Magistratura democratica

La riforma della responsabilità medica.
La responsabilità del medico

di Alessandro Palmieri

La riforma delle regole sulla responsabilità civile nel sottosettore della sanità evidenzia con chiarezza il disegno del legislatore di invertire autoritativamente la rotta rispetto agli approdi giurisprudenziali di fine secolo. La soluzione di continuità si avverte soprattutto guardando alla posizione dei medici e delle altre figure professionali che operano nel quadro di una struttura sanitaria. Sennonché, a dispetto della nitidezza degli intenti e della bontà dei propositi, l’impatto operativo del nuovo regime non appare scevro da difficoltà e contraddizioni: il rischio è di fare un passo indietro rispetto a un sistema che comunque mostrava di avere a cuore la tutela del paziente, senza che si concretizzano tangibili benefici per quanti erogano le cure.

1. La reazione legislativa alla teoria del contatto sociale

Nel quadro della legge 24/17, un provvedimento normativo di ampio respiro in materia sanitaria che esordisce con proposizioni dal retrogusto declamatorio in cui si pone l’enfasi sulla “sicurezza delle cure” per poi spaziare in una varietà di settori (dall’ambito amministrativo a quello penale, senza trascurare i risvolti sul piano processuale), trova posto un’articolata disposizione che investe i rapporti civilistici tra soggetti bisognosi delle cure e quanti, individui o entità collettive, si fanno carico di organizzare l’erogazione di tali cure e di somministrarle. Segnatamente, la cennata disposizione di legge, ossia l’art. 7, si occupa dei profili “patologici” della relazione terapeutica, industriandosi di fornire indicazioni sul sorgere degli obblighi risarcitori nei confronti dei pazienti, nonché sulla loro conformazione in termini quantitativi.

È pressoché unanime il convincimento che questo aspetto sia tutt’altro che secondario nell’economia della legge. Prova ne sia l’attenzione degli addetti ai lavori, che hanno in breve tempo prodotto un significativo numero di contributi[1]. Le divergenze iniziano a profilarsi non appena ci si interroga sull’appropriatezza dell’operazione di riassetto della responsabilità civile del medico[2] e della struttura sanitaria. Secondo una vulgata piuttosto diffusa, lo stato dell’arte in materia – frutto dell’evoluzione pretoria maturata nello scorcio finale del ventesimo secolo e agli albori di quello attuale – aveva generato una situazione insostenibile per il sistema della sanità nel suo complesso e per i singoli operatori, con gravi ripercussioni anche in punto di accesso al mercato assicurativo, sì che l’intervento del legislatore nel 2017 avrebbe ovviato a tali inconvenienti (o, per lo meno, avrebbe aspirato a ottenere questo risultato) tramite la riscrittura delle regole del gioco, affidata soprattutto ai precetti rinvenibili nel menzionato art. 7, i quali d’altro canto non possono essere considerati isolatamente, dovendo bensì essere coordinati in modo opportuno con altre disposizioni del medesimo testo normativo, in particolare con quelle che si occupano delle coperture assicurative.

Orbene, come si cercherà di puntualizzare nel proseguo, questa versione della storia non è scevra da forzature, nella misura in cui, per un verso, esaspera le criticità del passato e, per altro verso, guarda con eccessivo ottimismo all’avvenire. Gli scenari catastrofici o le derive “americane” (leggi, verso gli aspetti più deleteri di quello che si figura essere il modello statunitense) cui avrebbe fatalmente condotto l’esperienza pregressa, lungi dall’essere rigorosamente documentati e ancorati a dati obiettivi, sembrano più che altro corrispondere a percezioni epidermiche di una realtà ben più complessa e articolata. Del resto, non si tratta di un atteggiamento peculiare dei decision makers di casa nostra, se si pensa che anche negli Stati Uniti il movimento di riforma della medical malpractice, patrocinato da numerosi legislatori statali (e fin qui solo sfiorato a livello federale[3]), è stato per lo più costruito su visioni soltanto parziali del fenomeno, e alle volte su narrazioni che non esiteremmo a paragonare a “leggende metropolitane”. Quanto, poi, agli auspicati, e auspicabili, miglioramenti a livello sistemico rispetto allo status quo ante, è sufficiente fermarsi a considerare gli aspetti che balzano subito all’occhio dando una rapida scorsa alle disposizioni riguardanti gli aspetti sostanziali e a quelle che si occupano dei profili strettamente connessi, per rendersi conto – pur riconoscendo le buone intenzioni che animavano i loro artefici – del ginepraio di difficoltà e contraddizioni insite nel nuovo regime di responsabilità civile, sul versante dell’an debeatur, come pure su quello del quantum.

