Asilo e tratta: il tango delle protezioni
Il coordinamento tra protezione internazionale e protezione delle vittime di tratta è un obiettivo lungi dall’esser realizzato e si intreccia le problematiche che distinguono la fase giudiziaria dalle diverse fasi amministrative dei procedimenti.
Premessa
Il dovere di proteggere “le vittime di tratta” trova il proprio fondamento in numerose disposizioni della nostra Carta costituzionale, ma nasce a livello internazionale dalla Convenzione di Varsavia (Convenzione n. 197 del Consiglio d’Europa sulla lotta alla tratta di esseri umani, approvata a Varsavia il 16 maggio 2005, ratificata in Italia con L. 2 luglio 2010 n. 108), che pure sviluppa indicazioni già contenute nel protocollo addizionale sul trafficking alla Convenzione delle Nazioni unite sul crimine organizzato transnazionale, approvata a Palermo nel 2000 e ratificata con L. 16 marzo 2006 n. 146, che può essere considerata il primo trattato internazionale designato in modo specifico alla protezione dei diritti delle persone oggetto della tratta di esseri umani.
Essa per quanto concerne l’identificazione delle vittime, sancisce che gli Stati devono assicurarsi che le autorità competenti collaborino tra loro, così come con le organizzazioni che svolgono un ruolo di sostegno, al fine di permettere di identificare le vittime con una procedura che tenga conto della speciale situazione delle donne e dei minori vittime; inoltre, sotto il profilo del divieto di allontanamento delle sospette vittime di tratta si precisa che qualora le autorità competenti abbiano ragionevoli motivi per credere che una persona sia stata vittima della tratta di esseri umani, quella persona non venga allontanata dal proprio territorio finché la procedura d’identificazione, che la vede vittima di un reato sia stata completata dalle autorità competenti (art. 10); allo stesso tempo, nel periodo occorrente all’identificazione, dovrà essere assicurata l’assistenza per il loro recupero fisico, psicologico e sociale. Tale assistenza, in particolare, comprende, come minimo, un alloggio adeguato, l’assistenza psicologica e materiale, l’accesso alle cure mediche d’urgenza, l’aiuto in materia di traduzione e interpretariato e l’accesso all’istruzione per i minori (art. 12). Ai sensi della Convenzione deve inoltre essere garantito un periodo di recupero e di riflessione di almeno 30 giorni, quando sussistano ragionevoli motivi per credere che la persona in questione sia una vittima. Le misure di protezione offerte dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sono state in gran parte recepite e sviluppate dalla Direttiva 2011/36/Ue. Essa, in particolare, stabilisce l’importante principio per il quale le vittime devono ricevere assistenza non solo durante il procedimento penale, ma anche prima, e per un congruo periodo di tempo anche dopo la sua conclusione (art. 11, par. 1). Si sottolinea che, che l’assistenza deve essere assicurata immediatamente, laddove le autorità competenti abbiano un ragionevole motivo di ritenere che nei confronti della persona interessata sia stato commesso il reato di tratta (art. 11, par. 2).
Varie agenzie dell’Onu negli ultimi anni hanno sottolineato che i richiedenti protezione internazionale sono sovraesposti al rischio di tratta. Il Global report on trafficking in persons, redatto dall’Unodc nel 2016 (p. 17), sottolinea che «Refugees fleeings persecution or other dangers in their country are particularly vulnerable to traffickers. Similarly, migrants and refugees who have been smuggled are particularly vulnerable to being exploited, because of the lack of opportunity in the destination country and the costs associated with smuggling». Allo stesso modo L’Inter agency coordination group against trafficking in person evidenzia come «Refugees and asylum-seekers are particularly vulnerable to abuse and exploitation at different stages of their flight, including at their destination» (Icat, 2017, p. 2[1]). Questa sovra-esposizione dei richiedenti protezione internazionale al rischio di essere vittime di tratta e/o sfruttamento era stata già evidenziata qualche anno fa dall’Unhcr(2009).
L’Italia si è fatta carico di queste preoccupazioni nella Legge di delegazione europea 2013 che, recependo la direttiva 2011/36/Ue concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, ha disposto che il Governo prevedesse “misure che facilitino il coordinamento tra le istituzioni che si occupano di tutela e assistenza alle vittime di tratta e quelle che hanno competenza sull'asilo, determinando meccanismi di rinvio, qualora necessario, tra i due sistemi di tutela». Questa delega ha prodotto l’Art. 10 del d.lgs 24/2014 che, dando attuazione alla Direttiva 2011/36/Ue, ha modificato l’articolo 32 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 (che dà invece attuazione alla direttiva 2005/85/Ce recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato), inserendo dopo il comma 3, un comma 3-bis in cui si specifica che «La Commissione territoriale trasmette, altresì, gli atti al Questore per le valutazioni di sua competenza se nel corso dell'istruttoria sono emersi fondati motivi per ritenere che il richiedente è stato vittima dei delitti di cui agli articoli 600 e 601 del codice penale». Più in generale lo stesso art. 10 del d.lgs 24/2014 al co. 1 ha stabilito che «le Amministrazioni che si occupano di tutela e assistenza di vittime di tratta e quelle che hanno competenza in materia di asilo individuino misure di coordinamento tra le attività istituzionali di rispettiva competenza, anche al fine di determinare meccanismi di rinvio, qualora necessari, tra i due sistemi di tutela». Il perno del coordinamento, tra le amministrazioni che si occupano di tutela e assistenza delle vittime di tratta e quelle che hanno competenza in materia di asilo, dovrebbe essere il Meccanismo Nazionale di Referral (Mnr), previsto dal piano nazionale di azione contro la tratta, che articola una serie di raccomandazioni e misure pratiche principalmente destinata agli attori impegnati nella lotta contro la tratta che vengono a contatto con una persona trafficata (sia essa presunta o riconosciuta tale) e che sono coinvolti in una qualsiasi delle fasi previste dalla procedura: identificazione, protezione, assistenza, procedimenti penali e civili o rientro nel Paese d’origine.
