Magistratura democratica

Il ruolo dell’avvocato nel processo di protezione internazionale

di Nazzarena Zorzella

Il ruolo dell’avvocato del richiedente protezione esige una elevata capacità di analisi e una alta professionalità nello studio dei Paesi di provenienza, del tutto differenti dal contesto europeo, ma richiede, prima di tutto, la comprensione della persona umana, i suoi bisogni e la sua richiesta di giustizia. L’avvocato incontra il richiedente dopo che questi ha perso la sua complessità nel percorso amministrativo per il riconoscimento della protezione e deve ricostruire quella individualità per riuscire ad ottenere giustizia.

Quel ruolo oggi è messo a dura prova dalle recenti riforme che rendono molto elevato il rischio di una grave ed incostituzionale contrazione del diritto di difesa del richiedente protezione attraverso la cartolarizzazione del processo, la negazione dell’oralità dell’udienza, la scomparsa della persona del richiedente dalle aule di giustizia, la minaccia della revoca ex post del patrocinio a spese dello Stato

«Molte professioni possono farsi col cervello e non col cuore.
Ma l'avvocato no. L'avvocato non può essere un puro logico, né un ironico scettico, l'avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere su di sé i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce.
[...]
In realtà l’avvocatura risponde, anche nello Stato autoritario, a un interesse essenzialmente pubblico altrettanto importante quanto quello a cui risponde la magistratura: giudici e avvocati sono ugualmente organi della giustizia, sono servitori ugualmente fedeli dello Stato, che affida loro due momenti inseparabili della stessa funzione»

Pietro Calamandrei, Elogio dei giudici, pp. XXIX (edizione 1959)

1. Di quale giudizio stiamo parlando

Si può dire che il processo sia l’incontro fra tre vertici di un ipotetico triangolo: il diritto (il fatto e la legge), l’avvocato (o meglio, gli avvocati, i contraddittori) e il giudice, interprete e decisore dei primi due. Funzione, quest’ultima, così descritta da Paolo Grossi, in occasione della lezione inaugurale dei corsi di formazione 2017 della Scuola superiore della magistratura: «Entro il progetto moderno (e la sua conseguente visione del diritto) il giudice doveva adattare il fatto alla norma (una norma pensata come premessa maggiore di un procedimento sillogistico, cioè – ripetiamolo – squisitamente logico-deduttivo). Oggi, in questo nostro tempo giuridico post-moderno, il giudice, attraverso operazioni squisitamente valutative, deve comprendere il caso da risolvere e adattare la norma al fatto di vita, individuandone la più adeguata disciplina. E la sua ricerca si concretizza, appunto, in una invenzione, che è un procedimento contrario a quello sillogistico perché in essa non è coinvolta solo la razionalità del giudice con le sue capacità di logico, ma soprattutto qualità di intuizione percezione comprensione, tutte segnate sul piano assiologico»[1].

Definizione che, astrattamente, pertiene anche al giudizio della protezione internazionale, ma in cui è ancora forte il tentativo di adattare il fatto alla norma, perché la storia personale del/della richiedente asilo deve entrare e modellarsi nella cornice giuridica che il legislatore ha disegnato per dare significato ex post a quella storia, che diversamente non avrebbe senso giuridico ma esclusivamente personale ed intimo. Una cornice inevitabilmente forgiata sul diritto espresso da una società diversa e spesso lontana da quella cui appartiene il/la richiedente asilo e in cui ha origine la sua storia, il riconoscimento giuridico della quale dipende dall’incontro (o dallo scontro) tra queste diversità, che scontano in partenza, inevitabilmente, una asimmetria – una chiede, l’altra decide – e la difficoltà di mettersi in relazione proprio perché generate da mondi diversi[2].

Una peculiarità dell’istituto della protezione internazionale è rappresentato dal fatto che attraverso un procedimento (amministrativo prima ed eventualmente giurisdizionale, poi) viene definita l’intera condizione di una persona, la sua identità giuridica e sociale integrale; poiché chi è riconosciuto beneficiario della protezione assume tale condizione come principale e talvolta esclusiva e solo in un secondo momento viene rappresentata anche come lavoratore, o soggetto familiare, o attivista sociale, o altro: la sua identità rimarrà a lungo (se non per sempre) quella di rifugiato (inteso in senso lato). Una trasformazione della identità sociale e personale spesso irreversibile. Per contro, chi tale riconoscimento non otterrà, rimarrà escluso da quella identità sociale e diverrà persona giuridicamente invisibile, oltre che portatrice di un fallimento del progetto individuale di migrazione in ogni caso necessitata, anche se non rientrante nei parametri giuridici pre-definiti della protezione internazionale.