Di là dalla labilità di taluni dei postulati su cui si innerva la rivisitazione degli obblighi risarcitori in campo sanitario e dalle congetture sui suoi possibili impatti, c’è un dato di fatto sul quale si può ragionevolmente convenire. Una delle ragioni, forse la principale, che hanno spinto il legislatore a muoversi è stato l’intento di scardinare l’impianto di matrice giurisprudenziale riguardante la posizione di chi offre prestazioni di natura terapeutica nell’ambito di una struttura sanitaria e in tale contesto entra in contatto con pazienti i quali, anche ammesso che egli eserciti un’attività autonoma, non potrebbero essere annoverati tra i suoi “clienti”. Siffatto impianto, considerato evidentemente dal legislatore troppo gravoso per il singolo professionista, è stato spazzato via; e con esso rischia di essere se non proprio travolta, quanto meno seriamente vulnerata, la teoria della responsabilità da contatto sociale (o da contatto sociale qualificato) che costituisce il retroterra delle regole operative che si vogliono sovvertire. Proprio mentre altri settori subivano il discutibile fascino del contatto sociale – primo fra tutti quello della culpa in contrahendo, dove la figura in esame sembra essere la chiave di volta per il cambio di casacca e l’approdo sul versante della responsabilità contrattuale[4] – entra in crisi la sua epifania di maggior successo e di maggior diffusione[5].

Dunque, nella sempiterna dialettica tra formanti, il legislatore manifesta chiaramente l’intento di riprendere in mano le redini per quel che concerne l’indicato profilo. E prova a farlo con toni perentori, onde evitare il ripetersi di quanto si era materializzato a ridosso del suo precedente, e poco lineare, tentativo di incidere sulla stessa materia, risalente al 2012. Dalla lettura del dl. 158/12 (noto come “decreto Balduzzi”), nella versione risultante a seguito dei significativi cambiamenti intervenuti in sede di conversione ad opera della l. 189/12, si trovavano alcuni spunti che potevano far pensare a una svolta (in particolare, nel passaggio in cui stabiliva che laddove l'esercente la professione sanitaria non risponde penalmente per colpa lieve «resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile»). Effettivamente, in seno alla giurisprudenza di merito, non erano mancate le voci inclini ad abbandonare i sentieri fino ad allora battuti. Sennonché, la Suprema corte, alla prima occasione utile[6], depotenziava la timida mossa del legislatore. Invero, per via della farraginosità e della nebulosità delle formule linguistiche da quest’ultimo impiegate, non costava certo fatica replicare che esse erano perfettamente compatibili con le coordinate di fondo della logica “contrattualistica”.

