Magistratura democratica

Editoriale

di Renato Rordorf

Il tema delle disuguaglianze, al quale è dedicata la prima parte di questo numero della Rivista, è stato al centro del XXI Congresso nazionale di Magistratura democratica che ha avuto luogo a Bologna lo scorso anno. Gli articoli qui di seguito pubblicati ripropongono ed integrano il contenuto delle relazioni tenute in quell’occasione; relazioni che – come ben sottolinea Carlo De Chiara nella sua introduzione – non provengono solo da giuristi ma spaziano anche in ambito economico, sociologico e politologico.

La parola «disuguaglianze» è stata adoperata al plurale, e credo sia giusto. Certo, l’uguaglianza esprime un valore fondante della civiltà, unitariamente riferibile alla persona umana in sé. Vi si radica la stessa dignità della persona la cui vita dovrebbe perciò esserne permeata in ogni aspetto relazionale. È proprio sul riconoscimento di questo valore che siamo soliti misurare la distanza (talvolta, ahimè, più teorica che reale) tra le società moderne e quelle che la hanno preceduta, in cui la condizione di schiavitù o anche solo la rigida distinzione in classi e ceti sociali diversi erano considerate un modo di essere normale delle relazioni umane. Se però si guarda alla concreta dinamica del vivere sociale, non si tarda a comprendere come ancora oggi, nel quotidiano, uguaglianze e disuguaglianze possano manifestarsi in forme e modi assai diversificati, a seconda delle situazioni prese in esame, del contesto in cui ci si colloca e dei termini di riferimento che si adoperano. Così, ad esempio, all’uguaglianza dei diritti politici, che si esprime nel suffragio universale, non corrisponde affatto l’uguaglianza economica dei cittadini, né il diritto di ciascuno all’istruzione basta davvero a garantire uguali possibilità di acquisizione culturale per coloro che si collocano su gradini diversi della scala sociale e non dispongono di eguali mezzi economici, ed altrettanto potrebbe dirsi per molti altri aspetti. Il fondamentale dettato dell’art. 3, secondo comma, della Costituzione, che impone alla Repubblica di adoperarsi per eliminare gli ostacoli che limitano di fatto l’uguaglianza dei cittadini, sottintende la pluralità di quegli ostacoli, cui corrispondono altrettante potenziali situazioni di disuguaglianza alla cui rimozione l’intera comunità nazionale, vincolata al patto costituzionale, dovrebbe aspirare e concretamente concorrere: perché l’uguaglianza – tornandone ancora per un momento a parlare in termini unitari – è una delle precondizioni indispensabili al riconoscimento reciproco dei componenti della società, e quindi al mantenimento di quel rapporto di fiducia che è alla base del vivere sociale e sul quale le stesse istituzioni democratiche si fondano. Ed è proprio per questo che la crescente tendenza del mondo occidentale a favorire invece modelli di mercato tendenzialmente più idonei ad avvantaggiare un numero limitato di persone che non a garantire un’ampia ed equa distribuzione delle ricchezze costituisce – come da tempo non si stanca di avvertire Joseph Stiglitz (si veda, tra gli altri scritti, il suo libro Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi, 2013) – una reale minaccia per le democrazie. É sotto gli occhi di tutti come il dilagare delle logiche di mercato, che nell’intero mondo occidentale ed anche nei Paesi di più antica e consolidata democrazia sembrano sempre più sfuggire ad ogni reale possibilità di controllo da parte delle istituzioni politiche, abbia comportato negli ultimi decenni un forte aumento delle disuguaglianze accrescendo in misura impressionante il divario tra ricchi e poveri. Divario che interessa intere aree del pianeta e concorre a generare quegli imponenti fenomeni migratori che rischiano a loro volta di provocare guerre tra poveri e perciò di mettere ulteriormente in crisi le democrazie occidentali.

Ai diversi profili, anche economici, sociali e politici, sotto i quali il tema delle disuguaglianze può esser declinato sono dedicati alcuni degli scritti pubblicati. È però evidente, in considerazione dell’area di interesse proprio di Questione giustizia, che debba darsi qui una particolare attenzione alle ricadute che le situazioni di disuguaglianza provocano sul piano dei diritti e sul terreno della giurisdizione, muovendo dal rilievo che la mera uguaglianza formale di fronte alla legge può rivelarsi fonte di ancor più marcate disuguaglianze sostanziali ove si trascuri la diversità delle condizioni in cui ciascuno alla legge si accosta. Acutamente Gustavo Zagrebelsky (Diritti per forza, Einaudi 2017, p. 19) osserva che i diritti dei potenti possono talora risolversi in prepotenza sugli impotenti e che «nelle società diseguali, i discorsi sui diritti sono ambigui poiché possono giustificare tanto le pretese oligarchiche quanto le aspirazioni democratiche, cioè la concentrazione o la diffusione del potere sociale e politico». È fin troppo ovvio che a garantire davvero l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, come la Costituzione richiede, non basta certo enunciarlo nelle aule di giustizia a lettere cubitali.