Il diritto di cui parliamo, si diceva, muove da una narrazione. Chi si occupa di protezione internazionale sa bene l’importanza che assumono le dichiarazioni del/della richiedente asilo, conosce l’imprescindibilità di estrarre da un racconto soggettivo i fatti, gli unici, che possono essere giuridicamente determinanti per il riconoscimento della tutela richiesta. Ma sa altrettanto bene quanto siano diversi i linguaggi del/della richiedente e quelli della norma, del giudice, dell’avvocato stesso e finanche dell’interprete linguistico e la difficoltà di comprendersi e di tradurre e cogliere rispettosamente il senso della storia personale. Come ha ben scritto Maurizio Veglio «Il motivo è semplice: l’irriducibile individualità dell’essere umano rende la ricostruzione di qualunque narrazione personale un faticoso percorso ad ostacoli, che richiede tempo, esperienza e grande dedizione, oltre alle competenze tecniche. Se il tavolo di lavoro è il corpo di un’umanità vulnerata e reietta, il percorso si fa labirintico»[3].

Caratteristica forse unica nel panorama giuridico, il diritto alla protezione dello straniero è costituito da una storia, da una narrazione di sé che non solo è, in parte, di impossibile verifica (si pensi al timore, stato soggettivo assolutamente personale, o ad una caratteristica del proprio sé quale un determinato orientamento sessuale, o un’adesione religiosa), ma che non può essere ordinariamente verificata con i tradizionali metodi (testimonianze, prove documentali), perché i fatti sono avvenuti in altre latitudini e in contesti quasi sempre esterni alle relazioni giuridiche formali.

Impossibilità a cui il legislatore ha posto rimedio predisponendo una griglia di criteri valutativi in caso di assenza di prove classiche, indici “rivelatori” dell’attendibilità soggettiva (art. 3, co. 5 d.lgs 251/2007), nel contempo imponendo la necessità di conferma oggettiva delle dichiarazioni, desunta dalle «pertinenti informazioni sul Paese di origine»[4]. Una storia, cioè, è credibile se compatibile con quanto si conosce del Paese da cui il/la richiedente proviene.

Un equilibrio delicato e fragile, tra credibilità soggettiva e oggettiva, in cui il ruolo del giudice è fondamentale perché a lui è affidato, da ultimo, quel compito di comprendere innanzitutto la storia per poi collocarla nella cornice giuridica; attività che deve espletare con ampia cooperazione con il/la richiedente asilo (art. 3, co. 1 d.lgs 251/2007), non potendosi fermare alla mera valutazione della credibilità soggettiva, perché troppo grande il rischio che rispetto ad essa il giudice porti nel giudizio i propri personali convincimenti. La veromiglianza di una narrazione è un ambito, infatti, troppo discrezionale se scollegato alla conoscenza della realtà del Paese di origine e dunque non possono entrare nel giudizio di riconoscimento di un diritto fondamentale i sentimenti o le opinioni del giudice, quali esse siano.

Non sempre viene operato tale collegamento, se, ad esempio, il giudice (e ancor prima la Commissione) decide che il racconto non è di per sé credibile, perché incoerente o contraddittorio o inverosimile e in tal caso ritiene che non si debba attivare quel meccanismo di cooperazione istruttoria che cerca la conferma oggettiva delle dichiarazioni nelle informazioni sul Paese di origine (Cass. ord. 7333/2015).

In questo modo, tuttavia, non si considera che la narrazione del/della richiedente asilo muove essenzialmente da un bisogno (da esplorare) e non da fatti, i quali ultimi molto spesso altro non sono che la traduzione del primo veicolata con un linguaggio che si è necessariamente adattato al sistema giuridico entro cui deve essere deciso. Il/la richiedente non parlano, quasi mai, con un linguaggio proprio, frutto cioè della propria esperienza di vita, ma con parole che sono quelle che meglio rispondono al sistema giuridico in cui si immettono.

Non è la norma che va incontro all’esperienza di vita, è l’esatto contrario.

Quel fermarsi alla credibilità soggettiva, al racconto, non tiene conto dell’adattamento che è stato imposto al/alla richiedente asilo di trasformare una propria esperienza personale in un linguaggio giuridicamente rilevante pur senza conoscere i meccanismi ed i presupposti di quel sistema nel quale la trasformazione deve avvenire. Operazione alla quale partecipano, a vario titolo, molti soggetti che di quel sistema fanno parte.

Un giudizio, dunque, singolare quello di cui stiamo parlando, segmento finale di un processo che parte dalla persona, da un corpo, e via via si trasforma, fino ad oggettivizzare la narrazione per renderla compatibile con la cornice giuridica pre-determinata.

Per evitare questo rischio, è indispensabile che il giudice veda e parli con il/la richiedente asilo, per restituirgli il corpo e la dignità della unicità del diritto preteso e per evitare le oggettive manipolazioni della storia avvenute attraverso i passaggi del procedimento amministrativo.

2. Di quale avvocato stiamo parlando

La legge sull’ordinamento forense, n. 247/2012, afferma che «L'avvocato ha la funzione di garantire al cittadino l'effettività della tutela dei diritti» (art. 2, co. 2) e il nuovo Codice deontologico forense, in vigore dal 2014, a conferma di quel dovere, così esordisce «L’avvocato tutela, in ogni sede, il diritto alla libertà, l’inviolabilità e l’effettività della difesa, assicurando, nel processo, la regolarità del giudizio e del contraddittorio» (art.1).

