Magistratura democratica

L’Unione che protegge
e l’Unione che respinge.
Progressi, contraddizioni e paradossi del sistema europeo di asilo

di Chiara Favilli

L’interazione tra l’ordinamento dell’Unione europea e l’ordinamento italiano determina, in taluni casi, un progresso nel livello dei diritti garantiti, in altri, una regressione. I rischi insiti nell’adozione delle nozioni di Paese sicuro, così come nelle modifiche alle regole sul processo adottate in Italia, devono essere inquadrati nella tutela multilivello della protezione internazionale e superati attraverso la cartina di tornasole della garanzia dello standard più elevato della tutela. Le difficoltà insite nel processo di integrazione europea si riflettono anche nella costruzione della politica di asilo, con uno spiraglio offerto dalla risoluzione del Parlamento europeo sulla riforma del regolamento Dublino.

1. La competenza dell’Unione in materia di asilo

La politica dell’Unione in materia di asilo è uno dei segmenti costitutivi dello “Spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, vale a dire lo spazio dato dall’insieme dei territori degli Stati membri nel quale la libertà di circolazione deve essere goduta in condizioni di sicurezza e giustizia uguali per tutti[1]. Essa è stata configurata come una competenza concorrente, suscettibile di essere esercitata attraverso l’adozione di norme comuni, così consentendo all’Unione di adottare qualsiasi atto legislativo, anche di armonizzazione, nel rispetto dei principi di proporzionalità e di sussidiarietà.

L’attuale assetto della competenza è il risultato del progressivo superamento della tradizionale riluttanza degli Stati ad accettare limitazioni di sovranità relativamente al trattamento dello straniero. È stato però preliminarmente necessario passare per la fase dei tre pilastri dell’Unione post Maastricht, per la fase intermedia post Amsterdam e ricorrere anche alla conclusione di accordi di diritto internazionale, quali la Convenzione di Schengen del 1985 e la Convenzione di Dublino del 1990, entrambe ora incorporate nel diritto Ue, ma solo grazie ad un’articolata applicazione differenziata. Abbiamo infatti Stati membri dell’Unione che non sono vincolati dalle norme Ue, salvo una decisione in tal senso (Regno unito e Irlanda); uno Stato membro che risulta vincolato solo a titolo di diritto internazionale (la Danimarca); Stati terzi che partecipano grazie alla conclusione di specifici accordi internazionali (Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda)[2]. Un’Europa, dunque, a geometria variabile sia per gli Stati coinvolti sia per la natura giuridica degli obblighi vigenti.

Come traspare dai primi documenti pubblicati dalla Commissione europea all’indomani dell’attribuzione di competenza all’Unione in questo settore, le aspettative circa il ruolo positivo che l’Unione avrebbe potuto svolgere erano molto elevate. Lo stesso emerge dalle conclusioni del Consiglio europeo concordate a Tampere nel 1999[3],dove si trova affermato che la libertà, tipica dello spazio europeo, costituisce un motivo di attrazione per tutte quelle persone che altrove non possono godere di analoga libertà e che «l’obiettivo è un’Unione aperta, sicura, pienamente impegnata a rispettare gli obblighi della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati e di altri importanti strumenti internazionali per i diritti umani e capace di rispondere ai bisogni umanitari con la solidarietà». Nei successivi Consigli europei e soprattutto dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 e dell’11 marzo 2004, l’agenda di lavoro concordata a Tampere è stata radicalmente modificata, qualificando come prioritari la lotta al terrorismo e alla criminalità internazionale e considerando tutte le restanti misure, soprattutto quelle in materia di asilo e immigrazione, tendenzialmente funzionali ad essa. Tale approccio non è cambiato e, anzi, la cd. “crisi dei migranti” lo ha rafforzato, complice anche un certo protagonismo dei ministri e dei funzionari dei Ministeri dell’interno nelle istituzioni e negli organismi europei responsabili delle politiche di immigrazione e asilo[4].

Sulla base degli orientamenti del Consiglio europeo, le istituzioni hanno creato un Sistema europeo d’asilo, realizzato attraverso due fasi successive, caratterizzate da un diverso livello di armonizzazione delle legislazioni nazionali, con la disciplina di tutti gli aspetti rilevanti del sistema di protezione: l’accoglienza, le procedure, le qualifiche e la determinazione dello Stato competente[5]. Per favorire la corretta attuazione e applicazione delle norme dell’Unione è stato anche creato l’Ufficio europeo per il sostegno dell’asilo in corso di trasformazione nell’Agenzia europea per l’asilo[6].

2. Il sistema europeo di asilo e i vincoli internazionali

Al momento dell’attribuzione all’Unione della competenza in materia di asilo, tutti gli Stati membri erano già vincolati da obblighi derivanti dal diritto internazionale, sia pattizi sia di natura consuetudinaria. Oltre alla Convenzione di Ginevra, rilevano particolarmente il Patto sui diritti civili e politici, la Convenzione delle Nazioni unite contro la tortura, la Convenzione europea dei diritti umani e la Convenzione europea contro la tortura[7]. Tutti accordi corredati da organismi di monitoraggio o da una vera e propria Corte internazionale come la Corte Edu, che negli anni hanno offerto interpretazioni articolate delle regole convenzionali, anche in relazione a prassi mutevoli a seconda delle epoche e delle aree geografiche interessate.

L’Unione non è direttamente parte di tali strumenti internazionali, che sono però espressamente richiamati all’art. 78 Tfue, in base al quale la politica comune in materia di asilo deve essere «conforme alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e al protocollo del 31 gennaio 1967, e agli altri trattati pertinenti». Questo comporta che le istituzioni devono rispettarli nell’approvazione degli atti derivati, anche al fine di evitare che gli Stati membri si trovino vincolati da obblighi tra loro incompatibili, con il rischio che emergano profili di responsabilità per la violazione dell’uno a causa del rispetto dell’altro.

Nonostante la presenza di regole internazionali già vincolanti tutti gli Stati membri, corredate da sentenze, pareri e rapporti periodici sullo stato di attuazione nei singoli Stati, le divergenze nei sistemi di asilo nazionali erano notevoli. Il diritto dell’Unione si è dunque innestato in questo corpus di norme, giurisprudenza internazionale e prassi, con l’indiscusso merito di avere messo a sistema le diverse tutele in materia di protezione internazionale, con un’opera che potremmo qualificare come di “codificazione”. Al contempo ne rappresenta anche uno “sviluppo progressivo”, sia per la codificazione d’interpretazioni evolutive della stessa Convenzione di Ginevra, sia per l’espressa inclusione nel sistema europeo di quelle fattispecie diverse dal diritto di asilo che non hanno ancora avuto un’autonoma e completa disciplina a livello internazionale e né, spesso, a livello nazionale. Si tratta, infatti, di forme di protezione per le quali o non vi sono strumenti internazionali vincolanti gli Stati o vi sono strumenti che pongono solo obblighi di tipo negativo, non obbligando al riconoscimento del diritto al soggiorno e, tantomeno, delle modalità di accoglienza. Ci si riferisce in particolar modo ai limiti all’allontanamento derivanti dalla Convenzione europea dei diritti umani che in gran parte sono oggi “coperti” dalla nozione di protezione sussidiaria, mutando da meri obblighi di tipo negativo in veri e propri obblighi positivi di protezione e di riconoscimento di uno specifico status. Analogamente era avvenuto con la direttiva 2003/86/Ce sul diritto al ricongiungimento familiare che all’art. 17 ha sostanzialmente codificato il principio giurisprudenziale elaborato dalla Corte Edu relativamente ai limiti all’allontanamento derivanti dall’art. 8 Cedu, a seconda della solidità e/o inconsistenza rispettivamente dei legami familiari nel Paese ospitante o nel Paese di origine[8]. Gli Stati hanno così dovuto prevedere nella propria legislazione anche la disciplina positiva scaturente da tali obblighi che, altrimenti, difficilmente si sarebbero potuti far valere direttamente di fronte alle giurisdizioni nazionali[9].

3. La compatibilità tra la progressiva armonizzazione e il diritto d’asilo costituzionale

Le norme dell’Unione hanno un impatto diverso negli ordinamenti nazionali, a seconda del contenuto della legislazione già in vigore. In Italia tale impatto è stato notevole mancando non solo una legge di attuazione del diritto d’asilo costituzionale, ma anche un sistema organico di attuazione della Convenzione di Ginevra del 1951.

Sul piano generale, tramite l’attuazione delle direttive Ue, abbiamo avuto anche nella legislazione italiana un inquadramento sistematico delle diverse forme di protezione. Inoltre, poiché già nel sistema europeo trovano una sintesi gli obblighi internazionali rilevanti, l’Italia, tramite l’attuazione del diritto Ue ha indirettamente dato anche piena attuazione a tali obblighi, spesso riconosciuti in Italia solo in via giurisprudenziale, grazie ad interpretazioni convenzionalmente orientate delle scarne norme nazionali.