2. Una ventata di novità sul piano classificatorio

Tra gli obiettivi perseguiti dal legislatore una posizione di preminenza va assegnata a quello di far sì che l’operatore sanitario, allorquando prende le decisioni rilevanti in ordine al trattamento del paziente affidatogli (rispetto al quale non si ponga come la controparte in un rapporto di consumo[7]), senta meno la pressione di possibili conseguenze sanzionatorie, quale dal suo punto di vista può considerarsi anche il risarcimento del danno. Aleggia, in particolare, lo spettro della medicina difensiva, additato a fonte di sperperi, specie per la già dissestate casse erariali. All’alleggerimento della posizione del medico sul piano penale, si accompagna così una scelta di rottura con il mainstream giurisprudenziale in ambito civilistico, che dovrebbe rendere meno frequenti, e calmierare, le condanne risarcitorie. Nel perseguire tale disegno la l. 24/17 si è saggiamente astenuta dal provare sortite nel segno dell’immunità (la cui tenuta costituzionale sarebbe oltremodo dubbia) o di esoneri parziali, i quali si affacciano soltanto nei rapporti tra struttura e singolo esercente la professione sanitaria sotto il duplice profilo della non rimproverabilità della colpa lieve (art. 8, comma 1) e dell’istituzione di un tetto all’entità della rifusione (art. 8, comma 6). Il legislatore si è però avventurato per una china alquanto scoscesa, impegnandosi in prima persona con la classificazione dell’istituto[8]. Per un folto gruppo di operatori sanitari, questa operazione mette capo, sul piano della qualificazione, a una rivoluzione copernicana rispetto alla meta cui era approdata la giurisprudenza.

Chi è investito da questa ventata di novità? Lo si desume dalla descrizione (rinvenibile nei primi due commi dell’art. 7) delle condotte che sono suscettibili di generare la responsabilità delle strutture sanitarie o sociosanitarie, pubbliche o private. Innanzitutto il discorso riguarda gli esercenti la professione sanitaria della cui opera si avvale una di tali strutture. Non costituisce fattore ostativo all’eventuale inclusione in questa schiera la mera circostanza che il paziente abbia scelto uno specifico professionista, né d’altro canto si intende riservare un trattamento differente per coloro che lavorano come dipendenti della struttura rispetto a quanti non sono avvinti da siffatto legame. Inoltre, per fugare in radice ogni dubbio sul fatto che alle attività espletate nel quadro di una struttura vanno ricondotte anche alcune prestazioni che, pur inserite nel contesto di un apparato istituzionale volto alla cura e all’assistenza, sono caratterizzate da modalità peculiari, vengono esplicitamente presi in considerazione i sanitari che si interfacciano col paziente: a) nell’esercizio della libera professione intramuraria; b) nell'ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica; c) nell’esercizio di attività svolte in regime di convenzione con il servizio sanitario nazionale; d) attraverso la telemedicina.

E in cosa consiste il novum? Il clou sta nel 3° comma dell’art. 7, con l’affermazione secondo cui tutti i soggetti dianzi indicati rispondono «del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile». Il principio soffre di un’eccezione, per il vero immediatamente svelata, che appare comunque superflua: l’art. 2043 viene accantonato ove risulti che costoro abbiano agito nell'adempimento di un’obbligazione contrattuale assunta con il paziente. È l’ipotesi di chi, poniamo, operi un paziente, con il quale ha previamente instaurato un rapporto professionale, all’interno di una struttura che fornisca soltanto le attrezzature ed i servizi occorrenti per l’intervento chirurgico, oltre a mettere a disposizione propri dipendenti destinati tuttavia a rimanere sotto l’esclusiva sorveglianza del medico operatore e ad attuare le disposizioni di quest’ultimo[9]. Sarebbe, invero, bizzarro scrutinare gli addebiti mossi al sanitario, rinunciando a porsi nell’ottica della responsabilità contrattuale. E a tale stregua non si fa fatica ad accorgersi che la posizione del sanitario in questione rischia di essere particolarmente scomoda, correndo il rischio di rispondere anche dei danni derivanti dal difetto delle apparecchiature o da altre carenze della struttura[10], dovendo personalmente accertarsi della loro efficienza.