È questa l’essenza del “fare” l’avvocato/a, partecipare all’obbligo costituzionale di garantire a tutti l’inviolabilità del diritto di difesa, necessario strumento di collegamento tra la persona che aspira, pretende, invoca giustizia e la giustizia stessa, intesa non come verità ma come decisione resa da un organo imparziale, indipendente, autonomo dal potere esecutivo, cioè libero. Caratteristiche, queste ultime, che non sono però riferibili al diritto, che non è mai neutro e/o imparziale ma espressione di un dato contesto sociale, storico, politico e dunque delle regole accettate da quella comunità e spesso dalla sua maggioranza. Ancor meno neutro, anzi neutrale, è l’avvocato, che, in qualsiasi contesto, per definizione può stare solo da una parte, quella che invoca giustizia e non sempre l’ottiene; ma perché il bisogno di giustizia non sia mortificato, a prescindere dall’esito di una causa, è necessario che siano innanzitutto rispettate le regole del gioco e che tutti i protagonisti svolgano adeguatamente il proprio ruolo, nel rispetto reciproco.

In quel delicato equilibrio, di cui s’è detto, tra storia e sua ricomprensione nella norma, partecipa anche l’avvocato, il cui ruolo è fondamentale perché interviene prima del giudizio e l’attività che è tenuto a svolgere riguarda, innanzitutto, proporre un racconto che rientri nella cornice giuridica pre-definita, evidenziando gli aspetti che possono condurre al riconoscimento (ex post) di un diritto che preesiste. Non si tratta di manipolare la storia, come taluni impropriamente sospettano, ma di enucleare, da un punto di vista tecnico, i fatti che siano pertinenti alla norma. Attività non facile, a partire dal fatto che quando il/la richiedente asilo arriva dall’avvocato, la storia è già stata mediata un’infinità di volte e da molti soggetti: in Questura (davanti a cui viene formalizzata la domanda nel Modello C3, a cui va allegata breve storia delle ragioni), con gli operatori sociali della struttura di accoglienza ove è ospitato (che raccolgono, se la raccolgono, la memoria), in sede di audizione davanti alla Commissione territoriale (con trascrizione dell’intervista). Un percorso di elaborazione e rielaborazione che Elisa Mencacci, richiamando Jan Blommaert, definisce la «“traiettoria del testo” che parte da una fonte orale diretta, progressivamente soggetta, tramite domande, note e appunti finalizzati a continue micro-trasformazioni nella conformazione del racconto, con l’intento di renderlo un oggetto stabile, fisso e non soggetto ad ambiguità»[5].

Una narrazione, dunque, trasformata, ma non per questo inveritiera, che si adatta alle esigenze del mondo in cui viene rappresentata.

Talvolta accade, però, che nessuno abbia raccolto appropriatamente la storia e dunque l’unico documento che l’avvocato/a si trova davanti, prima della redazione del ricorso, è il verbale di audizione, spesso frettolosa e/o sintetica trascrizione di un racconto e di un’esperienza di vita inevitabilmente più ampia e complessa (dipende dalla capacità del commissario di condurre un’adeguata intervista nel rispetto delle regole impartite dalle Agenzie umanitarie istituzionali[6]), in ogni caso insufficiente da sola a prepararsi per la fase giudiziale.

Ma anche nell’ipotesi, ad oggi quasi sempre teorica, di un’audizione e di una memoria adeguate, l’avvocato/a non potrà mai accontentarsi di quei documenti ma dovrà, come in tutte le relazioni professionali forensi e ancor più in questa, parlare con la persona, farsi raccontare la sua storia, perché è la persona al centro del diritto, è essa stessa il diritto (se riconosciuto). Essere rifugiati, infatti, è una condizione nella quale il corpo (fisico e mentale) è oggetto di minaccia e dunque il corpo è l’essenza del diritto di cui si chiede il riconoscimento.

L’avvocato/a (ma, in genere, tutti coloro che, a vario titolo, incontrano il/la richiedente) deve essere consapevole che sta esercitando una sottile violenza dell’intimità della persona, costringendola ad esporre, ancora una volta pubblicamente, se stessa, la sua vicenda, le sue debolezze (la paura è quasi unanimemente ritenuta tale), i suoi progetti. Necessità dettata non da una relazione intima ma professionale, anche se rispetto ad altri soggetti istituzionali davanti ai quali il/la richiedente deve raccontarsi, l’avvocato è per definizione e per funzione dalla sua esclusiva parte e perciò un po’ più facilitato nell’empatia.

L’avvocato/a più e prima degli altri attori del processo deve, infatti, avere empatia[7] con il/la richiedente asilo, che riguarda in primo luogo la persona stessa, il bisogno che l’ha spinta a muoversi in condizioni rischiose, talvolta fatali, dalla propria terra ad altri luoghi del mondo, alla ricerca del rispetto della propria dignità, indifferente che trovi origine in una persecuzione politica classica o in minacce davanti alle quali lo Stato non ha offerto protezione o nella fuga dalla miseria. Come insegna Calamandrei, l’avvocato deve «comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere su di sé i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce.» È un investitura difficile, anche e soprattutto sul piano umano, perché difficilmente si rimane indifferenti alle sofferenze e alle ansie di cui sono portatori tutti, indistintamente, i/le richiedenti asilo, anche coloro che hanno le storie più “deboli” sotto il profilo giuridico, perché tutte esprimono una sofferenza di vita. E il primo compito dell’avvocato è di comprendere quella sofferenza.