Il legislatore si è dunque sostanzialmente limitato ad indicare alle amministrazioni competenti la necessità di coordinare le loro attività, rimettendo questo coordinamento a documenti di soft-law, dettando una sola disposizione dal contenuto tutt’altro che chiaramente definibile. Alla luce del quadro tracciato dal legislatore si dovrebbe sviluppare, tra la protezione internazionale e la protezione per le vittime di tratta, quello che definirei una sorta di tango. Il tango, infatti, è un ballo con poche semplici regole basato, da un lato, sulla passionalità, che il tipo di diritti coinvolti nelle due protezione è naturale faccia scattare, e dall’altro sull'improvvisazione. Seguendo questa metafora, le due protezioni dovrebbero procedere come una normale camminata, che è il passo base del tango, condotta tenendosi in un abbraccio frontale più o meno asimmetrico, a seconda dello stile, in cui la protezione internazionale, l'uomo nel tango, dovrebbe cingere con la destra la schiena della propria ballerina, la protezione prevista per le vittime di tratta, e con la sinistra tenerle la mano, creando quindi una maggiore distanza tra la spalla sinistra dell'uomo e la destra della donna. Si dovrebbe creare cioè una situazione in cui le due protezioni sono per un lato strettamente unite e per l’altro abbastanza distanti da soddisfare le differenti esigenze di protezione. Nel quadro normativo, come nel tango, sembra essere la protezione internazionale, l’uomo, che conduce, chiedendo con un linguaggio puramente corporeo, nel caso della protezione comportamentale, alla propria ballerina, la protezione delle vittime di seguirla.
La necessità di definire poche regole basi e rimettere alla improvvisazione degli attori il ballo tra le due protezioni è sicuramente richiesta del rapido mutare dei fenomeni che il sistema dovrebbe fronteggiare. Questa scelta però sta dando vita a un sistema molto complesso e ambiguo, che funziona in modo diverso nelle differenti zone del Paese e rende molto difficile valutare l’effettiva capacità del sistema stesso di fornire, come richiesto dalla normativa internazionale, la forma più adeguata di tutela tanto alle vittime di tratta quanto ai richiedenti asilo.
Se nel tango, per consentire ai principianti di prendere le misure con il livello di improvvisazione richiesto, sono state introdotte delle sequenze con passi predefiniti, come la Salida basica, per le due protezioni in discussione appare fondamentale tracciare una mappa dei problemi concettuali e pratici che il loro rapporto comporta, dato che per tutti gli operatori questo rapporto è una terra completamente vergine. Alla novità del problema si aggiunge che gli elementi che definiscono il campo di azione, la pista da ballo, vale a dire le disposizioni sulla protezione internazionale, in particolare umanitaria, e quelle sulla tratta non hanno un’interpretazione consolidata: mancanza di consolidamento che si ripercuote sui documenti di soft-law che dovrebbero coordinare i due sistemi. In questa situazione la mappatura delle problematiche sul terreno appare un passo fondamentale per fornire una bussola agli operatori, rendendoli consapevoli dei problemi, lasciando loro la flessibilità per delineare volta per volta quella che è la migliore soluzione per la vittima. Nelle pagine che seguono delineo alcune tematiche la cui chiarificazione è a mio parere fondamentale per disegnare una mappa che permetta di orientarsi fra le disposizioni relative alle due protezioni, con l’avvertenza che, sebbene, per ragioni espositivi, ognuna di esse è presentata come autonoma, esse sono strettamente connesse tra loro e spesso intrecciate in una vera spirale ermeneutica.
1. Tratta come forma di persecuzione
Il primo livello di contatto tra le disposizione sulla tratta e quelle sulla protezione internazionale riguarda se la tratta sia annoverabile tra le forme di persecuzione previste per l’attribuzione dello status di rifugiato.
L’Unhcr nelle Linee guida di protezione internazionale: L’applicazione dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967 del 2006, che costituiscono un’essenziale guida interpretativa della convenzione di Ginevra, sottolinea la necessità di vagliare la sussistenza di un “timore fondato di persecuzione” alla luce delle singole specificità del caso concreto. Secondo l’Unhcr, anche laddove l’esperienza di tratta possa dirsi “conclusa”, la situazione personale della vittima potrebbe ancora dispiegare i suoi effetti tanto da rendere «intollerabile il suo ritorno nel proprio Paese di origine». Le Linee guida sollecitano a valutare per il riconoscimento dello status il rischio che le vittime possano essere «oggetto di ritorsioni e/o possibili nuove esperienza di tratta se fossero rinviati nel territorio dal quale sono fuggiti o nel quale sono stati vittime di tratta». Esse auspicano anche che la valutazione consideri il rischio che le vittime possano essere «oggetto di ritorsioni e/o possibili nuove esperienza di tratta se fossero rinviati nel territorio dal quale sono fuggiti o nel quale sono stati vittime di tratta». In particolare, a parere dell’Unhcr, le donne possono costituire in determinati contesti, un «sottoinsieme sociale di individui» dotato di caratteristiche specifiche che le differenziano dagli uomini, possono essere considerate, in altre parole, una categoria particolarmente vulnerabile, più esposta al rischio di tratta. Quindi la tratta delle donne può essere fatta rientrare tra i motivi di persecuzione previsti dalla Convenzione di Ginevra, in ragione dell’appartenenza ad un determinato gruppo sociale, e giustificare il riconoscimento della qualifica di rifugiato. Questa tesi comincia a trovare qualche riscontro nella giurisprudenza di merito (Tribunale di Salerno, ord. 4862/2017; Tribunale di Messina, ord. 316/2017[2]). A livello di commissioni territoriali invece questa impostazione è lungi dall’essere accolta. Gli orientamenti prevalenti sono quelli di non prendersi carico dei problemi della tratta[3], di attivare il meccanismo di referral passando il problema a enti anti-tratta e questure, o, in qualche raro caso, di concedere la protezione umanitaria.