Torniamo dall’eccezione alla regola generale. Si tratta di una decisa sterzata verso la responsabilità aquiliana. Dal punto di vista lessicale, siamo su ben altro piano rispetto all’incerta formulazione del 2012. L’incedere del linguaggio legislativo si fa alquanto deciso; la sconfessione dell’orientamento giurisprudenziale pro-contrattuale è altrettanto netta. Il legislatore – che, parafrasando un celeberrimo motto, con una sola parola può rendere carta straccia una corposa elaborazione teorica – non tollera che vi siano equivoci di sorta. E, quasi a voler blindare il sistema, aggiunge (all’ultimo comma) un perentorio richiamo all’intangibilità della sua costruzione che, nella sua ridondanza (si parla di «norme imperative ai sensi del codice civile»), appare più un monito rivolto all’interprete che una limitazione per i destinatari dei precetti. In effetti, il più delle volte nessun regolamento negoziale da derogare è ravvisabile a monte della relazione; e se questo c’è, il paziente non ha verosimilmente il bargaining power occorrente per ipotetiche modifiche a suo favore, mentre quelle peggiorative sarebbero colpite dalla scure della vessatorietà.

L’idea che aleggia sullo sfondo è quella, cui si accennava in precedenza, che sia giunto il tempo di riequilibrare un meccanismo asseritamente sbilanciato a scapito del singolo operatore della sanità. Il transito sul versante aquiliano appare funzionale a questo disegno, dal momento che il relativo regime è, come da ricostruzioni manualistiche, più favorevole al potenziale danneggiante rispetto all’altro corno dell’alternativa. Ancor più dovrebbe giovare al singolo la parallela consacrazione, nel 1° comma dello stesso art. 7, dell’inquadramento nell’alveo della responsabilità contrattuale delle strutture cui la prestazione dei sanitari è riconducibile. Anche qui la tecnica di redazione della norma passa per il richiamo del codice civile. Lo sguardo del legislatore si posa su una coppia di disposizioni: l’art. 1218, caposaldo del sistema di reazione all’inadempimento delle obbligazioni, e l’art. 1228, concernente la responsabilità del debitore per fatto degli ausiliari, da cui viene palesemente mutuato il riferimento alle condotte «dolose o colpose» degli esercenti la professione sanitaria.

La menzione all’art. 1218, oltre a dotare l’altra disposizione codicistica del suo imprescindibile complemento rispetto all’operato dei singoli professionisti, si presta a fondare una responsabilità della struttura sanitaria per proprie autonome carenze[11]. In virtù della siffatta qualificazione legislativa, antitetica a quella operata per i sanitari e in sintonia con la giurisprudenza, non è più necessario andare alla ricerca di una fonte formale degli obblighi risarcitori inerenti alle manchevolezze nella somministrazione delle cure o dell’assistenza di cui necessitava il paziente. Non vi è, in ogni caso, alcun motivo per ritenere superata la regola secondo cui l’accettazione presso una struttura comporta l’assunzione dell’obbligo di eseguire una prestazione strumentale e accessoria, avente ad oggetto la salvaguardia dell’incolumità fisica e patrimoniale dell’assistito, sebbene alcune volte sia stato puntualizzato che la protezione è tendenzialmente circoscritta alle forme più gravi di aggressione[12].

3. Il medico che opera nel quadro di una struttura sanitaria: uno schermo non imperforabile

Se l’intento del legislatore era quello di frapporre uno schermo tra il paziente danneggiato e il sanitario che agisce nell’orbita della struttura al cui operato si imputa il verificarsi del pregiudizio alla salute, l’analisi testuale denuncia un raggiungimento soltanto parziale di tale obiettivo. Non si può ravvisare, infatti, una chiara situazione di distacco tra gli anzidetti soggetti, sì da asserire con certezza che il medico se la vedrà solo (ed eventualmente) con la struttura. Né si può escludere, sul piano strettamente processuale, che il singolo operatore, pur non direttamente evocato in giudizio da chi lamenta un danno, finisca comunque con l’essere coinvolto nella medesima controversia su iniziativa della struttura.