Una volta stabilito questo rapporto, non sempre facile ed immediato ma necessario, comincia la parte altrettanto complessa, cioè la ripetizione della narrazione ma su una trama che viene definita insieme, il/la richiedente e l’avvocato e spesso l’interprete, se non sono ancora acquisite sufficienti conoscenze linguistiche.[8] Certo, la costruzione della trama non avviene su un piano di parità (il/la richiedente asilo non è mai pari davanti a nessun soggetto che partecipa al complesso procedimento di riconoscimento della protezione), l’avvocato possiede gli strumenti tecnici per comprendere come collocare la storia nella cornice giuridica adeguata, come far emergere alcuni suoi aspetti che magari in precedenza non sono stati valorizzati correttamente o che non sono emersi affatto. Di questa asimmetria dei ruoli l’avvocato/a deve essere consapevole sempre, senza che ciò sia confuso con la manipolazione della storia, che rappresenterebbe un tradimento della fiducia con il cliente e con il dovere di correttezza. Invece il guidare il/la richiedente dalla storia al diritto non è manipolazione ma attività necessaria per far incontrare il fatto con la norma, finalità della professione forense e obiettivo del/della richiedente.

Va detto che questa attività, di ricostruzione della vicenda, sarebbe opportuno intervenisse prima dell’audizione davanti alla Commissione territoriale ma è impresa impossibile, data la sproporzione del numero dei richiedenti asilo rispetto agli avvocati che esercitano con competenza in questo settore: e dunque nella stragrande maggioranza dei casi, il/la richiedente, in tutta la fase precedente il ricorso, è solo/a di fronte ad un sistema giuridico estraneo ma nel quale è tenuto/a ad entrare. Solitudine che potrebbe essere in parte risolta con la figura dell’operatore legale, che si sta pian piano presentando sulla scena, dotato di competenze sociali giuridiche sociologiche e antropologiche, in grado pertanto di comprendere e raccogliere adeguatamente la memoria del richiedente. La frammentarietà e l’inadeguatezza dell’attuale sistema di accoglienza ne sta, però, rallentando il consolidamento e non può dirsi sia una realtà diffusa, anzi. 

In questo scenario istituzionale, oggettivamente inadeguato, l’avvocato/a è l’ultima possibilità per il/la richiedente di far valere il proprio diritto e il fatto di arrivare al termine di un percorso amministrativo al quale è stato completamente estraneo, ma che incide profondamente sull’esito della stessa attività difensiva, rende la sua attività per niente semplice.

Proprio perché arriva nel segmento finale della procedura, all’avvocato/a si pone anche il problema di “scegliere” il tipo di domanda giudiziale da presentare al giudice, fra le tre forme di tutela contemplate dall’ordinamento (rifugio, protezione sussidiaria, protezione umanitaria). Scelta non facile di per sé, da compiere nel rispetto dei presupposti indicati dalla legge per quelle tre tutele, ma che porta con sé l’ennesimo esercizio di un potere che lascia in disparte la persona in nome e per conto della quale viene effettuata.

Se mai fosse possibile delineare una scala di difficoltà, questa sarebbe al vertice, perché, a ben vedere, rischia di costituire la preventiva censura di un bisogno, astrattamente affidata ad altro soggetto, cioè al giudice. Rischio tanto più forte se l’avvocato/a ritenga che non ci siano i presupposti per nessun tipo di contestazione giudiziale della decisione negativa della Commissione territoriale.

Ma la questione è: può un/una avvocato/a escludere preventivamente una forma di tutela e dunque l’azione giudiziale per ottenere una delle tre forme di protezione?

Secondo chi scrive no, non è possibile e non solo perché al bisogno di giustizia va sempre data risposta, ma soprattutto perché in una materia complessa quale quella della protezione internazionale ed umanitaria, con soggetti portatori di bisogni in essa astrattamente comprendibili perché provenienti da contesti geografici sociali e politici nei quali diffuse sono le violazioni o “semplicemente” le negazioni di diritti umani fondamentali, una effettiva tutela è, astrattamente, sempre riconoscibile. Pertanto è dovere dell’avvocato/a portare quel bisogno davanti al giudice e cercare di farlo ricomprendere nella cornice giuridica appropriata, perché quello è il suo ruolo. La stessa interpretazione giurisprudenziale della materia qui in esame conferma quanto detto, giacché, ad esempio, con riguardo alla protezione umanitaria vi è stata nel tempo una notevole evoluzione interpretativa, culminata con la recentissima sentenza della Cassazione n. 4455/2018, impensabile fino a pochi mesi prima. Evoluzione derivata da un intenso dibattito tra gli operatori del diritto che partecipano al complesso sistema, che pian piano cercano di riempire un contenitore giuridico (art. 5, co. 6 Tu 286/98) di matrice costituzionale, di per sé indeterminato ma che si definisce anche grazie all’attività forense che propone determinate linee interpretative ed applicative.