2. Funzionamento del meccanismo di Referral
Il coordinamento previsto tra istituzioni che si occupano della protezione delle vittime di tratta e quelle che si occupano dell’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale previsto dall’art. 10 d.lgs 24/2014 pone in concreto molti problemi. Questi problemi sorgono in primo luogo dalla previsione che la Commissione territoriale trasmetta al Questore «per le valutazioni di competenza», gli “atti” quando «nel corso dell'istruttoria sono emersi fondati motivi per ritenere che il richiedente è stato vittima dei delitti di cui agli articoli 600 e 601 del codice penale».
I commentatori[4] considerano pacifico che il riferimento a “le valutazioni di competenza” del Questore riguardi sia l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell’art. 18 del d.lgs n. 286/1998, sia la possibilità di avviare le relative indagini penali riferendo la notizia di reato al pubblico ministero (art. 347 cp). La tesi che il rinvio sia all’art. 18 pare avvalorata dal fatto che lo stesso d.lgs 24/2014 ha introdotto il comma 3-bis nell’art. 18 l’unificazione del programma di protezione sociale da questo previsto per le vittime di violenza e/o grave sfruttamento e quello per le vittime di tratta previsto dall’art. 13 legge 228/2003.
Non è poi chiaro se, una volta avvenuto il rinvio, il Questore sia libero nella sua valutazione o se lo si debba invece considerare vincolato dalla valutazione della Commissione, in analogia con quanto accade, per interpretazione avvallata dalla Cassazione (S.u. N. 11535/2009), in applicazione dell’art. 32 d.lgs 25/2008 comma 3 («Nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale e ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, la Commissione territoriale trasmette gli atti al Questore per l'eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell'articolo 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286»).
2.1. Compatibilità o esclusività delle protezioni
Si pone in primo luogo il problema se il rinvio comporti che alla vittima di tratta debba essere rilasciato il permesso umanitario per protezione sociale previsto da questo articolo oppure, qualora ve ne siano i presupposti, il permesso come rifugiato che offre sicuramente uno status giuridico più solido, ma minore protezione dalla tratta.
È oggi pacifico che il riconoscimento della protezione umanitaria prevista dall’art. 5 comma 6 del Tui su indicazione della Commissione territoriale costituisce un diritto soggettivo del richiedente e sia quindi di competenza del giudice ordinario (oggi della sezione specializzata sull’immigrazione in conseguenza del dl n. 13/2017, e sua conversione L. 46/2017).
Il permesso da rilasciare alle vittime di tratta può essere considerato un permesso rilasciato perché «ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario» risultanti tanto da obblighi costituzionali che internazionali dello Stato italiano, per cui sembra rientrare pienamente nei requisiti previsti dall’art. 5 comma 6 del Tui. Sui presupposti dell’umanitario la giurisprudenza sta cercando faticosamente di tracciare delle Linee guida (si veda la recentissima Cass. 4455/18 e in proposito Favilli[5]), ma siamo ben lungi dall’avere un consolidamento dell’interpretazione: alcuni dei presupposti discussi in giurisprudenza concernono la vulnerabilità delle vittime e quindi riguardano direttamente il trattamento delle vittime di tratta.
Per dare attuazione all’art. 10 d.lgs 24/2014 la Commissione nazionale per il diritto di asilo e l’Unhcr hanno redatto le Linee guida per l’identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale, con relativa indicazione delle procedure di referral e modello di schema di convenzione che le Commissioni territoriali devono stipulare con il locale ente antitratta, al quale si prevede che le stesse Commissioni rimettano la valutazione sulla fondatezza del sospetto di tratta emerso in sede di audizione del richiedente protezione internazionale. Ciò vuol dire che la previsione del rinvio al Questore deve essere configurata come un percorso sociale ex art. 18 Tui che, a differenza di quanto accade per il rilascio del permesso umanitario su indicazione della Commissione, lascia il Questore libero nella sua valutazione? Oppure che si aprirà la strada a un percorso speciale per il rilascio di uno specifico permesso di soggiorno umanitario per vittime di tratta su indicazione della commissione?
Il problema coinvolge una ventennale discussione sui requisiti di rilascio del permesso ex art. 18 e sull’autonomia del percorso sociale da quello giudiziario. Ma anche la discussione attualmente in corso, e con soluzione ancora non assestata, sul permesso umanitario rilasciato su indicazioni della commissione o della Sezione specializzata.
2.2. Ruolo sezione specializzata
Dato che l’art. 10 d.lgs 24/2014 parla genericamente di «coordinamento tra le istituzioni che si occupano di tutela e assistenza alle vittime di tratta e quelle che hanno competenza sull'asilo» si sta ponendo il problema se la Sezione specializzata del Tribunale può/deve operare anch’essa il rinvio[6] e, eventualmente, con quali procedure, se quelle fissate dalle linee guida per le Commissioni o attraverso delle Convenzioni. Naturalmente a seconda delle modalità di invio e degli accertamenti fatti prima di esso, data la natura giudiziaria dell’inviante e le procedure previste normalmente dal percorso giudiziario dell’art. 18, l’invio fatto dalla Sezione specializzata avrebbe sicuramente l’effetto di limitare molto di più di quello della Commissione (autorità amministrativa non superiore al Questore ma solo specializzata) la discrezionalità del Questore.