Andrebbe sempre anzitutto ricordato che, se le istituzioni destinate a fornire un servizio pubblico funzionano male, è l’intera società a soffrirne ma la sofferenza non si distribuisce in modo uniforme. In tutti i campi, dalla sanità, alla scuola, ai trasporti, il mal funzionamento dei servizi pesa soprattutto sui più deboli, che sono economicamente e culturalmente meno attrezzati a sopportarne le conseguenze, né hanno la possibilità di ovviarvi soddisfacendo altrimenti le loro esigenze. E le cose stanno esattamente così anche per quel che riguarda il servizio giustizia (sia in ambito penale sia in quello civile) le cui inefficienze si riflettono soprattutto sui soggetti meno protetti. Se è vero che la garanzia di poter ottenere la tutela dei propri diritti è una delle condizioni essenziali per realizzare l’uguaglianza tra i cittadini, l’inefficienza del sistema cui quella garanzia è affidata necessariamente rischia di pregiudicare l’uguaglianza. E poiché l’obiettivo di assicurare condizioni di uguaglianza – non solo formale, bensì sostanziale – dovrebbe potersi realizzare anche e soprattutto attraverso l’esercizio della giurisdizione, è chiaro che il cattivo funzionamento di questa compromette il perseguimento di quell’obiettivo. È intuitivo, ad esempio, che i tempi lunghi di una giustizia troppo lenta possono essere sopportati meglio da soggetti abbienti che da chi si trova in ristrettezze economiche, e che l’eccessiva imprevedibilità degli esiti del giudizio comporta per le parti l’assunzione di un rischio che solo i più attrezzati si possono permettere. Per di più, in campo civile, il ricorso a rimedi alternativi di risoluzione delle controversie, pur indispensabile per fronteggiare un incremento della domanda di giustizia largamente eccedente le risorse della giurisdizione pubblica, rischia ulteriormente di accentuare le disuguaglianze, nella misura in cui spesso solo le forme arbitrali più costose si rivelano davvero efficienti.

Perciò, è vero che la maggiore o minore efficienza della giurisdizione dipende da una molteplicità di fattori, i quali in parte trascendono la buona volontà dei singoli operatori, ma i giudici, se davvero sensibili ai valori dell’uguaglianza, non possono non avvertire come loro dovere morale, oltre che di fedeltà ai principi costituzionali, quello d‘impegnarsi a fondo non solo nello scrivere “belle” sentenze, ma anche nel lavorare insieme per far sì che la macchina giudiziaria nel suo complesso funzioni meglio.