3. Di quale richiedente asilo stiamo parlando

Anche se formalmente lo status di protezione internazionale viene riconosciuto rispetto ad una condizione soggettiva preesistente, rifugiati si diventa[9], attraverso un procedimento, amministrativo e/o giurisdizionale, nel quale è paradossalmente secondario il ruolo della persona richiedente asilo.

Innanzitutto quello status è preceduto dalla definizione giuridica di “richiedente asilo”, che chiede detto riconoscimento, passando attraverso una serie di “confronti” con vari soggetti istituzionali, dalle Questure, alle Commissioni, al giudice, in cui nel mezzo stanno gli operatori delle strutture di accoglienza e l’avvocato (se all’esito vi è un diniego di riconoscimento).

Un percorso lungo ed articolato nel quale la persona è tenuta ad esporre sempre, ma con modalità differenti, la propria storia, talvolta quella anagrafica e di migrazione (in sede di formalizzazione della domanda, con il Modello C3), altre volte raccontando le situazioni dalle quali è fuggito (raccolta della memoria da parte degli operatori), altre ancora cercando di enucleare dalla propria storia i fatti che possono essere rilevanti per il riconoscimento (audizione davanti alla Commissione territoriale), poi ancora davanti all’avvocato/a (ricostruendo il detto e il non detto), infine davanti al giudice (se disposta la comparizione personale nel giudizio).

In tutti questi passaggi, il/la richiedente perde la propria centralità di persona e diventa oggetto da esplorare, talvolta per fare emergere ciò che la norma chiede, talaltra per scoprire eventuali (ritenute) menzogne incompatibili con la norma e gli attori che partecipano a questo processo di spoliazione sono tanti e sono tutti, perché a tutti è stato dato il compito di indagare la credibilità del/della richiedente asilo. In ogni caso, chiunque “gestisce” il segmento procedurale esercita un potere di selezione della storia del/della richiedente asilo e, come ha bene evidenziato B. Sorgoni, «le ripetute azioni di raccolta, traduzione e trascrizione delle storie dei richiedenti asilo da parte di funzionari e operatori durante lo svolgersi della procedura fungono da filtro rispetto alle storie stesse, fino a depotenziarle e svuotarle di significato e a funzionare a detrimento della loro stessa coerenza e credibilità».[10].

Chi, dal lato non istituzionale del tavolo, si occupa di protezione internazionale coglie talvolta una certa insofferenza, ma più spesso dolorosa rassegnazione, da parte di chi deve per l’ennesima volta raccontarsi, esporsi pubblicamente per essere valutato, come in un puzzle che sarà composto solo con la decisione finale, sia essa negativa o positiva. Capita che in occasione dell’ennesimo racconto di sé, il/la richiedente pianga, talvolta rievocando le sofferenze patite, altre volte perché con le lacrime esprime la sofferenza della reiterata esposizione pubblica della propria intimità.

Paradossalmente, solo chi non sarà riconosciuto beneficiario di protezione riacquisterà integralmente la propria identità soggettiva, il proprio corpo completo, e la sua narrazione tornerà ad essere esperienza di vita indefinibile, come tutte le altre. Insofferenza e sofferenza che sottendono quello che è stato definito il «diritto all’opacità» del/della richiedente asilo, cioè il «diritto che oppone un rifiuto, spesso implicito, che rivendica una complessità e che resiste contro la richiesta di trasparenza, di esibizione. Un diritto che rifiuta di accomodarsi all’interno di identificazioni preordinate, oppressive: quelle che più di tutte rendono l’altro silente»[11].

Ma se il/la richiedente asilo vuole avere protezione, deve sottostare a quel processo frammentato di de-costruzione della propria narrazione e ri-costruzione giuridica della stessa, deve diventare oggetto di esplorazione, in più luoghi e davanti a più soggetti, deve, in definitiva, perdere il suo essere protagonista. Qualcuno si sottrae a questo meccanismo, rimanendo o tornando nell’invisibilità, perché l’agognato “documento” (il permesso di soggiorno) che lo emancipa dalla condizione di “bisognoso”, non è ritenuto così importante per la dignità individuale comunque riacquistata in un luogo diverso da quello ove casualmente è nato e da cui è fuggito.

Anche per questa ragione molti/e richiedenti asilo spariscono dal mondo giuridico e si disperdono sul territorio reale, certamente emarginati ma non più frammentati e negati.

4. Il nuovo giudizio della protezione internazionale: l’habeas corpus negato

In un sistema nel quale il corpo del/della richiedente asilo sfuma lungo il percorso amministrativo preordinato al riconoscimento o al diniego della protezione internazionale o umanitaria, in cui assumono rilievo le sole dichiarazioni e non la complessità della persona, in cui le dichiarazioni stesse sono trasformate in linguaggio giuridicamente accettabile, è necessario che il/la richiedente asilo si riappropri di sé, quantomeno nella parte finale, ovverosia davanti al giudice. Il diritto d’asilo non può, infatti, essere ridotto a semplici parole staccate dal corpo di chi le pronuncia, non può essere mera lettura di carte che di per sé, oggettivamente, non esprimono la parola di chi l’ha pronunciata ma di chi la trascritta. Un diritto che deve potersi esprimersi attraverso tutti i linguaggi della persona, perché è la persona che reca in sé il diritto.