3. Pre-condizioni della protezione delle vittime di tratta
A livello di disposizioni normative internazionali non è ancora stata sancita in modo chiaro l’indipendenza della protezione dalla denuncia. Il protocollo di Palermo del 2000 (Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni unite contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e bambini) si limita a consentire agli Stati di fornire protezione alle vittime di tratta a prescindere dalla denuncia. La Convenzione di Varsavia (Stce n. 197 – Lotta contro la tratta degli esseri umani, 16.V.2005), ratificata in Italia con L. 2 luglio 2010 n. 108, primo Trattato internazionale dedicato in modo specifico alla protezione dei diritti delle persone oggetto della tratta di esseri umani, incoraggia gli Stati a farlo e la Direttiva 2004/81/Ce dell’Ue prevede la concessione del permesso di soggiorno esclusivamente alle vittime che denunciano. L’ambiguità principale è dovuta alla direttiva del 2011: questa dispone che «l’assistenza e il sostegno alla vittima non siano subordinati alla volontà di quest’ultima di collaborare nelle indagini penali, nel procedimento giudiziario o nel processo, fatte salve la Direttiva 2004/81/Ce o norme nazionali analoghe». Quindi mentre in principio dispone che la protezione sia indipendente dalla collaborazione giudiziaria, rinvia a norme che la prevedono (la Direttiva del 2004) o la possono prevedere (molte legislazioni nazionali, ma non l’art. 18 del Tui). La dottrina propone di risolvere il problema distinguendo tra il “periodo di riflessione”, da concedersi alla potenziale vittima indipendentemente dalla sua collaborazione con l’autorità giudiziaria, e il permesso di integrazione subordinato a tale collaborazione. Il nostro art. 18 prescinde in modo netto, almeno nel percorso sociale, per constante interpretazione fornita dalle circolari del Ministero dell’interno, dalla denuncia (mentre le Questure spesso continuano a chiederla cfr. Greta, 2014, pp. 42 e ss[7].).
Si pone anche il dubbio se la protezione immediata prevista dall’art. 13 L. 228/2003 coincida o meno con il periodo di riflessione previsto dalla Direttiva, o quantomeno se l’articolo possa essere interpretato identificandola con quella.
Problematica appare in generale la relazione tra la protezione offerta dal programma di protezione ex art. 18 Tui, e quella offerta ex art. 13 L. 228/2003, che fa esplicito riferimento alle vittime dei reati di cui all’art. 600 (schiavitù e servitù) e 601 (appunto tratta) cp. Si pongono due ordini di problemi: il primo è relativo all’interpretazione di questi ultimi due articoli e in particolare del 601 cp.; il secondo riguarda il fatto che ci sono almeno altre due fattispecie del nostro codice che vengono considerate rientrare nella definizione di tratta. La prima è quella di cui all’art. 602 cp. (commercio di schiavi), che però la dottrina considera ormai implicitamente abolito dalle riforme dell’art. 601 cp.
Più interessante teoricamente e più problematico per la definizione dei destinatari di protezione per motivi di tratta è invece che il rapporto Unodc_country_profile_WC_europe del 2016 (p. 34) nel riportare i dati sulle vittima di tratta nei diversi Paesi nel quadriennio 2012-2015 includa per l’Italia anche le vittime del reato di cui all’art. 603-bis (sfruttamento lavorativo e caporalato), considerando dunque anch’essa una disposizione finalizzata alla persecuzione della tratta.
Il testo dell’art. 18 Tui sembra invece prevedere la protezione di tutte le persone che si trovano «in situazioni di violenza o grave sfruttamento», siano queste situazioni riscontrate nel corso di indagini e procedimenti penali per i reati di sfruttamento della prostituzione o per i reati per i quali è previsto l’arresto in flagranza, oppure nel corso di interventi dei servizi sociali comunali, o anche, in virtù dell’art. 27 del regolamento di attuazione del Tui, in situazioni riscontrate dalle associazioni anti-tratta[8]. Per interpretazione consolidata da questo articolo si trae la norma secondo cui la protezione è prevista solamente per le vittime dei reati per cui è obbligatorio l’arresto in flagranza e di sfruttamento della prostituzione (anche nel caso che la protezione sia chiesta attraverso il percorso sociale su proposta della associazioni). Nel concreto, come accennato, molte questure subordinano la protezione alla collaborazione processuale.
La differenza più eclatante fra l’art. 13 e l’art. 18 è però il fatto che l’art. 18 prevede che si debbano proteggere le vittime di grave sfruttamento e/o violenza solo quando «emergano concreti pericoli per la sua incolumità, per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di un’associazione dedita ad uno dei predetti delitti o delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio». Niente di simile è previsto dall’art. 13. La previsione contenuta nell’art. 18 è considerata da Giammarinaro[9], special rapporteur per l’Onu sulla tratta, una grave limitazione alla possibilità di proteggere i diritti fondamentali delle vittime. Operata l’unificazione dei due programmi, non è chiaro se questo presupposto si estenda anche all’art. 13 o almeno al proseguimento della protezione immediata nel programma di inclusione sociale ex art. 18, oppure se, almeno per le vittime dei reati riconducibili alla tratta, questo requisito vada fatto valere anche per il programma di inclusione sociale.
Molte Questure non concedono l’art. 18 alle vittime di tratta quando lo sfruttamento e la violenza sono avvenute durante il viaggio (in Libia per esempio), considerando la vicenda conclusa e il pericolo inesistente, perché individuano la protezione finalizzata solo a escludere la ritorsione per essersi sottratte allo sfruttamento o averlo denunciato. D’altra parte i documenti internazionali più recenti tendono a spostare il pericolo sull’aspetto della ri-vittimizzazione, distinguendola dalla vittimizzazione secondaria cioè dalla sofferenza di dover rivivere l’esperienza, e intendendola come concreto rischio di rivivere l’esperienza dello sfruttamento, non tanto in caso di rimpatrio, ma durante l’accoglienza, anche perché è difficile escludere che queste persone non si portino dietro un debt-bondage. Da più parti si sostiene che la protezione deve scattare anche per il solo fatto della violenza subita, che qualifica le vittime come soggetti vulnerabili.