Ovviamente la sensibilità del giudice al valore dell’uguaglianza sostanziale, oltre che in termini di maggiore efficienza, deve esprimersi anche nel modo stesso dell’esercizio della giurisdizione, a cominciare dall’attitudine ad interpretare ed applicare le disposizioni vigenti nella maniera il più possibile conforme a quel medesimo valore costituzionale dell’uguaglianza. Qui il discorso condurrebbe troppo lontano e potrebbe svilupparsi in molte direzioni, ma vorrei più specificamente accennare ad un solo aspetto, che mi appare forse meno scontato: quello del versante processuale civile, in cui si ripropone in termini non meno marcati che in altri il divario tra uguaglianza formale e sostanziale, tra la parità nominale delle parti e l’eventuale disuguaglianza della loro effettiva capacità di far valere le proprie ragioni nel giudizio. La concezione del processo come duello, o come gioco (secondo la nota immagine adoperata da Johan Huitzinga in Homo ludens, Einaudi, 1946, e poi da molti ripresa, sulla quale si sofferma da ultimo anche Bruno Cavallone nel suo delizioso libro La Borsa di Miss Flight, Adelphi, 2016), già di per sé contiene i germi di una possibile grave disuguaglianza: perché, se sono uguali le armi o gli strumenti da gioco, non sempre lo sono anche le forze e l’abilità tecnica dei duellanti o dei giocatori. E nel processo i protagonisti del confronto sono essenzialmente dei professionisti del diritto, sicché è ben naturale che la parte la quale può permettersi un avvocato migliore risulti avvantaggiata rispetto all’altra. In qualche misura questa è forse una conseguenza inevitabile della stessa struttura dialettica del processo civile, unitamente ai suoi caratteri spiccatamente tecnici, tuttavia vi sono modalità che possono accentuarla o ridurla. È mia impressione che il nostro sistema processuale, a dispetto delle ripetute invocazioni dello stesso legislatore alla semplificazione, sia tuttora eccessivamente complesso ed improntato a criteri alquanto formali. Ciò è frutto di una tradizione processualistica innegabilmente di alto lignaggio (da Chiovenda in poi), che però, forse più di quanto sia accaduto in altri Paesi dell’Europa continentale (per non parlare dei Paesi anglosassoni), ha prodotto un sistema di regole estremamente sofisticato, adatto magari ad un contesto storico e sociale in cui la giurisdizione era una risorsa a disposizione di un numero relativamente limitato di soggetti e se ne affidava l’esercizio ad un corpo di professionisti assai selezionato, ma che assai meno si concilia oggi con la moderna giustizia di massa e con il conseguente inevitabile abbassamento del livello medio di professionalità degli addetti ai lavori. D’altro canto, il principio del giusto processo come processo «regolato dalla legge», enunciato dal primo comma dell’art. 111 della Costituzione, è certamente un baluardo a difesa anche dell’uguaglianza formale di tutte le parti, alle quali devono essere assicurate le medesime garanzie che la legge prescrive in via generale ed astratta, ma se viene inteso come necessità che ogni passaggio processuale sia minuziosamente prefigurato dal legislatore, inevitabilmente moltiplica le difficoltà tecniche del processo ed accresce perciò il rischio di errori formali, i quali finiscono spesso per impedire che le parti ottengano la concreta risposta di giustizia cui ambivano. Il che da un lato colloca il processo su un piano vagamene esoterico, allontanando ancor più il giudice da ogni contatto diretto con le parti, e, dall’altro lato, accentua ulteriormente la rilevanza della professionalità dell’avvocato e quindi favorisce la parte in grado di procurarsi il difensore più abile.

Non intendo certo invocare una giustizia esercitata con modalità sommarie e tutta intrisa di criteri esclusivamente equitativi, e condivido le preoccupazioni di coloro i quali insistono sulla necessità che il giudice conduca il processo secondo regole chiaramente ben prestabilite, per evitare il rischio di soggettivismi e arbitri, ma mi pare si possano ragionevolmente auspicare modifiche processuali che, fermo un nucleo di norme legali davvero essenziali per garantire il contradditorio ed un adeguato spazio al diritto di difesa di ciascuna parte, consentano di modulare più liberamente l’andamento del processo a seconda delle esigenze del caso concreto. In questo quadro si dovrebbe ulteriormente riflettere sul ruolo del giudice e sui poteri che gli si vogliano concedere nell’arena processuale, anche e proprio al fine di riequilibrare l’eventuale disparità delle forze in campo: non certo per intaccare il suo dovere d’imparzialità, bensì al fine di realizzare al meglio il principio di uguaglianza (non astratto né formale) delle parti in lite. Non è senza significato che, quando in anni ormai lontani si avvertì il bisogno di dare più effettiva tutela ai lavoratori, parte debole nei processi che li opponevano ai datori di lavoro, fu concepito (col contributo tra gli altri di Pino Borrè) un rito processuale che attribuisce al giudice significativi poteri officiosi anche nell’individuazione dei mezzi di prova. E più volte Andrea Proto Pisani ha rilanciato la proposta di prendere il rito del lavoro a modello per una riforma dell’intero processo civile (ovviamente con gli adattamenti che i circa quarant’anni di esperienza suggeriscono ed in un quadro di proposte più complesso di quanto qui si possa riferire). Il cantiere delle riforme processuali è sempre aperto: mi sembra che quella proposta – o quanto meno lo spirito che la anima – meriti attenzione, appunto perché almeno potenzialmente in grado di offrire un antidoto all’eventuale disuguaglianza sostanziale delle parti in lite.