Se anche il giudice è chiamato a comprendere, prima che a giudicare, la narrazione del/della richiedente asilo, non può prescindere dalla relazione diretta e fisica, perché solo attraverso di essa può restituire al/alla richiedente la propria individualità e specialità. Del resto, si ritiene che il giudice debba rivalutare ex novo la richiesta di tutela, in attuazione dell’art. 46 della Direttiva 2013/32/Ue, secondo cui «gli Stati membri assicurano che un ricorso effettivo preveda l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/Ue, quanto meno nei procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado».

Per questo, è irrazionale la riforma del giudizio della protezione internazionale del 2017 che ha formalizzato una estesa ma non condivisa prassi processuale precedente, escludendo in via generale il diritto alla comparizione del/della richiedente asilo davanti al giudice, consentendola solo in certi casi.[12]

Nemmeno la visione della videoregistrazione dell’audizione davanti alla Commissione, prevista dalla riforma del 2017 e che dovrebbe sostituire la comparizione davanti al giudice, può ritenersi assolvere alla imprescindibilità dell’ascolto diretto del/della richiedente asilo, perché la rappresentazione per immagini è di per sé una mediazione e dunque un’ennesima trasformazione del linguaggio. Senza dimenticare che la videoregistrazione in sé può rappresentare una forma sottile (nemmeno tanto) di violenza, immettendo in uno strumento cinematografico l’intimità di una persona, ma, soprattutto, non è azzardato ipotizzare che nessun giudice guarderà, prima di decidere, la videoregistrazione, se è vero che quell’ora (mediamente) di tempo della visione impedirà di accelerare il giudizio, finalità proclamata dalla riforma Minniti-Orlando del 2017.

E allora succederà che il giudice leggerà solo le carte del processo, oggettivizzando ciò che non può esserlo.

Succederà anche (e già accade) che neppure l’avvocato/a potrà interloquire con il giudice, se si ritiene non obbligatoria l’udienza, cartolarizzando totalmente il giudizio e confinando l’avvocato a semplice scrittore.

Calamandrei ricordava che «Il processo si avvicinerà alla perfezione quando renderà possibile tra giudici e avvocati quello scambio di domande e risposte che si svolge normalmente tra persone che si rispettano, quando, sedute intorno a un tavolino, cercano nel comune interesse di chiarirsi reciprocamente le idee»[13].

C’è invece il rischio che il giudizio della protezione internazionale vada in senso completamente opposto, negando il diritto non solo al/alla ricorrente di vedere il proprio giudice, ma anche all’avvocato/a di svolgere una parte essenziale della sua funzione.

La cartolarizzazione del processo è la negazione, anche, del diritto al legittimo contraddittorio, inteso come possibilità per entrambe le parti in giudizio di esprimere le rispettive posizioni e richieste, su un piano di parità, al fine di convincere il giudice – terzo ed imparziale – quale sia la prospettazione giuridica accoglibile. La diversità delle posizioni delle due parti contrapposte – il/la richiedente asilo e il suo avvocato, la Commissione territoriale e il Ministero dell’interno – è lampante se si ha conoscenza effettiva di quanto accade in tutto il percorso precedente il giudizio. Come già evidenziato, la storia personale del/della richiedente è raccolta, sommariamente o meno, da vari soggetti (le Questure, gli operatori dell’accoglienza) e la persona arriva in Commissione presentandosi quasi sempre sola per essere intervistata, talvolta interrogata, sulla sua storia, quasi mai preparata adeguatamente per quella audizione, cioè senza essere informata su quali elementi saranno giuridicamente rilevanti, con l’ausilio di un interprete, non professionalizzato, cioè non preparato a comprendere il significato delle parole.

È una dimensione nella quale le parti non sono oggettivamente su un piano di parità, né formale né sostanziale: l’uno esplora, l’altro è esplorato, l’uno esercita il potere di valutare (o giudicare o indagare), l’altro/a lo subisce; in cui la tempistica dell’audizione dettata dal Ministero/Commissione nazionale asilo è di per sé incompatibile per una adeguata esplorazione della vicenda e comporta che spesso non vengano chiesti chiarimenti su aspetti sui quali, dopo il diniego di riconoscimento della protezione, lavorerà l’avvocato/a per portare in giudizio la richiesta. Fino ad oggi quell’intervista viene trascritta in un verbale, domani sarà accompagnata dalla videoregistrazione ma in quel segmento procedimentale il richiedente non ha in concreto, si è detto, l’assistenza di un avvocato. In quella fase, dunque, una parte è completa ed esprime appieno tutte le proprie funzioni (la Commissione), mentre l’altra no (il richiedente) e quando entrambe si “ritrovano” nel processo, l’una rimane integra, l’altra no, perché non può completarsi nemmeno con la figura dell’avvocato, ridotto, come si è detto, a semplice scrittore e non rappresentante (anche) fisico della parte che chiede giustizia. Poiché nel giudizio della protezione internazionale la credibilità delle dichiarazioni del/della richiedente asilo riguarda sia quella cd. intrinseca (completezza delle dichiarazioni, loro coerenza e non contraddittorietà), sia quella estrinseca (coerenza con le pertinenti informazioni sul Paese di origine), è palese l’importanza che per la prima assume il verbale di audizione, che se contiene contraddizioni con quanto si scrive nel ricorso, potrà legittimare la valutazione negativa della credibilità, e dunque del diritto, ritenuto menzognero.Ma se l’intervista e la verbalizzazione sono assunte su un piano non paritario, se alla parte ricorrente è negato il diritto di giustificare eventuali contraddittorietà o carenze, è evidente che quella disparità entrerà anche nel giudizio, negando il diritto al legittimo contraddittorio, cioè alla parità delle posizioni.