Certo, data la duplicità dei regimi di responsabilità, si potrebbe arguire che, in via di fatto, il danneggiato sia incentivato a imboccare la strada ipoteticamente più semplice, ossia quella che prende nel mirino la struttura sanitaria alla quale fa capo il medico che ha individuato come artefice dell’insuccesso del programma terapeutico o del peggioramento del suo stato di salute (ovvero del decesso del proprio congiunto o, per gli eredi, del de cuius). Sennonché questo pare piuttosto un auspicio, che potrebbe benissimo non concretizzarsi. Diversamente da altre ipotesi, e segnatamente da quanto previsto per gli insegnati delle scuole pubbliche per i quali è radicalmente esclusa la possibilità che siano direttamente convenuti da terzi nelle azioni di risarcimento dei danni da culpa in vigilando[13], nulla impedisce al danneggiato di chiedere in via immediata la condanna (anche del solo) sanitario. Il fatto che quest’ultimo risponda a titolo di responsabilità aquiliana evidentemente, anziché privarlo della legittimazione passiva nei confronti dell’azione di danni intentata dal destinatario della prestazione di cui si lamenta la cattiva esecuzione, lo include senza possibilità di equivoci tra i possibili bersagli delle pretese. Si aggiunga che, trattandosi dell’illecito ex art. 2043 cc, la colpa assume rilievo in tutta la sua pienezza, ivi incluso quando si manifesta in forma lieve. Né vale a togliere dal giro l’obbligo risarcitorio nei confronti del paziente, neppure in casi di imperizia, il rispetto delle raccomandazioni previste dalle linee guida o delle buone pratiche assistenziali, dal momento che l’attenersi ai menzionati precetti è foriero, per esplicita indicazione legislativa, di conseguenze destinate a impattare esclusivamente sul quantum.

Dunque, si delinea a carico del sanitario l’assunzione di un’obbligazione risarcitoria direttamente nei confronti del danneggiato, da riguardare alla stregua di un’ordinaria obbligazione ex delicto: il che rischia di depotenziare i sopra cennati accorgimenti a salvaguardia del medico, i quali scattano soltanto in sede di rivalsa. Lo stesso meccanismo della rivalsa rischia di essere in parte snaturato. Infatti, nell’eventualità in cui il paziente danneggiato trascini in giudizio la struttura e il sanitario, addivenendo alla condanna in solido di entrambi i convenuti[14], si profila l’interesse del sanitario, esposto per l’intero all’azione esecutiva, a ottenere non soltanto una statuizione relativa alla ripartizione del fardello risarcitorio nei rapporti interni, ma anche, se del caso, una pronuncia che negli stessi rapporti sancisca l’operatività di criteri sovrapponibili a quelli che avrebbero operato nella rivalsa. Invero, non tenerne conto in situazioni come queste significherebbe lasciare siffatti presidi in balia delle scelte processuali del danneggiato. Ancor più pressante diventerebbe l’esigenza del sanitario di assumere le predette iniziative qualora egli fosse l’unico convenuto.

Se, invece, le domande attoree si dirigessero esclusivamente nei confronti della struttura sanitaria, il medico eviterebbe di trovarsi nell’impasse testé ricordato, ma non è affatto detto che rimanga estraneo al procedimento così instaurato. Anzi, vi sono alcuni indici atti a far propendere per il suo coinvolgimento nel processo, su istanza della struttura convenuta, il che darebbe vita a una sorta di anticipazione del giudizio di rivalsa[15]. Nel dettare la disciplina della rivalsa, il legislatore ha infatti previsto che: i) la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro la struttura […] o contro l'impresa di assicurazione non fa stato nel giudizio di rivalsa se l'esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio (art. 9, comma 3); ii) nel giudizio di rivalsa […] il giudice può desumere argomenti di prova dalle prove assunte nel giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria o dell'impresa di assicurazione se l'esercente la professione sanitaria ne è stato parte (art. 9, comma 7). Per evitare di ricominciare tutto da zero, logica vorrebbe che la struttura chiamasse in causa pressoché in automatico il sanitario.