3.1. Tipo di protezione
C’è grande discussione anche su in che cosa debba in concreto consistere la protezione delle vittime. Problematico in particolare appare il fatto che i richiedenti protezione internazionale nel sistema accoglienza sono considerati soggetti vulnerabili, particolarmente esposti alla tratta e allo sfruttamento nonostante abbiano un posto dove dormire e usufruiscano di alcuni servizi (Unodc 2017; Greta, 2017[10]). La Commissione europea (2015) in una sua comunicazione avanza addirittura l’ipotesi che le attuali reti di trafficanti di esseri umani si servano dei sistemi di asilo nei diversi Paesi europei al fine di facilitare la regolarizzazione delle vittime per agevolare il loro sfruttamento.
Questa tesi ha importanti implicazioni per la definizione della “vulnerabilità”. Per anni una tale nozione era servita per connotare soggetti che per proprie caratteristiche personali avevano difficoltà superiori alla media a fare i conti con i guai personali. Poi tale nozione ha assunto un significato diverso nell’ambito delle normative anti-tratta (Linee guida su convenzione di Palermo, Convenzione di Varsavia, Direttiva 2011/36/Ue), venendo a connotare una situazione, e non più una caratteristica personale dei soggetti. L’art. 2 della Direttiva 2011/36/Ue, definisce, infatti, la posizione di vulnerabilità come la «situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva e accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima». Tale definizione, fondamentale per identificare la tratta considerata la forma di sfruttamento che si approfitta della situazione di vulnerabilità, estende enormemente il numero di soggetti che possono essere considerati vulnerabili: molti soggetti che per caratteristiche personali non lo sono, si possono trovare in posizione di vulnerabilità per periodi più o meno lunghi della loro vita, esattamente come accade ai richiedenti protezione internazionale all’interno del sistema di accoglienza.
L’idea che siano vulnerabili, e quindi probabili vittime di tratta, le persone accolte in un Cas o in uno Sprar in attesa della decisione sul loro status estende l’ambito di questa nozione anche sotto un altro profilo. Infatti queste persone, hanno un posto dove dormire, hanno assicurato oltre la sussistenza anche molti altri servizi (dal pocket money ai corsi di lingua). Per ragioni materiali non considereremmo mai queste persone in stato di necessità o di bisogno, che è per esempio il presupposto per configurare lo sfruttamento lavorativo secondo la previsione dell’art. 603-bis cp. Evidentemente la tesi che coloro che si trovano nelle strutture di accoglienza, in attesa della decisione sul loro status, siano soggetti vulnerabili, plausibili vittime di tratta, dato empiricamente confermato da varie inchieste penali, poggia sull’angoscia di avere uno status sub judice e, in particolare in Italia, di averlo per un periodo lunghissimo.
Questa intricato intreccio tra sfruttamento e protezione pone il problema delle modalità di attuazione dei programmi di protezione delle vittime di tratta. Maria Grazia Giammarinaro[11], special rapporteur per l’Onu sulla tratta, sostiene in numerosi suoi scritti che molte vittime di tratta rifiutano la protezione perché i programmi ex art. 18 impongono quasi una reclusione, in particolare alle donne vittime di tratta. Giammarinaro[12] anche che molte donne rifiutano la protezione perché i programmi per le vittime dello sfruttamento sessuale sono pensati solo per chi voglia abbandonare la strada della prostituzione e non per chi considera l’attività di sex workers un modo di vivere almeno parte della sua vita, del suo progetto migratorio. Queste considerazione rendono sicuramente conto di molte difficoltà a far accettare la protezione alle vittime di sfruttamento. D’altra parte le situazioni che molte inchieste, ma anche molte testimonianze di operatori, rivelano svilupparsi nei centri di accoglienza mostrano il rischio che corrono le persone accolte in programmi che consentono una grande libertà di movimento, pone la necessità di bilanciare le esigenze. Probabilmente si deve aprire la discussione sull’esigenza di sviluppare programmi ad hoc, differenziati per il tipo di vittime, con criteri di accesso e di gestione molto diversi fra loro.
3.2. Non punibilità vittime di tratta autori di reato
Una protezione specifica è prevista dall’art. 26 della Convenzione di Varsavia e dall’art. 8 della Direttiva 2011/36/Ue per le vittime di tratta autori di reati, assumendo che la commissione del reato è una scelta forzata. Queste disposizioni non hanno avuto una recezione esplicita nel nostro ordinamento, è dunque importante capire quale atteggiamento è adottato dalle Procure e dalle Corti in genere per i soggetti che rientrano in questa categoria, quali standard probatori vengono chiesti per considerare la persona vittima di tratta e quanto influisce sulla non punibilità il tipo di reato commesso. Il rapporto Unodc (2016) segnala il problema delle donne vittime di tratta che iniziano a svolgere un ruolo attivo nel reclutamento di altre vittime. In Italia si pone anche il problema degli “scafisti forzati”, ovvero di quei migranti che sostengono di essere stati obbligati con la forza, o solo dalla necessità di sottrarsi alle condizioni di violenza cui erano sottoposti in Libia, a condurre un natante carico di altri migranti sulle nostre coste. La problematica è resa interessante anche dalla circostanza che sono spesso gli stessi richiedenti asilo a testimoniare contro gli scafisti nel corso dei procedimenti penali. Ci sono segnali che si stia sviluppando una giurisprudenza, per ora relativa alla fase cautelare, per opera dei Tribunali del riesame, che riconosce, spesso a fronte della collaborazione processuale, a questi soggetti di avere agito «sotto lo stato di necessità», e quindi di non potere essere incriminati per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
4. Definizione di tratta
Il problema della definizione di tratta, trasversale alla maggior parte degli aspetti problematici discussi, si pone a livello internazionale e in modo molto accentuato in Italia, dove le fattispecie penali sono state costruite stratificando nello stesso articolo la tratta intesa originariamente come commercio di schiavi o di persone da ridurre in schiavitù con le nuove definizioni elaborate dagli strumenti internazionali. L’attuale articolo 601 cp, se non fosse letto come una fattispecie a condotta plurima, ma come se legasse necessariamente la tratta alla riduzione in schiavitù (tratta di schiavi o di persone da ridurre in schiavitù) sarebbe in contrasto con la Direttiva europea del 2011 che dovrebbe recepire: la Direttiva infatti separa nettamente la tratta dalla schiavitù, non contenendo alcun riferimento a quest’ultima e definendo la tratta in modo totalmente autonomo.