Disparità e violazione alle quali si potrebbe porre rimedio solo con la comparizione personale del/della richiedente davanti al giudice, insieme al suo avvocato, potendo in quella sede ultima, costituzionalmente garantita, giustificare le asserite contraddizioni, nello spirito di cooperazione imposto a tutte le autorità che partecipano a questo procedimento (ex art. 3 d.lgs 251/2007). Se, però, né il/la richiedente né l’avvocato possono comparire, nessun rispetto della parità può rinvenirsi.

In questo modo si completa la totale spoliazione del corpo del richiedente asilo, iniziata dopo l’arrivo (spesso fortunoso) in Italia, quando la persona diventa numero attraverso il braccialetto che viene apposto negli hot-spot, che prosegue con la collocazione in una struttura di accoglienza a seconda del numero ritenuto compatibile con la distribuzione razionale sul territorio o con la volontà del territorio di accogliere, che passa attraverso una compressione del tempo di intervista davanti alla Commissione territoriale per velocizzare i tempi, che, infine, diventa numero ritenuto incompatibile con l’efficienza del sistema giudiziario perciò escludendo l’udienza e la comparizione della persona portatrice del diritto di protezione.

Ed il principio dell’habeas corpus, inteso qui come diritto di essere presente fisicamente davanti al giudice, se completamente negato rischia di sacrificare irreversibilmente il diritto di asilo costituzionalmente garantito.

Possibili conclusioni

Nel contesto dianzi descritto, non solo, va ribadito, la persona del richiedente rischia di sparire davanti al giudice, ma lo stesso ruolo dell’avvocato viene totalmente ridimensionato e confinato ad un ruolo formale, come ha dimostrato anche il tentativo del Tribunale di Venezia di concordare protocolli di gestione dei giudizi di protezione, assurto agli onori della cronaca.

Riuscirà la giurisprudenza a porre rimedio al rischio di tale grave contrazione del diritto di difesa?

La mortificazione del ruolo dell’avvocato della Protezione internazionale ha trovato un’ulteriore occasione, in relazione al regime dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, nella recente riforma Minniti-Orlando che ha introdotto una significativa modifica, prevedendo che, in caso di rigetto del ricorso proposto dal richiedente asilo verso il diniego della Commissione territoriale, il giudice debba motivare perché non revochi l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato cui il/la ricorrente sia stato ammesso/a in via anticipata e provvisoria dal Consiglio dell’ordine degli avvocati. Previsione che riguarda non i ricorsi contro tutte le decisioni negative prese in sede amministrativa ma solo quelle che sono dalla Commissione territoriale dichiarate «manifestamente infondate» (cioè nelle quali le ragioni indicate a motivo della richiesta di protezione non hanno attinenza con la protezione internazionale o in caso di domande reiterate senza che siano stati presentati nuovi elementi).

La non attinenza con gli istituti della protezione internazionale, tuttavia, è qualificazione discrezionale assunta da un organo amministrativo, esattamente quello contro cui viene proposto il ricorso e che è parte processuale, dunque con una posizione che dovrebbe essere di parità con il ricorrente. Invece no, la revoca del patrocinio a spese dello Stato è automatica ed ordinaria, salvo motivare eccezionalmente la non revoca, se il giudice ritenga che quella parte pubblica (che sempre parte è) abbia avuto ragione a negare il riconoscimento. Si tratta di un incentivo a limitare la proposizione dei ricorsi, assegnando alle Commissioni un ruolo para-giurisdizionale, totalmente estraneo all’ordinamento giuridico italiano, perché non vi è pubblica amministrazione che abbia pre-giudizialmente un simile vantaggio.

Misura processuale che modifica per i soli giudizi della protezione internazionale l’istituto del diritto al patrocinio a spese dello Stato (dPR 115/2002), di natura costituzionale, poiché in tutti i procedimenti la revoca ha per presupposto la mala fede, la colpa grave o l’insussistenza dei requisiti originari per l’ammissione. Non è questa la sede per disquisire più a lungo su questa questione, basti però richiamare la pronuncia della Corte costituzionale, n. 220/2009, che riconosce il potere di revoca del beneficio solo a fronte di colpa grave o mala fede nella proposizione del giudizio, cioè a fronte di un abuso del diritto[14], che non può mai coincidere con il mero rigetto dell’azione giudiziaria[15].