Il recepimento degli obblighi Ue è stato letto anche come un’attuazione indiretta, seppur parziale e insufficiente, dell’art. 10, 3° co., della Costituzione (si veda il contributo di M. Benvenuti in questo numero)[10]. Anche dal punto di vista del diritto dell’Unione è condivisibile la tesi della perdurante necessità dell’attuazione della norma costituzionale. Si consideri, infatti, che le tradizioni costituzionali comuni sono uno dei due pilasti attorno ai quali la Corte di giustizia ha fondato la tutela dei diritti fondamentali nel silenzio dei Trattati istitutivi. Ancora oggi, pur dopo l’avvento della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, permane la possibilità per la Corte di riconoscere l’esistenza di diritti fondamentali in quanto principi generali a partire dalle tradizioni costituzionali comuni e dal diritto internazionale (art. 6(3) Tue). L’asilo costituzionale dovrebbe così fungere da sistema di tutela nazionale che concorre a nutrire i diritti fondamentali dell’Unione ed a fissare uno standard di tutela non suscettibile di regressione ad opera del legislatore dell’Unione. Questo può essere realizzato solo in parte attraverso la tutela residuale della protezione umanitaria e a condizione che l’autorità giudiziaria eserciti una cognizione piena in fatto e in diritto al fine dell’accertamento dei presupposti di cui all’art. 10(3) Cost. e non funga da mero “revisore” dell’accertamento amministrativo compiuto dalle Commissioni territoriali.

La Corte di giustizia, nel riconoscere che sussiste ancora spazio per forme di protezione più favorevoli disciplinate dal diritto nazionale, come espressamente ammesso dalle direttive Ue, ha chiarito che esse devono sempre essere compatibili con le direttive ed in particolare devono rispondere ad una ratio di protezione diversa così da non confondersi con quelle di derivazione Ue[11]. In altre parole, non potrebbe esserci uno status di asilo o di protezione sussidiaria riconosciuto in modo più favorevole in Italia, ma può esserci una protezione diversa, riconosciuta sulla base di presupposti non coincidenti con quelli previsti nella “direttiva qualifiche”. In questo senso la protezione umanitaria disciplinata nell’ordinamento italiano è compatibile con gli obblighi derivanti dall’Unione europea.

Un problema di rapporto tra le fonti si potrebbe porre con il progredire dell’armonizzazione, il cui obiettivo è la sostituzione delle diverse discipline interne con regole uniformi dell’Unione, le quali tendono ad escludere la compatibilità di norme nazionali, siano più restrittive o più favorevoli.

Le proposte di riforma del sistema europeo di asilo presentate nel 2016 perseguono proprio il rafforzamento dell’armonizzazione con la contemporanea e in alcuni casi drastica riduzione del livello di tutela dei diritti. Si prospetta la modifica di tre delle direttive attualmente in vigore e la loro sostituzione con un regolamento. Inoltre, alcune delle disposizioni delle direttive formulate come opzioni sono previste come obbligatorie, privando gli Stati di quei margini di discrezionalità che in Italia hanno consentito un adattamento in piena conformità con l’art. 10 Cost. È il caso delle nozioni di Paese di primo asilo, Paese terzo sicuro e Paese di origine sicuro, tutte già contemplate nella cd. “Direttiva Procedure” ma come opzioni, lasciando cioè agli Stati la possibilità di scegliere se introdurle o meno nei propri ordinamenti, con i conseguenti effetti sul piano procedurale. I richiedenti provenienti da Paesi sicuri entrano infatti in un binario speciale, nel quale la domanda viene dichiarata inammissibile e si applicano procedure accelerate, con l’obiettivo di definire il caso nel più breve tempo possibile e, prevedibilmente, effettuare il rimpatrio nel Paese d’origine o di transito qualificato come sicuro. Nell’ordinamento italiano tali concetti non sono mai stati introdotti, essendo sempre stati ritenuti contrari al disposto costituzionale. La riforma persegue invece l’armonizzazione delle legislazioni nazionali relativamente ai concetti di “Paese sicuro”, trasformando l’opzione in obbligo, la direttiva in regolamento e prospettando anche entro cinque anni l’armonizzazione dell’elenco dei Paesi considerati sicuri[12].

Per scongiurare un probabile conflitto con l’art. 10, 3° co., Cost. è auspicabile che anche nel nuovo “Regolamento procedure” sia prevista un’opzione, accettando l’impossibilità su questo aspetto di ottenere una completa armonizzazione. Altrimenti il conflitto potrebbe sorgere, dato che in virtù del principio del primato gli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione prevalgono su qualsiasi norma di diritto nazionale e «[…] il fatto che siano menomati vuoi i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione di uno Stato membro, vuoi i principi di una Costituzione nazionale, non può sminuire la validità di un atto della Comunità né la sua efficacia nel territorio dello stesso Stato»[13]. In alternativa, il diritto costituzionalmente tutelato potrebbe contribuire ad individuare quelle tradizioni costituzionali comuni sulle quali, come sopra accennato, la Corte di giustizia può basare il riconoscimento di un analogo diritto proprio dell’ordinamento dell’Unione ai sensi dell’art. 6(3) Tue, così realizzando quella osmosi tra diritti fondamentali dello spazio europeo che è il portato positivo del tanto evocato dialogo tra Corti[14].

Tuttavia, è improbabile che questo possa avvenire, dato che le nozioni di Paese sicuro sono già ampiamente applicate in molti Stati membri e sono state centrali nella realizzazione della cooperazione con la Turchia. È quindi in ultima analisi possibile e, diremmo, auspicabile che anche sulla difesa del diritto d’asilo costituzionale si sollevino le medesime invocazioni del rispetto dei diritti fondamentali della Costituzione italiana, recentemente oggetto di un vivace dialogo tra Corte costituzionale e Corte di giustizia, originato su tutt’altro principio ma che non si vede come non possa applicarsi anche a questo ambito[15]. A meno che non si voglia sostenere la sostanziale specialità del diritto degli stranieri, nel quale, a dispetto dell’affermazione della parità di trattamento, si riscontra spesso un’applicazione diversa degli stessi diritti, anche fondamentali, rispetto a quando ad invocarli siano i cittadini.

4. Lo standard applicabile secondo la Carta dei diritti fondamentali

Numerose sono state le interpretazioni degli atti normativi del sistema europeo di asilo rese dalla Corte di giustizia alla luce della Carta e della Convenzione europea dei diritti umani[16]. L’esistenza di una competenza dell’Unione determina, infatti, anche l’applicazione della Carta, la quale vincola l’Unione e gli Stati membri quando si situano nell’ambito di applicazione del diritto Ue (art. 51, come interpretato dalla Corte nella sentenza Fransson)[17].

Oltre ai diritti specificamente riguardanti la protezione internazionale, quali l’art. 18 (diritto di asilo), l’art. 19 (divieto espulsioni collettive) e l’art. 4 (protezione contro l’allontanamento), sono particolarmente rilevanti l’art. 7 (tutela della vita privata e familiare), l’art. 1 (diritto alla dignità), l’art. 24 (tutela dei minori), l’art. 41 (diritto alla buona amministrazione) e l’art. 47 (diritto ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale).

Il significato e la portata dei diritti enunciati nella Carta che corrispondono ai diritti della Cedu sono uguali a quelli conferiti da tale Convenzione, a meno che il diritto dell’Unione non conceda una protezione più estesa (art. 52, par. 3); inoltre, laddove la Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni (art. 52, par. 4). Infine, in base all’art. 53, la Carta non può determinare una riduzione del livello di tutela garantito ad un diritto nel rispettivo ambito di applicazione. Ne risulta, dunque, in caso di una pluralità di fonti rilevanti per un medesimo diritto, l’applicazione del criterio dello standard più favorevole. Tuttavia, proprio a proposito del rapporto tra Carta e diritti fondamentali costituzionali, la Corte di giustizia nel noto caso Melloni e più recentemente nella sentenza Mas (meglio nota come Taricco bis) ha chiarito che lo standard costituzionale più elevato può applicarsi in mancanza di una norma di armonizzazione e se non pregiudica il primato e l’efficacia del diritto dell’Unione[18]. Analogo orientamento è stato espresso dalla Corte di giustizia Ue nel parere 2/13 sul progetto di adesione dell’Unione alla Cedu[19].

Il principio Melloni riconduce l’art. 53 della Carta, che pure chiaramente dispone la regola dello standard più favorevole, nell’alveo della consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, volta a preservare il principio del primato e, dunque, l’efficacia delle norme dell’Unione.

Il diritto d’asilo consente di notare un paradosso nell’applicazione del principio Melloni, ossia che ciò che in ultima analisi determina l’individuazione dello standard applicabile è la presenza o meno di un atto legislativo derivato di armonizzazione, vale a dire un atto adottato dalle istituzioni dell’Unione. In effetti, prima ancora dell’intervento delle Corti, i conflitti tra norme e la corsa al ribasso delle tutele dovrebbero essere evitati dal legislatore europeo, al quale, tra l’altro, è imposto nello sviluppo dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia di tenere in conto “dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri” (art. 67 Tfue). Effettivamente, nelle valutazioni di impatto redatte dalla Commissione europea prima della presentazione di una proposta di atto legislativo, l’impatto sui diritti umani è opportunamente considerato, anche se poi esso può essere trascurato nella fase di negoziato tra Parlamento e Consiglio, dove prevale l’esigenza di trovare un accordo tra le due istituzioni.

Potrebbe addirittura accadere, e questo è proprio il caso dell’asilo, che un governo in seno al Consiglio sia favorevole all’adozione di un atto di armonizzazione che cozza con un ingombrante principio fondamentale della propria Costituzione, come il diritto d’asilo costituzionale. L’Unione potrebbe così divenire il luogo per imporre la riduzione delle tutele derivanti dalla Costituzione in nome dell’armonizzazione.

È evidente che l’unico modo per consentire di coniugare principio del primato e tutela dei diritti fondamentali è garantire l’applicazione dello standard più favorevole. Nella crisi di valori e d’identità dell’Unione, la riesumazione del principio dell’armonizzazione nel progresso, ormai poco più di un ricordo dei tempi d’oro dell’Unione, potrebbe essere una strada per rilanciare anche lo stesso processo d’integrazione nel quale si stenta a riconoscere il merito di assicurare l’elevazione del benessere collettivo dei popoli europei, inclusi i loro diritti fondamentali.