Insomma, per riprendere un’espressione già utilizzata da alcuni commentatori[16], il disegno di “canalizzare” le istanze risarcitorie verso le strutture sanitarie sembra davvero poco efficace.

4. Svolta epocale o rimaneggiamento con molte incognite?

L’impressione è che la riforma, lungi dal poter essere descritta come un miglioramento paretiano, rischia di rendere deteriore la posizione complessiva dei pazienti, senza peraltro apportare consistenti benefici aggiuntivi ai medici operanti nelle strutture sanitarie. Per questi ultimi, si potrebbe parlare di un’operazione simil-gattopardesca: se è chiaro l’intento di lasciare grosso modo invariata sul piano sostanziale la posizione delle strutture sanitarie e dei medici totalmente sganciati da esse, sulla carta ciò che si vorrebbe ribaltare è proprio il destino dei sanitari che fanno capo a entità organizzate dedite all’assistenza e alla cura. Strumento tecnico attraverso cui si compie tale stravolgimento è la metamorfosi della responsabilità da contrattuale ad aquiliana. Fatto sta che si sbandiera il cambiamento epocale, ma il sospetto è che, all’atto pratico, cambi molto poco.

Si può soltanto evocare in questa sede il discorso, ormai pluridiecennale, sul progressivo avvicinamento dei due mondi (sovente solo artificialmente divisi) della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale[17]. Ma anche rimanendo sul piano delle principali peculiarità operative associate alle due forme di illecito, le ricadute di una traslazione da un piano all’altro non paiono così sconvolgenti. In virtù di uno dei paradigmi della responsabilità aquiliana, oggi il paziente danneggiato non può esimersi dal provare la colpa del sanitario. Sennonché dimostrare il mancato raggiungimento, da parte del sanitario, dello standard comportamentale richiestogli – e ricordato che l’osservanza delle linee guida o buone pratiche non ha valore decisivo in questo ambito – non costituisce un ostacolo insormontabile in tutti quei casi (e sono la maggioranza) in cui l’intervento può considerarsi routinario o, comunque, non caratterizzato da speciale difficoltà[18]. In un buon numero di situazioni il fulcro problematico del giudizio, che coincide con il frangente nel quale il giudice non può che dare ampio spazio al proprio consulente, si va a radicare nell’indagine sulla sussistenza del nesso causale tra la condotta attiva od omissiva dei sanitari e il danno sofferto, oltre che nella relativa prova, incombente sull’attore. Né più né meno di quello che è accaduto sinora in regime di responsabilità contrattuale e che, va da sé, continuerà ad avvenire per le strutture sanitarie[19]. Se poi si passa a considerare il termine di prescrizione, il suo dimezzamento rischia di essere scarsamente apprezzabile, se il dies a quo decorre dal momento in cui l’insuccesso terapeutico o il peggioramento dello stato di salute viene inteso quale danno ingiusto conseguente al comportamento del sanitario o, quanto meno, può essere percepito come tale usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche[20].

Né può dirsi che sia l’art. 7 in quanto tale a cambiare le carte in tavola in punto di commisurazione del danno non patrimoniale: la scelta – funzionale a contenere l’esposizione debitoria dei responsabili – operata dal 4° comma di importare il sistema tabellare previsto in materia di assicurazione r.c.a, con gli adattamenti del caso, non fa che replicare il disposto del decreto Balduzzi, rispetto al quale viene semplicemente cassato il termine “biologico”. Se mai, posto che, per la parte relativa alle lesioni non lievi, il sistema non è mai decollato, a dargli nuovo impulso potrebbe essere la legge annuale sulla concorrenza del 2017[21].