Pare, a chi scrive, che nella “materia” della protezione internazionale non si possa mai parlare di abuso del diritto e, casomai, potranno essere penalizzati quegli avvocati, che pur esistono, che sfruttano il fenomeno dei richiedenti asilo per mere finalità economiche, proponendo ricorsi ai limiti della correttezza professionale, senza alcuna preparazione e serietà.

Poiché il sistema prevede già rimedi a tali approcci, non si comprende la ragione della generalizzata previsione della legge 46/2017, se non in un’ottica di far terra bruciata intorno ai richiedenti asilo, tenuto conto che saranno sempre meno gli avvocati che, pur svolgendo seriamente la professione, si esporranno al rischio di lavorare gratis.

In definitiva, è il sistema giuridico democratico che viene intaccato e le prime vittime sono le/i richiedenti asilo, le persone che più di ogni altro sono oggettivamente deboli perché prive della protezione del loro Stato, anche se non è detto che l’erosione si fermi a loro e non si estenda, invece, ad altre categorie socialmente fragili. È questa la scommessa che si sta giocando, senza la dovuta consapevolezza, nella protezione internazionale. A meno che la Corte Costituzionale non ponga rimedio a questa grave ferita.

[1] P. Grossi, La invenzione del diritto: a proposito della funzione dei giudici, Scuola superiore della magistratura, lezione inaugurale dei corsi di formazione per l’anno 2017, www.scuolamagistratura.it/images/2017/Inaugurazione/Lezione%20Scandicci%20Pres_Grossi.pdf.

[2] Si vedano: B. Sorgoni, Chiedere asilo. Racconti, traduzioni, trascrizioni, in B. Pinelli (a cura), Migrazioni e Asilo Politico, Antropologia. Annuario, a. XIII n.15, pp. 131-151, www.ledijournals.com/ojs/index.php/antropologia/article/view/188/181. E. Mencacci, Tra tecnologie del ricordo e produzione di verità: memoria e narrazione nelle politiche di asilo, in Encyclopaideia XIX (41), 61-82, 2015. M. Veglio, Uomini tradotti. Prove di dialogo con richiedenti asilo, in Diritto, immigrazione e cittadinanza n. 2.2017 -  www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it.

[3] M. Veglio, cit., p. 2.

[4] Oltre all’art. 3 d.lgs 251/2007 anche gli artt. 8 e 27 d.lgs 25/2008, vere e proprie regole di giudizio, come affermato da M. Acierno e M. Flamini, Il dovere di cooperazione del giudice, nell’acquisizione e nella valutazione della prova, in Diritto, immigrazione, cittadinanza n. 1.2018, www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it.

[5] E. Mencacci, cit., pag. 70.

[6] UNHCR, Intervistare i richiedenti asilo, www.unhcr.it/wp-content/uploads/2016/01/6intervistare-i-richiedenti-asilo.pdf. UNHCR, Al di là della prova. La valutazione della credibilità nei sistemi d’asilo dell’Unione Europea, www.unhcr.it/wp-content/uploads/2016/01/Al_di_l__della_prova_-_La_valutazione_della_credibilit__nei_sistemi_di_asilo_dell_Unione_Europea_-_Maggio_2013.pdf, EASO, Guida pratica dell’EASO: il colloquio personale, www.easo.europa.eu/sites/default/files/public/EASO-Practical-Guide-Personal-Interview-IT.pdf.

[7] Vocabolario Treccani: empatìa s. f. [comp. del gr. ἐν «in» e -patia, per calco del ted. Einfühlung (v.)]. – In psicologia, in generale, la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale. Più in partic., il termine indica quei fenomeni di partecipazione intima e di immedesimazione attraverso i quali si realizzerebbe la comprensione estetica.

[8] Personalmente, preferisco sempre la conversazione diretta e l’intervento dell’interprete solo di fronte a difficoltà di comprensione. Non sempre, però, è possibile e allora diventa fondamentale la capacità del mediatore linguistico, per comprendere l’esatto significato di un segmento del racconto. Mi è capitato, ad esempio, di capire il significato del bois sacrè in Senegal attraverso il racconto dell’interprete che, notando la difficoltà a spiegarsi di colui che stava assistendo, mi ha raccontato che in un certo campionato mondiale di calcio il Presidente del Senegal fece ricorso al bois sacrè per invocare un aiuto per la squadra di calcio nazionale (che in effetti vinse la partita).

[9] Sorgoni, cit. p. 4.

[10] B. Sorgoni, cit. p. 8.

[11] M. Massari, Il corpo degli altri. Migrazioni, memorie, identità, Napoli-Salerno, Orthotes Editrice, p. 14.

[12] Art. 35-bis d.lgs 25/2008, introdotto dal Dl 13/2017 conv. con modifiche in legge 46/2017.

[13] Opera cit., pag. 78.

[14] Cass. civ. 21570/2012; 24546/2014; 17461/2014; 1719/2017; 20270/2017; 7726/2016.

[15] In molti Fori, invece, tale automatismo – rigetto/revoca – avviene di default, come davanti alla Corte d’appello di Bologna.