5. Il diritto ad un ricorso effettivo

5.1. Lo standard della tutela tra Unione europea e Cedu

Il diritto al ricorso effettivo è il principale strumento per garantire l’effettivo godimento di tutti i diritti riconosciuti alle persone, siano cittadini o stranieri. Anche gli stranieri, infatti, hanno diritto al loro giudice, così che l’azione del potere pubblico nei loro confronti sia soggetta ad un controllo esterno ed imparziale.

Nel diritto degli stranieri il diritto al ricorso effettivo assume un ruolo essenziale perché il suo esercizio può determinare una differenza di status della persona rispetto allo Stato ospitante: da regolare ad irregolare, da presente nel territorio ad assente o, comunque, da “visibile a non visibile”. In altre parole, per gli stranieri il diritto ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale può essere l’unico diritto esercitabile, all’esito del quale, forse, si apre la possibilità di esercitare gli altri diritti connessi al loro status.

La rilevanza del diritto e le altrettanto rilevanti modifiche alle regole del ricorso giurisdizionale introdotte in Italia con il dl 13/2017 sollecitano una riflessione specifica sulla portata e sullo standard di tutela di questo diritto derivante dall’ordinamento internazionale ed europeo.

Nel diritto dell’Unione europea il diritto ad un ricorso effettivo è parte integrante del sistema di protezione dei diritti umani, originariamente riconosciuto dalla Corte di giustizia come principio generale proprio delle tradizioni costituzionali comuni agli ordinamenti degli Stati membri. Con orientamento costante la Corte ha infatti affermato: «[…] i singoli devono poter beneficiare di una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti riconosciuti loro dall'ordinamento giuridico comunitario, poiché il diritto a detta tutela fa parte dei principi giuridici generali che derivano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Tale diritto è stato anche sancito dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»[20]. L’enfasi sull’effettività del ricorso induce la Corte europea, da una parte, e la Corte di giustizia, dall’altra, a valutare in concreto la protezione garantita, senza fermarsi all’esistenza formale del diritto ma verificando se questa sia nella sua applicazione pratica tale da assicurare un’effettiva difesa contro la lesione dei diritti. Ciò in piena assonanza con il principio di effettività dei diritti che è emblematico dello stesso modo di essere del diritto dell’Unione europea: un ordinamento nel quale la sostanza è spesso prevalente sulla forma; nel quale la tensione verso l’effettivo conseguimento degli obiettivi e verso l’effettiva tutela dei diritti permea gran parte dell’attività delle istituzioni e diventa canone prevalente nell’interpretazione delle norme Ue[21].

Come nella maggioranza degli atti derivati, negli strumenti normativi del sistema europeo di asilo è ribadito il diritto delle persone ad un ricorso effettivo senza una disciplina specifica di dettaglio: così dispongono l’art. 46 della “direttiva procedure” come anche l’art. 27 del “regolamento Dublino”. In questi casi si applica il principio dell’autonomia procedurale che, già enunciato dalla Corte di giustizia, è ora codificato all’art. 19, par. 1, 2° capoverso, del Tue. La predisposizione in concreto dei rimedi giurisdizionali è dunque di competenza degli Stati membri che godono di un ampio margine di discrezionalità nell’individuare gli strumenti giurisdizionali più appropriati, valutati dalla Corte sulla base dei principi di equivalenza e di effettività[22]. In base al principio di equivalenza, gli Stati devono applicare norme procedurali non meno favorevoli rispetto a quelle vigenti per situazioni analoghe disciplinate dal diritto interno: il mezzo di ricorso giurisdizionale applicabile al diritto di matrice Ue deve essere individuato in base a quelli che sono i rimedi già in vigore e tesi a tutelare diritti analoghi fondati sul diritto interno; in caso invece di istituzione di procedure ad hoc, queste non devono risultare meno favorevoli di quelle già previste nel diritto interno per situazioni analoghe.

Una volta individuato il rimedio, questo deve essere valutato sotto il profillo dell’effettività, accertando se in concreto il mezzo in questione consenta un effettivo accesso alla giustizia e disapplicandolo nel caso in cui ciò non avvenga[23].

Il diritto al ricorso effettivo è stato poi codificato e arricchito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, rubricato “Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”, corrispondente agli articoli 13 (“Diritto ad un ricorso effettivo”) e 6 (“Diritto ad un equo processo”) della Cedu ma che offre una disciplina più estensiva di entrambi[24].

Quanto al diritto al ricorso effettivo, l’art. 47, comma 1, riconosce il diritto di ricorso di fronte ad un vero e proprio giudice e non “solo” di fronte ad un’istanza nazionale come disposto dall’art. 13 Cedu. Quanto al diritto al giusto processo, l’art. 47, comma 2, ha un’applicazione generalizzata e non limitata alle controversie relative a diritti e obblighi di carattere civile come invece l’art. 6 Cedu. L’art. 47(2) è stato volutamente formulato in modo estensivo, così che le garanzie del giusto processo trovino una generale applicazione in tutti i casi di ricorsi volti all’accertamento di un diritto derivante dall’ordinamento dell’Unione europea. Come le “spiegazioni” della Carta chiariscono, questa estensione «“È una delle conseguenze del fatto che l’Unione è una comunità di diritto […]. Tuttavia, fatta eccezione per l’ambito di applicazione, le garanzie offerte dalla Cedu si applicano in modo analogo nell'Unione».

Occorre dunque applicare i principi elaborati dalla Corte Edu in relazione agli articoli 6 e 13 anche al settore dell’asilo[25]. In via sintetica, si può affermare che innanzitutto i giudici debbano poter esercitare una giurisdizione piena, con un esame indipendente e rigoroso, valutando ex nunc in fatto ed in diritto le richieste ad essi presentate, con un esame completo di tutte le prove che devono essere credibili, accurate e coerenti[26]. Inoltre, uno dei portati della giurisprudenza della Corte di Strasburgo è il necessario esame individuale di ogni situazione, dato che gli stessi fatti potrebbero avere un differente impatto su diversi richiedenti protezione internazionale. Questo anche solo per l’età del soggetto o per la presenza comunque di particolari fragilità[27].

Tra l’altro, proprio il ruolo sussidiario della Corte Edu, richiede che i Tribunali nazionali possano svolgere un esame accurato di tutti gli aspetti della causa, di fatto e di diritto, così rendendo il controllo eventuale della Corte Edu meramente sussidiario, senza dover compiere autonome indagini per l’accertamento dei fatti come talvolta la Corte è stata costretta a fare[28].

Come noto, tra gli elementi costitutivi del giusto processo c’è anche il diritto a che la causa sia esaminata pubblicamente, vale a dire attraverso un’udienza pubblica che, di regola, include anche il diritto di essere ascoltato[29]. La pubblicità dell’udienza e l’ascolto dell’interessato non sono tuttavia assoluti e possono essere limitati laddove la limitazione del diritto risulti proporzionata e giustificata dalla particolare natura della questione oggetto del singolo giudizio ma non, invece, da esigenze economiche o di efficienza del sistema giudiziario che mai possono condizionare l’esercizio di diritti fondamentali.

È fondamentale notare che la Corte Edu si è soffermata sulle possibili restrizioni del diritto ad essere ascoltato in udienza ma non anche dell’udienza tout court, che implica la possibilità di un confronto con i legali e la discussione orale e la facoltà di aggiungere osservazioni. È questo uno di quei casi nei quali vi è un’insidia nella traduzione del testo della convenzione, ma soprattutto delle sentenze della Corte, dove il termine “hearing” è tradotto sia con udienza sia con audizione della parte. Ebbene, quando la Corte ammette restrizioni, si riferisce prevalentemente all’ascolto e lo qualifica, talvolta, come “oral hearing”. In quei casi nei quali si è anche pronunciata sulla limitazione del diritto all’udienza, lo ha fatto solo limitatamente alla pubblicità della stessa. Un processo senza un’udienza almeno in un grado di giudizio sarebbe infatti contrario non solo all’art. 6 Cedu ma anche all’art. 14 del Patto sui diritti civili e politici, in base al quale «[…] Ogni individuo ha diritto ad un'equa e pubblica udienza dinanzi a un tribunale competente, indipendente e imparziale, stabilito dalla legge, allorché si tratta […] di accertare i suoi diritti ed obblighi mediante un giudizio civile. Il processo può svolgersi totalmente o parzialmente a porte chiuse, sia per motivi di moralità, di ordine pubblico o di sicurezza nazionale in una società democratica, sia quando lo esiga l'interesse della vita privata delle parti in causa, sia, nella misura ritenuta strettamente necessaria dal tribunale, quando per circostanze particolari la pubblicità nuocerebbe agli interessi della giustizia […]). Anche l’art. 10 della Dichiarazione universale dei diritti umani è chiarissimo sul punto: “Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta”».

Dall’art. 14 del Patto sui diritti civili e politici, così come dall’esame della giurisprudenza della Corte Edu, risulta che le deroghe ammissibili sono quasi sempre in bonam partem o, comunque, deroghe motivate da ragioni di ordine pubblico. In particolare, secondo la Corte Edu, l’audizione è indispensabile quando la Corte decide su questioni importanti, quando vi sono fatti da accertare di notevole complessità oppure quando la credibilità o l’esperienza personale del richiedente svolge un ruolo cruciale nella decisione. Ancora, la Corte Edu ha ritenuto legittima l’omissione dell’audizione in materia di sicurezza sociale, laddove il giudizio si fonda prevalentemente su perizie medico legali e l’audizione non è stata richiesta[30].