[1] Senza pretesa di completezza, v. G. Alpa, Ars interpretandi e responsabilità sanitaria a seguito della nuova legge Bianco-Gelli, in Contratto e impr., 2017, p. 728; A. Astone, Profili civilistici della responsabilità sanitaria (riflessioni a margine della l. 8 marzo 2017, n. 24), in Nuova giur. civ., 2017, p. 1115; V. Bachelet, Il rapporto tra asl e medico di base nel sistema riformato della responsabilità sanitaria, in Riv. dir. civ., 2017, p. 777; A. Barbarisi, L’onere della prova nella responsabilità sanitaria, in Contratti, 2017, p. 217; R. Breda, La responsabilità civile delle strutture sanitarie e del medico tra conferme e novità, in Danno e resp., 2017, p. 283; R. Calvo, La «decontrattualizzazione» della responsabilità sanitaria (l. 8 marzo 2017 n. 24), in Nuove leggi civ., 2017, p. 453; V. Carbone, Legge Gelli: inquadramento normativo e profili generali, in Corriere giur., 2017, p. 737; Id., Responsabilità aquiliana del medico: norma imperativa nata per risolvere problemi economici che pregiudica i diritti del paziente, in Danno e resp., 2017, p. 393; A. D’Adda, Solidarietà e rivalse nella responsabilità sanitaria: una nuova disciplina speciale, in Corriere giur., 2017, p. 769; N. De Luca, M. Ferrante e A. Napolitano, La responsabilità civile in ambito sanitario (art. 7-9 l. 8 marzo 2017, n. 24), in Nuove leggi civ., 2017, p. 740; M. Franzoni, Colpa e linee guida nella nuova legge, in Danno e resp., 2017, p. 271; C. Granelli, La riforma della disciplina della responsabilità sanitaria: chi vince e chi perde?, in Contratti, 2017, p. 377; L. Lambo, La responsabilità del medico dipendente e il gioco dell’oca (obblighi di protezione c. alterum non laedere), in Foro it., 2017, V, p. 242; C. Masieri, Novità in tema di responsabilità sanitaria, in Nuova giur. civ., 2017, p. 752; R. Pardolesi, Chi (vince e chi) perde nella riforma della responsabilità sanitaria, in Danno e resp., 2017, p. 261; R. Pardolesi e R. Simone, Nuova responsabilità medica: il dito e la luna (contro i guasti da contatto sociale?), in Foro it., 2017, V, p. 161; G. Ponzanelli, Medical malpractice: la legge Bianco-Gelli - Una premessa, in Danno e resp., 2017, p. 268; Id., Medical malpratice: la legge Bianco-Gelli, in Contratto e impr., 2017, p. 356; C. Scognamiglio, Regole di condotta, modelli di responsabilità e risarcimento del danno nella nuova legge sulla responsabilità sanitaria, in Corriere giur., 2017, p. 740.

[2] Per semplificare, sovente si parlerà di medico per alludere alla più vasta schiera di quanti sono riconducibili alle varie figure di esercente la professione sanitaria.

[3] Una disposizione del Patient Protection and Affordable Care Act (cd. Obamacare) si limitava a prefigurare incentivi per gli Stati che avessero sviluppato e messo in opera sistemi alternativi alla tort litigation (42 U.S. Code § 280g–15). Va segnalato, peraltro, un certo attivismo del Congresso (M.M. Mello, A. Kachalia, D.M. Studdert, Medical Liability - Prospects for Federal Reform, in The New England Journal of Medicine, 2017, 376, 1806-8).

[4] Cass. 12 luglio 2016, n. 14188, in Foro it., 2016, I, p. 2685.

[5] G. Alpa, op. cit., p. 733, valuta con estremo favore la scelta di «abbandonare la finzione del contatto sociale».

[6] Cass., ord. 17 aprile 2014, n. 8940, in Foro it., 2014, I, p. 1413; 24 dicembre 2014, n. 27391, id., Rep. 2014, voce Sanità pubblica e sanitari, n. 569.