 

Se oggi ben pochi se la sentirebbero di sottoscrivere la celebre frase di Prudhomme secondo cui la proprietà è un furto, è innegabile che proprio in una certa accezione della proprietà privata («terribile diritto»), possano annidarsi molti germi di disuguaglianza tra gli uomini. Nel suo significato più tradizionale di ius excludendi omnes alios la proprietà privata segna evidentemente un confine invalicabile tra chi ha e chi non ha; può costituire un baluardo della libertà individuale, ma pone al tempo stesso storicamente le basi di gran parte delle disuguaglianze economiche e sociali tra gli individui. Con tutto questo ha a che fare il tema dei beni comuni, che forma oggetto degli scritti ospitati nella seconda parte di questo numero della Rivista, il quale consente di mettere a fuoco un diverso rapporto tra le persone e le cose (materiali ed immateriali) necessarie alla loro vita integra e dignitosa, e perciò si lega fortemente al discorso sulle disuguaglianze che prima s’è fatto.

Come lucidamente evidenzia Rita Sanlorenzo nella sua introduzione, si tratta di un argomento divisivo e di certo assai problematico, che solleva quesiti di difficile soluzione al giurista, abituato all’usuale dicotomia tra proprietà privata e proprietà pubblica. Ma è un argomento che ormai bussa alla porta e non può essere più trascurato, gravido com’è di serie implicazioni anche politico-sociali.

Se certamente risulta ancora assai arduo definire la stessa categoria dei beni comuni, ed a maggior ragione il loro statuto giuridico, mi pare tuttavia senz’altro possibile affermare che l’idea di bene comune rimanda a ciò che è destinato per sua natura a soddisfare stabilmente nel tempo i bisogni essenziali (ma non soltanto materiali) di un’intera comunità. Per questo si sostiene che quei beni debbano essere in qualche misura sottratti non soltanto al potere privato esclusivo di uno o più singoli titolari ma anche al potere dispositivo di chi solo pro tempore di volta in volta impersona l’autorità pubblica. Viene infatti in gioco il rapporto tra le generazioni, trattandosi di beni – basti pensare a quelli artistici, paesaggistici ed archeologici, tutelati dall’art. 9 della Costituzione – che occorre siano preservati nell’immediato per poter essere fruiti anche da chi verrà dopo e che, perciò stesso, implicano uno sguardo capace di varcare i ristretti limiti temporali entro cui di solito resta confinato l’orizzonte politico di breve respiro cui guardano i governanti. Sotto questo profilo non ha forse torto chi, come Gustavo Zagrebelsky (op. cit., pp. 135 e segg.), coglie nell’emersione della teoria dei beni comuni anche un crescente fenomeno di sfiducia verso lo Stato e verso la capacità dei suoi organi di rappresentare e tutelare appieno interessi facenti capo alla comunità civile presente e futura. La crisi della statualità e della sovranità dello Stato non è estranea al tema, ma ciò forse aiuta a comprendere anche i timori e le perplessità di coloro i quali vedono nell’estremizzazione del concetto di bene comune il rischio di una fuga in avanti; il rischio, cioè, che per una sorta di eterogenesi dei fini, indebolendo l’apparato di controlli e di tutele proprio dei beni pubblici senza che si sia ancora riuscito a costruire un sistema giuridico alternativo sufficientemente chiaro e ben strutturato, si pervenga di fatto al risultato di lasciare anche qui campo aperto alle moderne tendenze iperliberiste del mercato e di ricondurre quei beni che si vorrebbero comuni sotto l’egida di ristrette ed incontrollate oligarchie. Anche per i beni comuni, come per l’uguaglianza, si tratta allora di capire se e quale spazio di tutela davvero si dia al di fuori del tradizionale impianto degli ordinamenti nazionali; ed, in presenza di evidenti fattori di crisi di quegli ordinamenti, si tratta di riuscire ad elaborare un quadro giuridico alternativo (o almeno più ampio) che sia in grado di offrire effettive garanzia di tenuta.

Quello dei beni comuni è dunque un tema quanto mai aperto, che deve essere avvicinato in modo assolutamente laico, ma che non si può trattare oggi senza fare riferimento alla figura del giurista che forse più di ogni altro, proprio con spirito laico, vi ha legato il suo nome con scritti che hanno aperto la strada e dai quali chiunque vorrà proseguire non potrà prescindere. Alludo ovviamente a Stefano Rodotà, che solo da poche settimane ci ha lasciati ed al quale i contributi ospitati nelle pagine di questo numero della Rivista sono doverosamente dedicati.