5.2. Udienza e audizione secondo le regole del giusto processo: la problematica applicazione nel caso Sacko

Esempio contraddittorio dell’applicazione dei principi del giusto processo nei giudizi sulla protezione internazionale è rinvenibile proprio in relazione al diritto alla udienza ed all'audizione come interpretato nella sentenza Sacko, deciso il 26 luglio 2017 su rinvio pregiudiziale del giudice italiano[31]. La Corte ha chiarito l’interpretazione dell’art. 46 della direttiva procedure, onde fornire al giudice nazionale le indicazioni necessarie per valutare se la disposizione della legge italiana che consente di rigettare il ricorso senza ascolto del richiedente in caso di domanda manifestamente infondata, sia compatibile con tale disposizione, nonché con l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Nessuna deroga o limitazione è infatti consentita nella direttiva procedure relativamente alla tutela giurisdizionale che deve essere sempre effettiva, a prescindere dalla qualificazione della domanda come infondata o inammissibile.

Tuttavia, secondo la Corte di giustizia, una siffatta limitazione può essere ammessa quando il giudice decide un caso di manifesta infondatezza e quando può basarsi sulle memorie scritte nonché sui verbali della procedura amministrativa. La Corte giustifica questa interpretazione restrittiva di un diritto fondamentale (così qualificato espressamente anche al considerando n. 50 della stessa direttiva), alla luce della giurisprudenza rilevante della Corte Edu, senza però esplorare in alcun modo tale giurisprudenza, al punto che il principio interpretativo appare apodittico, anche perché le sentenze della Corte Edu poste a fondamento della propria argomentazione non sembrano del tutto congruenti. In particolare, la Corte non ha dato alcuna indicazione interpretativa su come applicare i presupposti che possono legittimare l’esclusione dell’audizione alla luce della giurisprudenza della Corte Edu. Sebbene il caso Sacko riguardi esclusivamente i ricorsi avverso domande manifestamente infondate e pur avendo la Corte di giustizia precisato che il giudice deve sempre poter disporre l’audizione del ricorrente laddove lo ritenga necessario, la restrizione di un diritto fondamentale deve essere motivata e giustificata, alla luce di criteri applicabili in generale.

Al contrario, la Corte ritiene rilevanti aspetti che non emergono nella giurisprudenza della Corte Edu, frutto originale dell’interpretazione della stessa Corte di giustizia, quali la stretta connessione tra la procedura di ricorso e “la procedura di primo grado” che la precede. La Corte non fa che ripetere quella infelice formulazione presente nella direttiva procedure in base alla quale la procedura amministrativa, invece che essere qualificata semplicemente come tale, viene definita come procedura di primo grado, pur non essendoci alcun secondo grado amministrativo, a meno di non voler intendere in questi termini la procedura di revoca dello status di cui agli articoli 44 e 45 della direttiva procedure. Ciò che però non è ammissibile, in quanto ontologicamente errato, è qualificare un procedimento giurisdizionale come un secondo grado della procedura amministrativa. La tutela giurisdizionale garantisce, infatti, non solo il controllo sull’operato dell’amministrazione ma anche la garanzia che il diritto fondamentale alla protezione internazionale sia riconosciuto. D’altra parte, l’argomento impiegato dalla Corte della stretta connessone tra la procedura di ricorso e la procedura di primo grado che la precede è inconferente, dato che tale connessione esiste sempre, in qualsiasi ricorso avverso un atto amministrativo: potrebbe non sussistere uno stretto legame tra ricorso e la procedura cha ha portato all’adozione dell’atto impugnato?[32].

Inoltre, nella sentenza appare quell’ambiguità nella traduzione del termine “hearing” a cui si è sopra accennato. Ad esempio, nel par. 37 della versione linguistica italiana si impiega il termine “audizione”, mentre nel par. 40 “udienza” come fossero sinonimi. Nella versione inglese troviamo in entrambi i casi “hearing”. Si consideri che il rinvio pregiudiziale del Tribunale di Milano riguardava specificatamente i casi di «definizione con rigetto de plano del ricorso […] senza audizione» e non senza udienza.

La sentenza Sacko e un certo orientamento restrittivo seguito da alcuni tribunali italiani (si veda l’articolo di A.D. De Santis in questo numero), in sintonia anche con altre giurisdizioni nazionali, non consente di rinvenire una giustificazione alla limitazione dei diritti del giusto processo che sia coerente con l’orientamento consolidato della Corte Edu. Quest’ultima, infatti, considera rilevanti l’importanza del diritto tutelato, la difficoltà nell’accertamento dei fatti, la rilevanza delle dichiarazioni individuali e la credibilità del richiedente asilo. Alla luce di questi criteri, si deve ritenere che di regola nel ricorso giurisdizionale in materia di asilo vi debba essere non solo l’udienza ma almeno un’audizione in uno dei gradi del procedimento giurisdizionale e sicuramente quando vi sia un dubbio sulla credibilità del richiedente. Nella sentenza Jussila, infatti, richiamata dalla stessa Corte di giustizia in Sacko, la Corte Edu ha affermato che «[…] the obligation to hold a hearing is not absolute […] There may be proceedings in which an oral hearing may not be required: for example where there are no issues of credibility or contested facts which necessitate a hearing and the court may fairly and reasonably decide the case on the basis of the parties’ submissions and other written materials»[33]. La Corte Edu ha inoltre sempre affermato che il diritto all’udienza è soddisfatto se vi sia almeno un’udienza nell’ambito di un ricorso giurisdizionale, ossia che non necessariamente deve esservi un’udienza in tutte le fasi del ricorso, ma che ve ne deve essere almeno una. Al contrario, la Corte Edu non ha mai affermato che il diritto all’udienza o all’audizione nel processo possa essere soddisfatto se vi sia stata un’audizione nella procedura amministrativa contro la quale si ricorre, come invece con un linguaggio ancora una volta ambiguo sembra derivare dalla sentenza Sacko, richiamando le diverse procedure amministrative e giurisdizionali[34].

In mancanza di criteri coerenti e giuridicamente fondati, la giustificazione alla limitazione dei diritti del giusto processo non può che essere trovata in scelte di politica del diritto, primariamente orientate a ridurre i carichi pendenti, come peraltro chiaramente indicato nella stessa questione pregiudiziale formulata dal Tribunale di Milano e dalla quale ha avuto origine la sentenza Sacko. Se è vero che le decisioni in materia d’asilo, come peraltro tutte le decisioni e tutte le sentenze, devono essere prese quanto prima possibile, è altrettanto innegabile che, come la stessa Corte riconosce, Stati e giudici non possono comprimere le garanzie di cui all’art. 47 della Carta e ridurre l’effettività della tutela giurisdizionale dello straniero per ragioni legate al numero dei ricorsi e alla celerità delle procedure, amministrative e giurisdizionali[35]. Rapidità ed efficienza sono valori che assumono significato solo se non vengono scissi dalla qualità della decisione amministrativa, dei ricorsi giurisdizionali e delle sentenze. L’efficienza senza la qualità, infatti, riduce il numero dei ricorsi pendenti ma anche il livello dei diritti garantiti.

6. The Elephant in the Room: ovvero, il “regolamento Dublino”

6.1. Le ragioni di un fallimento

Un caso emblematico di applicazione del diritto ad un ricorso effettivo che ha inciso sull’effettività e rapidità delle procedure previste è rappresentato dal regolamento Dublino.

Dublino nasce come un accordo internazionale, strettamente connesso all’accodo di Schengen, divenendo entrambi due pilastri delle politiche europee di asilo e immigrazione[36]. La matrice internazionale ha condizionato il contenuto e lo sviluppo della disciplina, senza che l’intervento dell’Unione e la creazione dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia abbiano modificato l’ordine delle priorità, imponendo la modifica delle norme vigenti. In particolare, nonostante che la Convenzione di Dublino sia stata sostituita nel 2003 da un regolamento dell’Unione, modificato da ultimo nel 2013, sono rimasti sostanzialmente invariati i criteri di determinazione dello Stato competente con il criterio residuale, ma di applicazione prevalente, dello Stato di primo ingresso nell’Ue[37]. Proprio questo criterio determina uno squilibrio nelle responsabilità degli Stati membri dell’Unione, sovraccaricando quegli Stati che si trovano sottoposti al duplice onere di controllori delle frontiere nell’interesse di tutti gli Stati membri e anche dell’accoglienza dei richiedenti asilo. Anche la Corte di giustizia ha sinora mantenuto un’interpretazione restrittiva della nozione di primo ingresso irregolare di cui all’art. 13 del Regolamento, ricomprendendovi tutte le ipotesi di ingresso senza previa autorizzazione[38]. Si può invece sostenere che almeno coloro che fanno ingresso nel territorio di uno Stato membro in seguito ad un’operazione di ricerca e soccorso in mare dovrebbero essere sottratti all’applicazione dell’art. 13, non essendo tecnicamente un ingresso irregolare in senso stretto. Ciò consentirebbe anche di sottrarre gli ingressi che avvengono in seguito a tali operazioni all’applicazione del reato di favoreggiamento dell’ingresso.

Tra richiedenti asilo che tentano di sottrarsi all’applicazione dei criteri, Stati che non cooperano e condanne della Corte europea, Dublino è ormai un classico caso di paziente affetto da comorbilità, con i Governi decisi ad applicare tecniche di accanimento terapeutico, invece che di accompagnamento verso una dolce fine vita.