Il problema a livello internazionale, che si ripercuote sulle fattispecie interne, è molto più complesso. Il protocollo di Palermo, andando necessariamente connesso alla Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale, individua la tratta come un reato compiuto da quest’ultima. La convenzione di Varsavia, come anche la Direttiva 36/20011/Eu, non richiede che l’autore della tratta sia la criminalità organizzata e prevede esplicitamente che la tratta possa essere interna. L’Onu rapidamente si orienta nello stesso modo, abbandonando la stretta definizione del Protocollo. Nel già citato Rapporto dell’Unodc si dice chiaramente che la tratta è oggi spesso praticata da soggetti familiari o che hanno rapporto di consuetudine con le vittime, e che la tratta di lungo percorso (l’unico fenomeno sul quale esista un accordo diffuso che sia tratta, quelle delle donne nigeriane o comunque sub-sahariane) è un fenomeno minoritario. La maggior parte della tratta è regionale, e per l’Europa colpisce persone provenienti dai Paesi dell’Est, mentre molto rilevante appare la “tratta interna”, cioè intranazionale. Soprattutto su quest’ultima nozione si pongono enormi problemi di definizione: cosa è la tratta interna? E per l’Italia, con il nuovo art. 603-bis cp, c’è differenza tra tratta interna a fini di sfruttamento lavorativo e sfruttamento lavorativo tout court? È per tener conto della tratta interna che il rapporto dell’Unodc include il 603-bis tra le norme rivolte alla repressione di questo fenomeno?
Dal punto di vista della pena per l’autore di reato la differenza di essere imputato per il reato di cui all’art. 601 o di cui all’art. 603-bis cp è sensibile, ma lo è anche per la vittima: per quelle del 603-bis non c’è la protezione prevista dall’art. 13 della legge 228). L’accesso all’art. 18 è sulla carta limitato, è previsto solo per le vittime della fattispecie aggravata di cui al secondo comma dell’art. 603-bis. Nella pratica quasi inesistente, si ha notizie di uno o due casi di persone in protezione ex art. 18 Tui, anche se i procedimenti penali aperti per questa fattispecie cominciano ad essere un numero rilevante[13].
Questo problema concerne la definizione di tratta anche sotto un altro aspetto: in Italia la tratta percepita è quasi solo la tratta a fine sessuali, i programmi di protezione riguardano quasi solo queste vittime. I dati di Unodc e di Greta (2014, pp 22 e 42) dicono invece che la tratta a fine di sfruttamento lavorativo è forse un problema di dimensioni più imponenti per numero di vittime.
L’inclusione della tratta interna e dello sfruttamento lavorativo nell’ambito dei fenomeni che impongono una protezione delle vittime di violenza e sfruttamento pone non pochi problemi rispetto al meccanismo di referral i cui attori non sembrano avere la consapevolezza di doversi confrontare con questo tipo di problemi.
4.1. La repressione degli utenti dei servizi offerti dalle vittime di tratta
Sia la Convenzione di Varsavia che la Direttiva del 2011 invitano gli Stati membri ad adottare disposizioni di legge nazionali per l’incriminazione dell’utilizzo consapevole di servizi di vittime di tratta di esseri umani. Nella relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio (2016, p. 4) si legge che l’Italia, sebbene non disponga di tali disposizioni esplicite, ha segnalato «che l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro in generale costituiscono reato ai sensi dell’articolo 603-bis del codice penale italiano». Quindi il Governo italiano ha ritenuto che il 603-bis rientrasse tra le misure previste dall’art. 18 (rubricato “Prevenzione”) comma 4 della Direttiva 2011/36/Ue.
È evidente, e confermato anche il fatto che l’Italia ha comunicato di non raccogliere dati distinti relativi all’utilizzo di servizi forniti da vittime della tratta (p. 7), che il Governo italiano ha indicato una disposizione normativa che punisce una condotta a prescindere dalla «consapevolezza del fatto che la persona è vittima della tratta». La Commissione non sembra, almeno implicitamente, guardare con sfavore la soluzione adottata dall’Italia di indicare una norma che sanziona i comportamenti a prescindere dalla consapevolezza di chi li tiene di utilizzare servizi di persone vittime di tratta.
Merita di essere chiarito quali ripercussioni ha sulla protezione delle vittime questa duplice classificazione dell’art. 603-bis, per le (o forse si dovrebbe dire, “nelle comunicazioni alle”) Nazioni unite, disposizione di contrasto diretto alla tratta e per (le comunicazioni al) l’Unione europea, disposizione di prevenzione mirante a scongiurare il fenomeno della tratta.