[7] Nel contratto di prestazione d’opera professionale medica, paziente e medico assumono, rispettivamente, la qualità di consumatore e professionista (v. Cass., ord. 27 febbraio 2009, n. 4914, in Foro it., 2009, I, p. 2684). Il paziente veste i panni del consumatore anche nei confronti di una struttura sanitaria del ssn (ovvero convenzionata), quante volte tra le parti sia intercorso un vero e proprio contratto avente ad oggetto una prestazione esulante dalle procedure del ssn, con addebito all’utente dei costi della prestazione, salvo per una parte minore equivalente al costo aziendale normalmente a carico del ssn (cfr. Cass, ord. 24 dicembre 2014, n. 27391, in Dir. famiglia, 2015, p. 1229).

[8] Si vedano le critiche mosse, sul piano della tecnica legislativa, da C. Scognamiglio, op. cit., p. 747.

[9] Un caso caratterizzato da tali circostanze fattuali è stato deciso da Cass. 14 giugno 2007, n. 13953, in Foro it., Rep. 2007, voce Contratto in genere, n. 359.

[10] Il rischio si è materializzato nella vicenda vagliata da Cass. 26 giugno 2012, n. 10616, in Danno e resp., 2013, p. 839, con nota di L. Caputi, Medical malpractice: nodi inestricabili e nuove prospettive.

[11] Per la configurabilità di una responsabilità contrattuale facente capo alla struttura sanitaria complessivamente considerata, v. Trib. Monza 7 giugno 1995, in Resp. civ., 1996, p. 389, con nota di M. Toscano, Il difetto di organizzazione: una nuova ipotesi di responsabilità?

[12] Cfr. Cass. 18 settembre 2014, n. 19658, in Foro it., Rep. 2014, voce Sanità pubblica e sanitari, n. 478, con riferimento all’uccisione di una paziente, verificatasi all’interno di una struttura ospedaliera ad opera di un infermiere che non era stato tempestivamente sospeso dal servizio, nonostante le evidenti manifestazioni di squilibrio mentale.

[13] Ciò vale quale che sia il titolo, contrattuale o extracontrattuale, dell’azione (così Cass. 3 marzo 2010, n. 5067, in Giust. civ., 2011, I, p. 2931, con nota di M. Cocuccio, Responsabilità dell’insegnante per mancata protezione del minore; Trib. Bari 30 maggio 2013, in Foro it., 2014, I, p. 321).

[14] Il fatto che siano configurabili diversi titoli di responsabilità non è di ostacolo al sorgere della solidarietà passiva (cfr. Cass. 16 dicembre 2005, n. 27713, in Foro it., Rep. 2006, voce Responsabilità civile, n. 534).

[15] Per A. D’Adda, op. cit., 775, se l’azione è proposta solo verso la struttura, la domanda di regresso non può essere comunque formulata mediante chiamata di terzo.

[16] Si allude a R. Pardolesi e R. Simone, op. cit., 168, che parlano di «disegno complessivo di razionalizzazione e canalizzazione del contenzioso verso l’ente».

[17] Si può risalire almeno a G. Visintini, Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale (Una distinzione in crisi?), in Rass. dir. civ, 1983, pp. 1077 ss.; più di recente, v. M. Giorgianni, La responsabilità civile e la rivalutazione della figura generale dell’obbligazione, in www.judicium.it, 2012.

[18] Osserva R. Calvo, op. cit., 479, che «grazie al criterio ancorato alla vicinanza della prova e alla verosimiglianza del rapporto eziologico tra intervento maldestro del medico e pregiudizio patito dall’infermo, la linea di confine in subiecta materia fra neminem laedere e obbligazione contrattuale tende, in termini realistici, a diradarsi».

[19] La giurisprudenza di legittimità ha messo in luce come l’onere di provare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa imprevedibile sorga, a carico del convenuto, soltanto dopo che il danneggiato abbia provato la sussistenza del legame eziologico tra condotta e pregiudizio (Cass. 26 luglio 2017, n. 18392, in Foro it., 2017, I, p. 3358, con nota di J. Di Rosa).

[20] Cfr. Cass. 23 settembre 2013, n. 21715, in Rass. dir. farmaceutico, 2014, p. 289.

[21] Art. 1, commi 17 e 18, l. 124/17.