Uno dei fattori che ha determinato il collasso di Dublino è stato il contenzioso di fronte alla Corte Edu. A partire dalla sentenza M.S.S., la Corte ha condannato quegli Stati membri che, in esecuzione del regolamento Dublino, avevano proceduto a trasferimenti verso la Grecia e l’Italia. La Corte Edu non ha valorizzato la c.d. presunzione di sicurezza degli Stati membri, che è espressione del principio della reciproca fiducia nei sistemi di asilo nazionali e ha ribadito che i trasferimenti da uno Stato all’altro non devono esporre le persone ad un rischio reale di subire una violazione dei diritti garantiti nella Convenzione, in primis il diritto di non subire tortura o pene e trattamenti disumani e degradanti posto dall’art. 3. Tale principio non trova alcuna eccezione per il fatto che il trasferimento avvenga in esecuzione di un obbligo derivante dall’Unione europea e nella fattispecie del regolamento Dublino, nonostante che la Corte Edu tenga in debita considerazione l’esistenza di particolari legami tra gli Stati membri Ue.

In sintesi, per assicurare il rispetto della Convenzione gli Stati dovrebbero accertarsi che non vi sia rischio di violazione dei diritti attraverso il trasferimento e, in ogni caso, poiché la presunzione di sicurezza deve essere intesa in modo relativo e non assoluto, ciascuna persona deve poter contestare il rischio di violazione dei propri diritti attraverso un mezzo di ricorso effettivo come richiesto dall’art. 13 della Convenzione. L’affermazione del diritto al ricorso contro le decisioni di trasferimento, a cui corrisponde l’obbligo di esaminare caso per caso ogni situazione individuale, è il portato più specifico della giurisprudenza della Corte europea relativa ai cd. Dublin cases. Sebbene si tratti di una garanzia minima essa è idonea ad incidere pesantemente sull’efficienza del sistema Dublino, già molto scarsa.

La Corte di giustizia ha inteso restrittivamente il principio espresso dalla Corte Edu, con una formula sostanzialmente trasposta nell’attuale art. 2 del Regolamento Dublino III e volta ad escludere il trasferimento in presenza di «carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti in tale Stato membro, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea». Su questo aspetto permane ancora una differenza tra il testo del regolamento Dublino e l’orientamento della Corte Edu. Differenza che ha avuto un’eco anche nel parere sull’accordo di adesione dell’Unione alla Cedu, che la Corte di giustizia ha ritenuto non conforme ai Trattati Ue in quanto non sufficiente a garantire le peculiarità dell’ordinamento dell’Unione, tra le quali rientrano anche quegli strumenti normativi, come il regolamento Dublino, che si basano sulla reciproca fiducia tra gli Stati membri e che per funzionare devono implicare l’esistenza di presunzioni tendenzialmente assolute di sicurezza dei rispettivi ordinamenti giuridici.

Più recentemente la Corte di giustizia sembra essersi allineata con l’orientamento della Corte Edu. La Corte ha affermato che la legittimità del trasferimento deve essere valutata non solo alla luce del rischio di carenze sistemiche nel Paese di destinazione (escluso nella fattispecie) ma anche considerando il rischio insito nel trasferimento di per sé, «a prescindere dalla qualità dell’accoglienza e delle cure disponibili nello Stato membro competente per l’esame della sua domanda. […] D’altra parte, sarebbe manifestamente incompatibile con il carattere assoluto di questo divieto che gli Stati membri possano ignorare un rischio reale e acclarato di trattamenti inumani o degradanti che incombano su un richiedente asilo adducendo quale pretesto che esso non risulta da una carenza sistemica dello Stato membro competente»[39].

Un altro rilevante intervento della Corte di giustizia sul Regolamento Dublino ha riguardato la determinazione dello Stato competente in caso di richieste di minori non accompagnati[40]. La Corte ha affermato che lo Stato membro nel quale il minore si trova è obbligato a procedere all’esame della domanda di protezione internazionale, sebbene lo stesso minore abbia già presentato domanda in un altro Stato membro; la Corte ha sottolineato la vulnerabilità dei soggetti in questione e l’obbligo esistente in capo agli Stati di agire nel loro interesse superiore in virtù dell’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Per ottemperare a quest’ultima pronuncia della Corte la Commissione europea ha presentato nel 2014 una proposta di modifica dell’art. 8 Regolamento Dublino III[41] che, però, non è stata approvata per mancanza di accordo tra le istituzioni. Addirittura, nell’accompagnare la proposta di modifica del Regolamento Dublino III presentata nel 2016 si afferma che «dato che tale norma differisce da quanto previsto nella proposta della Commissione del giugno 2014, la Commissione intende ritirare quest’ultima, sulla quale è stato finora impossibile raggiungere un accordo», con buona pace del diritto fondamentale del superiore interesse del minore.

L’altro fattore di crisi del Regolamento Dublino è costituito dall’aumento dei richiedenti protezione internazionale, causato da varie ragioni, in parte riconnesse alla situazione nei Paesi di origine, in parte imputabili alla progressiva chiusura dei canali d’ingresso legale nei Paesi Ue[42]. La crisi di Dublino si è così rapidamente propagata al Sistema Schengen con alcuni Stati che hanno ripristinato i controlli di frontiera interna a causa della minaccia costituita dall’afflusso massiccio di migranti e richiedenti asilo[43]. È stato evidente in quei mesi che gli Stati membri avrebbero preferito rinunciare alla libera circolazione delle persone pur di non ammettere più un migrante, inclusi i richiedenti asilo. Uno scenario, questo, con un impatto negativo su tutto lo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia e che sarebbe stato devastante per il processo d’integrazione europea, già fortemente indebolito[44]. D’altra parte un’area di libera circolazione che implica l’assenza di controlli di frontiera sulle persone, cittadini o stranieri che siano, è inconciliabile con il divieto dei movimenti secondari, con il divieto di scelta dello Stato dove presentare domanda di protezione internazionale e, infine, con il mancato riconoscimento di un diritto di soggiorno in altri Stati membri ai cittadini di Paesi terzi, almeno i beneficiari di protezione internazionale[45].

6.2. Le ricollocazioni e quello strano modo di intendere la solidarietà

In questo scenario, istituzioni e Governi hanno tentato di adottare misure di soluzione della crisi, con l’obiettivo di declinare il principio di solidarietà sancito all’art. 80 del Tfue in termini diversi dall’assistenza tecnica e finanziaria[46].

Sono state così adottate le decisioni sulla ricollocazione delle persone in evidente bisogno di protezione internazionale[47]. L’aspetto più innovativo delle decisioni è stata la definizione di quote obbligatorie sulla base delle quali distribuire i richiedenti protezione internazionale tra gli Stati membri, ad eccezione di Regno unito, Irlanda e Danimarca. È apprezzabile che per la prima volta siano stati stabiliti dei criteri oggettivi per individuare il numero di persone che ogni Stato membro può potenzialmente accogliere, alla luce della popolazione del Paese, del numero di richiedenti già presenti, del prodotto interno lordo e del tasso di disoccupazione. Al contrario, la definizione di quote obbligatorie è l’aspetto sul quale si sono registrate maggiori resistenze, con il voto contrario degli Stati di Visegrad (Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) ed il ricorso per annullamento sollevato dalla Repubblica slovacca e l’Ungheria di fronte alla Corte di giustizia[48].

Tuttavia, invece di alleviare l’onere dell’accoglienza in Grecia e in Italia, esse hanno causato un aumento netto dei richiedenti asilo in tali Paesi[49]. Tramite di esse, infatti, i Governi del nord Europa e la Commissione sono riusciti ad imporre all’Italia e alla Grecia l’esecuzione dell’obbligo di identificazione dei migranti irregolari e dei richiedenti asilo, già vigente ma largamente disatteso per la mancanza di interesse da parte dell’Italia a tracciare il passaggio nel nostro Paese di chi vuole solo attraversarlo per raggiungere un’altra meta europea[50]. Ne è derivata la creazione di strutture di accoglienza e prima accoglienza gestite secondo l’approccio hotspots, ossia centri chiusi per assicurare l’efficace realizzazione delle procedure di identificazione, registrazione e rilevamento delle impronte digitali[51]. Trattandosi di centri chiusi, è imposto il rispetto dell’art. 13 Cost. e dell’art. 5 della Cedu come peraltro rilevato da ultimo dalla Corte Edu nella sentenza Khlaifia c. Italia del 15 dicembre 2016 (ric. n. 16483/12). Con l’art. 17 del dl 13/2017 è stato così introdotto nel d.lgs 286/1998 un nuovo art. 10-ter che rinvia alla disciplina dei centri di primo soccorso di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e alle strutture di cui all’articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Tuttavia, si tratta di una garanzia insufficiente nella misura in cui non vi è alcuna disposizione specifica che regoli la privazione della libertà personale del migrante nei centri di primo soccorso e assistenza, soprattutto nel caso in cui la durata si prolunghi per un tempo non conciliabile con la natura di fermo, come precisato dalla Corte Edu nel caso Khlaifia e come recentemente stigmatizzato dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa[52].

6.3. Verso Dublino IV

Non sorprende dunque che, scaduto il termine della loro applicazione[53], date le divisioni tra gli Stati e la scarsa utilità rispetto allo scopo per il quale erano state previste, la Commissione abbia abbandonato questo strumento ed abbia presentato una proposta di modifica del regolamento Dublino che lascia invariato il sistema vigente, in particolare relativamente al criterio dello Stato di primo arrivo[54].

