché il nostro ceto politico, come ogni ceto politico che opera in uno Stato democratico, ha bisogno del consenso periodico degli elettori ed ha scoperto – per il tramite dei grandi specialisti della “persuasione occulta” o del “marketing politico” – che il peso delle imposte pagate ogni anno è avvertito dal cittadino medio come più gravoso di un prelievo da pagare quando ci si ammala o quando i figli vanno all’università, anche perché, grazie a Dio, le persone che sono sane sono molte di più dei malati, tutti sperano di non ammalarsi mai, ed i figli all’Università durano normalmente quattro o cinque anni, non tutti gli anni fino alla morte. Ecco che allora hanno mostrato una fortissima propensione a preferire di far gravare il costo dei servizi pubblici essenziali, almeno tendenzialmente, su chi ne usufruisce piuttosto che sulla “fiscalità generale”, sostituendo gradualmente la progressività sul fronte dell’entrata, quella cioè prevista in Costituzione e teorizzata da tutti i cultori di scienza delle finanze, ad una progressività sul fronte della spesa, quella cioè che tende a recuperare almeno parte del costo del servizio a carico di chi ne usufruisce, in parte più elevata per gli utenti fiscalmente più ricchi e meno elevata per quelli fiscalmente meno ricchi, riservando la gratuità soltanto ai ceti poverissimi. Sennonché non è questo, in alcun modo, un uso corretto della progressività del sistema fiscale che la Costituzione preconizza e che tuttora prevede allo scopo di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3).

La ragione è intuitiva. In realtà il “ticket” non è affatto una forma di discriminazione tra ricchi e poveri in funzione di scopi redistributivi della ricchezza, ma tra i cittadini (ricchi o poveri) che si ammalano e quelli (ricchi o poveri) che sono sani, e più in generale, realizzano una progressività in funzione della diffusione della morbilità tra i ceti sociali e non in funzione della loro ricchezza; oppure tra i ricchi che mandano i figli all’Università e quelli che li mandano a studiare all’estero o li avviano subito alla gestione d’impresa. La progressività sul fronte della spesa pubblica è totalmente illogica ed irrazionale perché affida alla casualità della composizione dell’utenza un effetto redistributivo che può realizzarsi solo praticandola sul fronte dell’entrata e del prelievo fiscale (e che può anche rivelarsi pari a zero nella misura in cui il costo burocratico del ticket eguaglia o supera il suo gettito).

Sarebbero a rigore pertanto da considerare costituzionalmente illegittime – per violazione dell’art. 53 della Costituzione – tutte le disposizioni che fanno dipendere, sia pur solo in parte, il costo di un servizio pubblico essenziale – quali certamente sono la sanità, la scuola e la giustizia – dal reddito fiscale dell’utente, con l’ulteriore biasimevole effetto di andare a costituire un ulteriore premio per chi, avendo impunemente evaso in una certa misura l’onere tributario, ottiene anche un servizio pubblico in modo meno oneroso del contribuente fedele.

Un ultima notazione: ora è certamente più chiara e più evidente la ragione per cui si è voluto amputare il processo tributario dell’“azione di accertamento”e perché si è voluto strutturare questo processo in modo tale che non possa mai avere ad oggetto se non un tributo effettivamente reclamato dal fisco nei confronti di un singolo contribuente e, comunque, non possa mai occuparsi se non della fiscalità del singolo ricorrente, ed invece mai della legittimità del sistema fiscale nel suo complesso o di alcune sue sezioni suscettibili di essere unitariamente considerate.La politica non ama che le pecche del sistema che essa ha voluto imporre ai governati siano messe in discussione dal potere giurisdizionale e, possibilmente, neanche quando esse riguardano i vincoli costituzionali entro i quali soltanto essa dovrebbe poter compiere le sue scelte. Ora, inoltre, la ragione per la quale si è detto che sia costituzionalmente illegittima l’amputazione del processo tributario dall’azione di accertamento, appare forse in modo assai più chiaro ed evidente.