5. Peculiarità del sistema di referral dei minori e l’effettività delle tutele nel percorso di accoglienza dei Msna
La Direttiva del 2011 al Considerando 8, sottolinea che «i minori costituiscono una categoria più vulnerabile rispetto agli adulti e corrono quindi maggiori rischi di divenire vittime della tratta di esseri umani». Di conseguenza sottolinea la necessità che le sue disposizioni siano applicate «tenendo conto dell’interesse superiore del minore conformemente alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e alla Convenzione Onu del 1989 sui diritti del fanciullo». Specificando poi (Considerando 22) che «oltre alle misure a disposizione di tutte le vittime della tratta di esseri umani, è opportuno che gli Stati membri garantiscano specifiche misure di assistenza, sostegno e protezione per i minori. […] Le misure di assistenza e sostegno per i minori dovrebbero essere intese al recupero fisico e psico-sociale e ad una soluzione duratura per il minore in questione. L’accesso all’istruzione aiuterebbe il minore a reintegrarsi nella società». Infine (Considerando 23) sottolinea che gli Stati devono «dedicare un’attenzione particolare ai minori non accompagnati vittime della tratta di esseri umani, in quanto la loro situazione di particolare vulnerabilità richiede assistenza e sostegno specifici».
A queste disposizioni si è dato attuazione con la Legge Zampa. Si tratta di capire e verificare come essa abbia interferito con prassi che si sono consolidate nel corso degli anni spesso in mezzo a polemiche e conflitti. Fino ad oggi l’accoglienza dei minori sospetti vittime di tratta era afflitta in particolare dal fenomeno della loro scomparsa dal sistema dell’accoglienza. Secondo la XVII relazione, Primo semestre 2017 del Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, in Italia, a luglio 2017 risultavano scomparsi 31.635 minori migranti. Questo fenomeno è considerato da alcuni autori drammatico perché nasconderebbe migliaia di casi di sfruttamento dei minori e da altri autori invece solo la manifestazione che il nostro Paese è un Paese di transito che i minori lasciano per raggiungere loro familiari in altri Paesi europei. Un altro punto fino ad oggi critico era quello della fase di identificazione, quando molti minori, a volte sotto il controllo indiretto dei loro sfruttatori, dichiarano di essere maggiorenni. Le procedure di accertamento dell’identità dovrebbero essere gestite da operatori specificamente formati to deal with minors capaci di uno stile comunicativo e di un linguaggio child-friendly ecc., inoltre dovrebbe essere garantita la partecipazione consensuale dei minori stessi alla procedura che quindi dovrebbe svolgersi con la presenza e l’accordo del tutore che dovrebbe svolgere un fondamentale ruolo di mediazione e tutela.
Oggi in molte Regioni i minori permangono per svariati mesi in Centri di prima accoglienza del tutto inidonei, e incorrono in ostacoli amministrativi anche superiori a quelli che riguardano gli adulti[14]. La legge 46/2017 ha previsto che i minori richiedenti asilo e i minori vittime di tratta, a seguito dell’identificazione formale, siano inseriti in percorsi specifici caratterizzati per strutture adeguate ai fini della loro tutela e protezione specifica che, oltre alla prima assistenza e alla protezione, dovrebbero tendere ad un’assistenza a lungo termine e all’inclusione sociale. Non è chiaro il modo in cui la creazione di un programma unico di tutela dei minori stranieri non accompagnati, in cui vengono inseriti i minori richiedenti asilo, influisca sulla tutela delle vittime di tratta in differenti contesti regionali. C’è il rischio che esso, poi rafforzi, la tendenza già presente, che essi rimangono presi in carico da parte delle strutture di accoglienza sino al compimento del diciottesimo anno di età senza che mai si provveda all’attivazione di una procedura per l’affidamento famigliare (con la nuova attribuzione/accentramento di competenza della Legge 2017, n. 47 in campo alla giurisdizione del Tribunale per i minorenni anche rispetto alla tutela dei Minori stranieri non accompagnati, l’attivazione dovrebbe avvenire d’ufficio) con ciò ottenendo una concentrazione di minori in grandi strutture di prima e seconda accoglienza, lontane dai più piccoli numeri delle case famiglia (anche in termini economici e di finanziamento).
Conclusione: il tango e la sua ombra
In conclusione vorrei sottolineare che la definizione di una mappa del tipo di quella tracciata, in modo molto idiosincratico e senza nessuna pretesa di esaustività e completezza, ha una grande influenza sull’effettività della protezione anche perché entrambi i sistemi, quello della protezione internazionale e quello della protezione delle vittime di tratta, operano soprattutto grazie ad una rete vastissima di Associazioni ed Enti del privato sociale che hanno propri orientamenti e fini politici e che cercano nel comportamento degli organi deputati ufficialmente alla loro applicazione gli spunti e le risorse culturali per orientarsi nella loro opera. Come dire che siamo di fronte a un tango in cui non solo i due ballerini si regolano l’uno sul comportamento improvvisato dell’altro ma in cui ognuno dei due ballerini e sdoppiato in un ballerino ufficiale, istituzionale, e una sua ombra, il privato sociale, che come l’ombra di Peter Pan o quella di Peter Schlemils nel romanzo di Ablert von Chamisso[15], deve essere guidata a sua volta altrimenti agisce per proprio conto.
Breve bibliografia
Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse (2017), XVII Relazione, Primo semestre 2017, www.interno.gov.it/sites/default/files/modulistica/xvii_relazione.pdf.
Commissione europea (14 ottobre 2015), Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio europeo e al Consiglio, Gestire la crisi dei rifugiati: stato di attuazione delle azioni prioritarie intraprese nel quadro dell'agenda europea sulla migrazione, COM (2015) 510 final, http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52015DC0510&from=IT
Commissione europea (6 dicembre 2016), Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio che valuta l’impatto sulla prevenzione della tratta di esseri umani, della legislazione nazionale vigente che incrimina l’utilizzo di servizi che costituiscono oggetto dello sfruttamento legato alla tratta, in conformità all’articolo 23, paragrafo 2, della direttiva 2011/36/UE, Bruxelles, www.parlamento.it/web/docuorc2004.nsf/b02bc7eed0eda6e2c12576ab0041cf0c/cb8e3f4b22e457c3c125807d005d7a25/$FILE/ST-15198-2016-INIT-IT.pdf
Dipartimento anti tratta, Piano di azione contro la tratta e il grave sfruttamento, con 6 allegati (tra cui: 1 Meccanismo Nazionale di Referral per le Persone Trafficate in Italia, 2. Linee guida per la definizione di un meccanismo di rapida identificazione delle vittime di tratta e grave sfruttamento), Roma, www.demoproject.it/dpo/materiale/piano-dazione-contro-la-tratta-e-il-grave-sfruttamento.