Nessuno spazio invece per l’applicazione di quanto disposto nella Direttiva sulla protezione temporanea, approvata nel 2001, prima della modifica delle priorità nella costruzione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia e con ancora fresca la memoria della crisi determinata dalla migrazione di più di un milione di persone a causa del conflitto nella ex-Jugoslavia[55]. La protezione temporanea prevede infatti la distribuzione delle persone giunte in un Paese membro allorquando l’afflusso massiccio di migranti pregiudichi il funzionamento del sistema d’asilo. Pur essendo lo strumento già in vigore e pienamente idoneo ad essere utilmente applicato nella fattispecie, esso non è stato mai seriamente preso in considerazione, tant’è che la Commissione europea ne ha addirittura prospettato l’abrogazione.

Esclusa anche la promozione del mutuo riconoscimento e una gestione flessibile dei trasferimenti dei beneficiari di protezione internazionale, pur presente in numerosi documenti della Commissione e proposta dalla presidenza italiana del Consiglio nel secondo semestre del 2014[56]. Un vero e proprio miraggio ormai la possibilità di un’estensione della libertà di circolazione ai beneficiari di protezione internazionale.

Eccezion fatta per un certo ampliamento dell’applicazione del criterio della presenza di familiari in altri Stati membri (non più solo coniuge e figli minori, ma anche fratelli e sorelle e l’espressa considerazione dei legami familiari sorti dopo che è stato lasciato il Paese di origine), la proposta di riforma si presenta come un generale irrigidimento dei criteri e delle regole già previste, soprattutto per contrastare i movimenti secondari: sono infatti stabiliti chiaramente gli obblighi dei richiedenti protezione internazionale e le conseguenti sanzioni in caso di inottemperanza, inclusa la possibile esclusione dal sistema di accoglienza[57].

Innovativa è l’introduzione del meccanismo correttivo di distribuzione dei richiedenti asilo allorquando in uno Stato membro vi sia un afflusso sproporzionato di richiedenti protezione internazionale e di persone reinsediate, vale a dire superiore al 150% di una quota nazionale definita per ciascuno Stato attraverso una chiave di riferimento basata su due criteri equivalenti: il numero degli abitanti e il prodotto interno lordo. Agli Stati è concesso di non partecipare al meccanismo di ridistribuzione, dichiarando la propria indisponibilità e corrispondendo la cifra di 250.000 euro per ogni persona non accolta. Come noto, il 16 novembre 2017 il Parlamento europeo nell’esame in prima lettura ha adottato a larga maggioranza numerosi emendamenti in base ai quali viene superato il criterio del Paese di primo arrivo con l’introduzione di un sistema automatico di trasferimenti con un metodo di ripartizione fisso, non condizionato al superamento del 150% della quota considerata sostenibile per ogni Stato. Inoltre, la scelta del Paese di trasferimento dovrebbe avvenire sulla base della valorizzazione dei legami sociali esistenti tra i richiedenti e il Paese di destinazione: i legami familiari (allargati a figli adulti in carico ai genitori, fratelli e sorelle), l’avere intrapreso in un Paese un percorso di studi o anche solo l’avervi vissuto dovrebbero essere presi in considerazione per la scelta del Paese dove trasferire il richiedente protezione internazionale. I trasferimenti di persone, anche quando si tratti di estradizione o espulsione, tendono ad essere sempre molto difficili da realizzare, a maggior ragione quando dovrebbero riguardare decine di migliaia di persone. Per questo l’adesione volontaria dei richiedenti protezione internazionale è essenziale e la proposta del Parlamento di introdurre criteri aggiuntivi che valorizzino i legami con lo Stato competente va nella giusta direzione, l’unica praticabile rimanendo all’interno della logica del sistema Dublino[58].

L’accordo tra Parlamento e Consiglio, imposto dalla procedura legislativa ordinaria, sarà difficile da raggiungere, stante la distanza siderale tra le posizioni delle due istituzioni, alle quali si aggiunge anche quella della Commissione[59]. Il Consiglio, rappresentante i Governi dell’Unione, arroccato in un approccio restrittivo, volto ad irrigidire ed eliminare tutte le deroghe presenti nel Regolamento per far sì che i criteri previsti siano finalmente applicati in modo rigoroso, pena sanzioni severe nei confronti dei richiedenti protezione internazionale. Il Parlamento, invece, rappresentante i popoli dell’Unione, che propone di abbandonare il sistema tradizionale e, pur rimanendo nello schema del sistema Dublino, lo innova profondamente.

7. La politica del contenimento dei flussi come soluzione alla “crisi dei migranti”

L’incapacità di concordare misure sul piano interno ha indotto i governi dell’Unione a rilanciare la cooperazione con i Paesi terzi di origine e transito per il contenimento dei flussi, che ha ormai acquisito un ruolo chiave nella gestione delle politiche migratorie ed ha avuto un inquadramento teorico con la comunicazione del 6 giugno 2016[60]. Ispirata al principio «più progresso più aiuti», essa mira a persuadere il più possibile i Paesi terzi a collaborare con l’Unione nel contrasto del traffico di migranti, nel rimpatrio dei migranti irregolari e nell’accoglienza dei richiedenti asilo, con qualsiasi incentivo economico a disposizione dell’Ue e degli Stati: più sarà la collaborazione ottenuta, più saranno i finanziamenti e il sostegno da parte dell’Unione.

Una delle varie ragioni che hanno indotto le istituzioni Ue e i Governi ad optare per questa modalità di cooperazione è rappresentata dalla difficoltà sino ad oggi riscontrata nella conclusione degli accordi di riammissione e nella scarsa efficacia di quelli già in vigore. Con il nuovo approccio, da una parte l’Unione agisce parallelamente e contemporaneamente agli Stati, dall’altra sono potenziati al massimo gli incentivi di tipo economico attraverso l’utilizzo del complesso della cooperazione commerciale, di investimento e di sviluppo quali leve per ottenere la collaborazione dei Paesi di origine e transito. Il nuovo approccio implica anche la perdita della forma tradizionale tipica degli accordi di riammissione. Con essa si “perdono” anche le procedure previste nei Trattati Ue o nella Costituzione italiana sulla competenza a stipulare e diventa talvolta addirittura difficile stabilire se una determinata cooperazione sia imputabile all’Unione o agli Stati[61]. Ciò è enfatizzato anche dall’intreccio tra risorse dell’Unione e risorse degli Stati membri che rende difficile decifrare chi sia il soggetto responsabile delle azioni nei Paesi terzi con buona pace del principio democratico del controllo parlamentare, nazionale o europeo, sull’azione degli esecutivi[62]. In sintesi, una cooperazione informale, dematerializzata quanto alla forma e di dubbia paternità ma nutrita di molta sostanza quanto alle azioni finanziate e realizzate, tutte in larga parte volte al contenimento dei flussi verso l’Unione.

L’apripista di questa nuova strategia è costituito dalla cooperazione con la Turchia, divenuto il Paese chiave per contenere il flusso dei cittadini siriani verso le isole greche. Dopo vari incontri preliminari, con una dichiarazione datata 18 marzo 2016 sono state concordate varie misure tra loro connesse. La Turchia si è impegnata a garantire accoglienza e protezione a circa tre milioni di cittadini siriani, in cambio di ingenti finanziamenti da parte dell’Ue e degli Stati membri (in totale si prospettano sei miliardi di euro) e dello sblocco dei negoziati sull’accordo per la liberalizzazione dei visti a favore dei cittadini turchi. Per la prima volta è stato disciplinato il rimpatrio anche di richiedenti asilo, attraverso l’obbligo imposto alla Grecia di qualificare la Turchia come Paese sicuro e Paese di primo asilo per i cittadini siriani. Nonostante i molteplici impegni assunti dalle rispettive parti, il Tribunale dell’Unione europea ha escluso che la dichiarazione possa essere qualificata come un accordo internazionale dell’Unione europea[63].

Pur con tutte le incertezze circa la tenuta dell’accordo nel lungo periodo, la riduzione significativa degli arrivi nelle isole greche lo ha reso un modello delle relazioni con i Paesi di origine e di transito della rotta del Mediterraneo centrale, in particolare con il Niger e con la Libia, ma più in generale con tutti gli Stati di origine e di transito, coinvolgendo anche le missioni militari, ormai usate anche come uno degli strumenti volti a contrastare il traffico delle persone[64].

Le misure di contenimento dei flussi sono accompagnate da azioni di sostegno, sia per migliorare la condizione dei migranti “bloccati in transito”, talvolta detenuti nei centri di detenzione, sia per “sradicare le cause profonde dell’emigrazione”. Tuttavia, mentre le prime sono misure ad effetto immediato, le altre possono produrre risultati positivi solo nel medio o lungo periodo. Addirittura, le iniziative di cooperazione allo sviluppo tendono nel medio periodo ad un aumento dell’emigrazione e non alla sua riduzione.

Solo una programmata apertura di canali di ingresso regolari potrebbe fungere da misura compensatoria all’azione di contenimento degli ingressi irregolari. Tra l’immigrazione zero ed il blocco degli ingressi, esiste un ventaglio di misure che possono e dovrebbero essere adottate.

Qualche timida ma ancora insufficiente apertura si è registrata in relazione agli ingressi di tipo umanitario, che possono e dovrebbero realizzarsi con modalità diverse, come veri e propri reinsediamenti o come ingressi di tipo umanitario[65]. L’Unione si è dotata di un proprio strumento sul reinsediamento con una raccomandazione nel 2015 e con un programma rinnovato annualmente[66]. È inoltre stata presentata una proposta di regolamento che, se approvata, renderà vincolante lo strumento del reinsediamento, sebbene con la previsione di un piano annuale che gli Stati dovranno accettare su base volontaria e, dunque, senza possibilità di contribuire in modo significativo al rafforzamento dell’efficacia di questa misura[67].

Considerazioni conclusive

Nella costruzione del sistema europeo comune di asilo sono emerse tutte le contraddizioni e le ambiguità dell’Unione europea: un’organizzazione internazionale diversa da tutte le altre quanto ad estensione delle competenze attribuite ed efficacia delle misure adottate negli ordinamenti nazionali, che ambisce a regolare politiche come quelle dell’immigrazione e dell’asilo pur non avendone i poteri sufficienti.

Alla oggettiva inadeguatezza di questo assetto ibrido, si è aggiunta l’incapacità dei governi in senso al Consiglio europeo e della Commissione di sviluppare misure ispirate ad una visione lungimirante. Si spiega così la perdurante centralità dei sistemi Schengen e Dublino, sorti nell’era della cooperazione di diritto internazionale al di fuori dell’Unione, senza che l’immersione nell’Unione europea abbia determinato un loro significativo mutamento.

Proprio sul dossier Dublino si gioca una partita estremamente rilevante, nella quale si confrontano due visioni diverse: quella dei Governi, a loro volta divisi e presi a rincorrere obiettivi di breve periodo, quasi sempre determinati da calcoli elettorali e dall’esigenza di neutralizzare le spinte xenofobe; quella del Parlamento europeo, rappresentante i popoli europei, che ha adottato una proposta di modifica a larga maggioranza, sostenuta da deputati di diversi schieramenti politici e anche di diversi Stati del sud e del nord, dell’ovest e dell’est Europa. Segno che una visione comune e radicalmente diversa sull’asilo in Europa è possibile perché già esiste[68].

[1] A partire dal 1° dicembre 2009 la competenza in materia di immigrazione e asilo è collocata nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e in particolare nel Titolo V, rubricato “Spazio di libertà, sicurezza e giustizia” (artt. da 67 ad 89 del Tfue), il cui capo 2 è dedicato alle “Politiche relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione” (artt. 77-80) che segue il capo 1 sulle Disposizioni generali (artt. 67-76).

[2] Si vedano i Protocolli allegati ai Trattati ed in particolare il Protocollo n. 21 sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda rispetto allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia ed il Protocollo n. 22 sulla posizione della Danimarca.

[3] Come in qualsiasi materia, sono orientamenti politici generali adottati per consensus dal Consiglio europeo a tracciare la traiettoria nella quale le altre istituzioni politiche devono necessariamente muoversi. Sono stati così adottati i programmi di Tampere (1999-2004); dell’Aja (2004-2009); di Stoccolma (2009-2014) e le Strategie di sviluppo dell’area di Libertà, sicurezza e giustizia (2014-2019) approvate il 27 giugno 2014; infine il 13 maggio 2015 è stata adottata l’Agenda per l’immigrazione che ha definito la strategia delle politiche di immigrazione e asilo della Commissione Juncker, fatta propria dal Consiglio europeo.

[4] G. Campesi, Polizia della frontiera. Frontex e la produzione dello spazio europeo, Roma, 2015; M. Savino, (a cura di), La crisi migratoria tra Italia e Unione europea, Napoli, Editoriale scientifica, 2017, pp. 303-348.

[5] Direttiva 2001/55/Ce, Norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell'equilibrio degli sforzi tra gli stati membri che ricevono sfollati e subiscono le conseguenze dell'accoglienza degli stessi, Guce 10 luglio 2001, l. 187, pp. 45 ss.; direttiva 2013/32/Ue del 26 giugno 2013 recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, Guce 29 giugno 2013 l. 180, pp. 60-95; direttiva 2013/33/Ue del 26 giugno 2013 recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, Guce 29 giugno 2013 L 180, pp. 96-116; direttiva 2011/95/Ue del 13 dicembre 2011 recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta, Guce 20 dicembre 2011, l. 337, pp. 9 ss.; Regolamento 604/2013 del 26 giugno 2013 che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati, Guce 29 giugno 2013, l. 180, pp. 31-59. F. Cherubini, Asylum Law in the European Union, 2015, London.

[6] Proposta di regolamento relativo all’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo e che abroga il regolamento (Ue) n. 439/2010, COM(2016)271 del 4 maggio 2016.

[7] In occasione del Summit sui rifugiati e i migranti del 19 settembre 2016 l’Assemblea Generale delle Nazioni unite ha adottato la New York Declaration for Refugees and Migrants, a seguito della quale è stato deciso di elaborare un Global Compact on Refugees e un Global Compact for safe, orderly and regular migration. Quest’ultimo sarà adottato nel corso di una conferenza internazionale convocata per il 10-11 dicembre 2018 in Marocco.

[8] Si veda l’art. 17 della direttiva 2003/86/Ce del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare, Guce 3 ottobre 2003, l. 251, pp- 12-18.

[9] In Italia si veda l’art. 2 del d.lgs 5/2007 che ha modificato l’art. 13 del d.lgs 286/1198 introducendo il comma 2-bis.

[10] M.A. Gliatta, La garanzia costituzionale del diritto di asilo e il sistema di tutela europeo dei richiedenti protezione internazionale, in federalismi.it, 27 dicembre 2017.

[11] Corte di giustizia Ue, 9 novembre 2010, C-57/09, B. e D., punti 118-121; 18 dicembre 2014, C-542/13, M’Bodj, punti 43-47.

[12] Proposta di regolamento che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell'Unione e abroga la direttiva 2013/32/Ue, COM(2016)467 del 13.7.2016.

[13] Corte di giustizia, 17 dicembre 1970, causa 11/70, Internationale Handelsgesellschaft, punto 3. D. Gallo, L’efficacia diretta del Diritto dell’Unione europea negli ordinamenti nazionali, Milano, 2018.

[14] N. Lazzerini, Il rapporto tra primato del diritto dell’Unione e tutela costituzionale dei diritti fondamentali nella sentenza Taricco-bis: buona la seconda?, in Rivista di diritto internazionale, 2018, p. 241.

[15] Corte costituzionale, ordinanza n. 24 del 26 gennaio 2017, a seguito della quale la Corte di giustizia ha pronunciato la sentenza del 5 dicembre 2017, M.A.S. e M.B, C-42/17. C. Amalfitano, La vicenda Taricco e il dialogo (?) tra giudici nazionali e Corte di giustizia, in Diritto dell’Unione europea, 2018; N. Lazzerini, cit.; P. Mori, La Corte costituzionale chiede alla Corte di giustizia di rivedere la sentenza Taricco: difesa dei controlimiti o rifiuto delle limitazioni di sovranità in materia penale, in Rivista di diritto internazionale, 2017, p. 407 ss.; A. Bernardi, C. Cupelli (a cura di), Il caso «Taricco» e il dialogo tra le Corti. L'ordinanza 24/2017 della Corte costituzionale, Napoli, 2017. Sulla necessità di distinguere la tutela dell’identità nazionale dai diritti fondamentali di uno Stato membro si veda G. Di Federico, L’identità nazionale degli stati membri nel diritto dell’Unione europea. Natura e portata dell’art. 4, par. 2, Tue, Milano, 2017.

[16] Si vedano le sentenze sulla Carta reperibili sul sito dell’Agenzia per i diritti fondamentali, catalogate articolo per articolo: http://fra.europa.eu/en/charterpedia/article/18-right-asylum. Si veda anche il rapprto di ECRE, The application of the Eu Charter of Fundamental Rights to asylum procedural law, 2014, www.ecre.org; ACTIONES, Handbook on the Techniques of Judicial Interactions in the Application of the Eu Charter, www.eui.eu.

[17] Corte di giustizia, 26 febbraio 2013, C-617/10, Åkerberg Fransson. Si veda N. Lazzerini, La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. I limiti di applicazione, Milano, 2018.

[18] Corte di giustizia Ue, 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni, punti 62-63; 5 dicembre 2017, C-42/17, M.A.S. e M.B., punti 45-46. A. Torres Pérez, Melloni in Three Acts: From Dialogue to Monologue, in European Constitutional Law Review, 2014, 10, pp. 308–331.

[19] Corte di giustizia Ue, 18 dicembre 204, parere 2/13.

[20] Corte di giustizia, 25 luglio 2002, C-50/00, Unión de Pequeños Agricultores, punto 39.

[21] Il principio dell’effettività ha molteplici applicazioni nell’ordinamento dell’Unione. Si pensi, tra gli altri, al principio della qualificazione sostanziale dell’atto contro quella formale (Corte di giustizia, 29 gennaio 1985, causa 147/83, Binderer, punto 12) o al principio interpretativo dell’effetto utile ormai principio generale che deve guidare l’interprete nell’applicazione delle norme Ue (Corte di giustizia, 9 ottobre 2004, C-200/02, Chen, punto 45; 28 aprile 2011, C-61/11, El Dridi, punto 55).

[22] Sentenze Corte giustizia 27 marzo 2014, C-322/13, Ulrike Elfriede Grauel Rüffer; 24 novembre 1998, C-22274/96, Bickel e Franz; 20 marzo 1997, C-323/95, Hayes, in Racc. p. I-1711; 19 marzo 2002, C-224/00, Commissione c. Repubblica italiana, in Racc. p. I-2965; 23 gennaio 1997, C-29/95, Pastoors e Trans-Cap, in Racc. p. I-285.