D. Genovese (2017), Le sliding doors dell’accoglienza, in Questione Giustizia on line, 17/11/2017 www.questionegiustizia.it/articolo/le-sliding-doors-dell-accoglienza_17-11-2017.php
D. Genovese, (2018), Violenza di genere e protezione internazionale. Note a margine di un recente orientamento della Corte di cassazione, in questa Rivista on line, 5/2/2018, www.questionegiustizia.it/articolo/violenza-di-genere-e-protezione-internazionale-not_05-02-2018.php.
Unhcr, (2013), Al di là della prova, La valutazione della credibilità nei sistemi di asilo dell’Unione Europea, www.unhcr.it/wp-content/uploads/2016/01/Al_di_l__della_prova_-_La_valutazione_della_credibilit__nei_sistemi_di_asilo_dell_Unione_Europea_-_Maggio_2013.pdf.
Unhcr, (2016), Linee guida di protezione interazionale. L’applicazione dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967 del 2006, www.unhcr.it/wp-content/uploads/2016/01/linee_guida_protezione_int.pdf.
Unhcr, Ministero dell’interno – Commissione nazionale per il diritto d’asilo (2017), Linee Guida per le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale redatte dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo e dall’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, www.unhcr.it/wp-content/uploads/2017/09/Vittime-di-tratta-Linee-guida-compresso.pdf.
Unicri, (2010), Trafficking of Nigerian girls to Italy. The data, the stories, the social service, www.unicri.it/services/library_documentation/publications/unicri_series/trafficking_ nigeria-italy.pdf .
Unodc, (2016), Rapporto globale sulla tratta di persone, 2016, www.unodc.org/documents/data-and-analysis/glotip/2016_Global_Report_on_Trafficking_in_Persons.pdf).
[1] Icat, (2017), Trafficking In Persons And Refugee Status, http://icat.network/sites/default/files/publications/documents/ICAT-IB-03-V.2.pdf.
[2] Merita di essere sottolineato che in entrambi i casi la richiedente si era auto-identificata come vittima di tratta e aveva acconsentito all’inserimento del programma di protezione gestito dall’Ente anti-tratta cosa che avviene molto di rado e di solito dopo un lungo percorso.
[3] D. Genovese, (2018b),La tutela delle vittime di tratta di fronte alla Sezione specializzata in materia di protezione internazionale, in questa Rivista on line, www.questionegiustizia.it/articolo/la-tutela-delle-vittime-di-tratta-di-fronte-alla-s_04-05-2018.php.
[4] F. Nicodemi, (2017), Le vittime della tratta di persone nel contesto della procedura di riconoscimento della protezione internazionale. Quali misure per un efficace coordinamento tra i sistemi di protezione e di assistenza?, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 1/2017, www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/archivio-saggi-commenti/saggi/fascicolo-2017-n-1/59-le-vittime-della-tratta-di-persone-nel-contesto-della-procedura-di-riconoscimento-della-protezione-internazionale-quali-misure-per-un-efficace-coordinamento-tra-i-sistemi-di-protezione-e-di-assistenza.
[5] C. Favilli, La protezione umanitaria per motivi di integrazione sociale. Prime riflessioni a margine della sentenza della Corte di cassazione n. 4455/2018, Questione giustizia online, 14/3/2018, www.questionegiustizia.it/articolo/la-protezione-umanitaria-per-motivi-di-integrazion_14-03-2018.php.
[6] Cfr. D. Genovese (2018 b) cit.
[7] Greta, (2014), Report concerning the implementation of the Council of Europe Convention on Action against Trafficking in Human Beings by Italy, https://rm.coe.int/1680631cc1.
[8] D. Genovese, E. Santoro, (2018), L’articolo 18 (Tui) e il contrasto dello sfruttamento lavorativo: l’immaginazione giuridica tra libertà e dignità, Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, forthcoming.
[9] M.G. Giammarinaro, (2014). Verso una nuova strategia contro la tratta e lo sfruttamento, inE. Nocifora (a cura di), Quasi schiavi: paraschiavismo e super-sfruttamento nel mercato del lavoro del 21° secolo, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2014.
[10] Greta, (2017), Report on Italy under Rule 7 of the Rules of Procedure for evaluating implementation of the Council of Europe Convention on Action against Trafficking in Human Beings, https://rm.coe.int/16806edf35.
[11] M.G. Giammarinaro, (2002). L’innovazione, le prospettive ed i limiti dell’art. 18 del D.lgs. n. 286/98, in On the Road (a cura di), Prostituzione e tratta. Manuale di intervento sociale, Milano, FrancoAngeli, 2002.
[12] M.G. Giammarinaro, (2007). Il Protocollo sulla tratta degli esseri umani, in E. Rosi, Criminalità organizzata transnazionale e sistema penale italiano, Ipsoa, 2007.
[13] D. Genovese, (2018a), Nessuno più al mondo deve essere sfruttato: nuovi strumenti per una vecchia utopia, Legislazione penale, 22/3/2018, www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2018/03/Genovese-Approfondimenti.pdf.
[14] G. Di Chiara, A. Sciurba (2017), Esperienze di tutela dei minori soli richiedenti asilo e percorsi di formazione del giurista: la Clinica legale per i diritti umani di Palermo, Minorigiustizia, 3.
[15] A. von Chamisso, (1814), Peter Schlemils wundersame Geschichte, tr. It. Milano, Garzanti, 2008.