[23] Sentenze del 27 giugno 2013, C-93/12, Agrokonsulting; 29 ottobre 2009, C-63/08, Pontin; 22 dicembre 2010, C-279/09, Deb. L’apprezzamento dell’effettività del rimedio è effettuata dalla stessa Corte di giustizia tenendo conto del ruolo che detta norma assume nell'insieme del procedimento, le peculiarità dello stesso dinanzi ai vari organi giurisdizionali nazionali, i principi che sono alla base del sistema giurisdizionale nazionale, quali la tutela dei diritti della difesa, il principio della certezza del diritto e il regolare svolgimento del procedimento (v. sentenza 14 dicembre 1995, causa C-312/93, Peterbroeck, punto 14). Si veda ad es. sentenza 10 aprile 2003, C-276/01, Steffensen, punto 80, laddove la Corte ha affermato che «[…]spetta al giudice nazionale verificare se le norme nazionali in materia di prova applicabili nell’ambito di un tale ricorso non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi di natura interna (principio di equivalenza) e se esse non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività). Inoltre, il giudice nazionale deve esaminare se occorra escludere tale mezzo di prova al fine di evitare provvedimenti incompatibili con il rispetto dei diritti fondamentali, in particolare il principio del diritto ad un processo equo dinanzi a un tribunale, come sancito dall'art. 6, n. 1, della Cedu».

[24] K. M. Safjan, A Union of Effective Judicial Protection. Addressing a multi-level challenge through the lens of Article 47 CFREU, in www.kcl.ac.uk/law/research/centres/european/Speech-KINGS-COLLEGE.pdf.

[25] Si veda l’accurato studio effettuato da A.M. Reneman, EU asylum procedures and the right to an effective remedy, Leiden, 2013.

[26] 11 luglio 2000, Jabari v. Turkey, 40035/98; 5 febbraio 2002, Čonka v. Belgium, 51564/99; 26 aprile 2007, Gebremedhin v France, 25389/05; 28 luglio 1999, Selmouni v. France, 25803/94.

[27] La necessità dell’accertamento individuale e il diverso impatto di una stessa condotta su differenti soggetti è stata sottolineata dalla Corte Edu particolarmente nella sentenza 7 luglio 1989, Soering v. United Kingdom, 14038/88 e poi confermata con orientamento costante.

[28] Si veda Reneman, cit., pp. 275-277, al quale si rinvia anche per gli ampi riferimenti giurisprudenziali.

[29] Corte Edu 23 ottobre 1995, Schmautzer v. Austria, 15523/89; 23 novembre 2006, Jussila v. Finland, 73053/01; 9 ottobre1979, Airey v. Ireland, 6289/73; V. Zagrebelsky, R. Chenal, L. Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, Bologna, 2016, pp. 203-204.

[30] Corte Edu, 12 novembre 2002, Dory v. Sweden, 28394/95.

[31] Sentenza 28 luglio 2011, Samba Diouf; 31 gennaio 2013, HID, C-175/11; 17 dicembre 2015, Tall, C-239/14.

[32] Recentemente la Corte di giustizia ha affermato il diritto ad un ricorso effettivo in relazione al diniego di rilascio di un visto da parte di un’Ambasciata di uno Stato membro; Corte di giustizia, sentenza del 13 dicembre 2017, El Hassani, C-403/16.

[33] Corte Edu, 23 novembre 2006, Jussila v. Finland, 73053/01, par. 41.

[34] Ibidem, punto 40.

[35] Ibidem, punti 44-45.

[36] Il capitolo VII del titolo II dell’Accordo di Schengen recava proprio i criteri per determinare lo Stato competente per l’esame delle domande d’asilo, poi confluiti nella Convenzione sulla determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità europee, firmata a Dublino il 15 giugno 1990 ed entrata in vigore nel 1990, Guce 19 agosto 1997 C 254.

[37] La Convenzione di Dublino è stata “comunitarizzata” con il regolamento 343/2003, per questo comunemente denominato “Regolamento Dublino II”, Guce 25 febbraio 2003 L 50, pp. 1 ss. A questo ha fatto poi seguito il cd. Regolamento 604/2013, detto «Dublino III», Regolamento del 26 giugno 2013 che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati, Guce 29 giugno 2013 L 180, pp. 31-59.

[38] Corte di giustizia Ue, 26 luglio 2017, C-646/16, Jafari.

[39] Corte di giustizia, sentenza 16 febbraio 2018, CK, C-578/16, punti 90-93.

[40] Corte di giustizia, sentenza 6 giugno 2013, M.A., C-648/11.

[41] COM(2014)382 del 26 giugno 2014. Cfr. A. Del Guergio, Superiore interesse del minore e determinazione dello Stato competente all'esame della domanda di asilo nel diritto dell'Unione Europea, in Diritti umani e diritto internazionale, 2014, pp. 243-248.

[42] Si vedano i dati pubblicati dall’Easo a partire dal 2010, www.easo.europa.eu.

[43] Commissione europea, Member States’ notifications of the temporary reintroduction of border control at internal borders pursuant to Article 25 et seq. of the Schengen Borders Code, disponibile su www.ec.europa.eu/dgs/home-affairs/.

[44] La Commissione, compiuta la valutazione del sistema di controllo delle frontiere esterne da parte della Grecia, ha emanato una raccomandazione ai sensi dell’art. 29 del Codice frontiere Schengen che ha consentito agli Stati membri di prorogare i controlli temporanei alle frontiere interne fino ad un massimo di due anni. Decisione di esecuzione (Ue) 2016/894 del Consiglio del 12 maggio 2016, recante una raccomandazione per un controllo temporaneo alla frontiera interna in circostanze eccezionali in cui è a rischio il funzionamento globale dello spazio Schengen, Guce L 151 del 8.6.2016, pp. 8–11. La Commissione ha anche presentato una proposta di modifica del Codice per rendere ancora più flessibile la reintroduzione dei controlli alle frontiere interne. COM(2017)751 del 27 settembre 2017 che modifica il regolamento (Ue) 2016/399 per quanto riguarda le norme applicabili al ripristino temporaneo del controllo di frontiera alle frontiere interne.

[45] Sia permesso il rinvio a C. Favilli, Reciproca fiducia, mutuo riconoscimento e libertà di circolazione di rifugiati e richiedenti protezione internazionale nell’unione europea, in Rivista di diritto internazionale, 2015, 3, pp. 701-747.

[46] D. Vanheule, J. van Selm, C. Boswell, L'attuazione dell'articolo 80 del Tfue sul principio di solidarietà ed equa ripartizione della responsabilità, anche sul piano finanziario, tra gli Stati membri nel settore dei controlli alle frontiere, dell'asilo e dell’immigrazione, Studio redatto per conto del Parlamento europeo, 2011.

[47] G. Morgese, La solidarietà tra gli Stati membri dell’Unione europea in materia di immigrazione e asilo, Bari, 2018; G. Caggiano, Alla ricerca di un nuovo equilibrio istituzionale per la gestione degli esodi di massa: dinamiche intergovernative, condivisione di responsabilità fra gli Stati membri e tutela dei diritti degli individui, in Studi sull’integrazione europea, 2015, pp. 465 ss..

[48] La Corte, con un’articolata e corposa sentenza, ha rigettato tutti i motivi di impugnazione sollevati ed ha anche ribadito la centralità del principio di solidarietà di cui all’art. 80 Tfue, dal quale discende in via di principio una regola di ripartizione degli oneri tra gli Stati membri, secondo le scelte discrezionali operate dalle istituzioni Ue. Corte di giustizia Ue, 2 dicembre 2015, C-643/15, Repubblica slovacca c. Consiglio dell'Unione europea; 3 dicembre 2015, C-647/15, Ungheria c. Consiglio dell’Unione europea.

[49] Decisione 2015/1523 del Consiglio, del 14 settembre 2015, che istituisce misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia, in Guce n. L 239 del 15.9.2015, p. 146; decisione 2015/1601 del Consiglio, del 22 settembre 2015, che istituisce misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia, in Guce n. L 248 del 24.9.2015, p. 80. Corte di giustizia Ue, 6 settembre 2017, C-643/15, Repubblica slovacca e Ungheria contro Consiglio dell'Unione europea.

[50] Così l’art. 7 comune ad entrambe le decisioni. Sono state anche pubblicate specifiche linee guida per il rilevamento delle impronte digitali: Commission Staff Working Document on Implementation of the Eurodac Regulation as regards the obligation to take fingerprints, SWD(2015)150 del 27 maggio 2015. Sul ruolo delle Agenzie si veda Cortese 2017, 157-160). Al novembre 2017 le persone ricollocate dall’Italia erano 10.842 con 2.363 ancora in attesa e dalla Grecia 21.524 con 516 in attesa. La ragione è che le decisioni individuavano come soggetti eligibili solo le persone appartenenti a quelle nazionalità che ottengono lo status almeno nel 75% dei casi sulla base dei dati forniti dai singoli Stati membri ed elaborati dall’Easo.

[51] Hotspot, accoglienza e ricollocamento – Circolare del Ministero dell’interno e Road map italiana, www.asgi.it.

[52] Il Comitato ha approvato il 15 marzo 2018 una risoluzione sulla mancata esecuzione sentenza Khlaifia. Il Comitato ha affermato che «the lack of a legal basis and judicial review in respect of the deprivation of liberty of migrants placed in reception centres, together with the absence of remedies enabling such persons to complain before a national authority about the conditions of their reception” and called the Government to send a detailed report by the end of June 2018 and to indicate “what measures have been adopted or envisaged to ensure that persons placed in such centres are not arbitrarily deprived of their liberty». Document CM/Notes/1310/H46-9, available at: https://search.coe.int/cm/Pages/result_details.aspx?ObjectID=0900001680792629.

[53] Il 19 settembre sono scaduti i due anni dall’entrata in vigore delle decisioni sulla ricollocazione: questa può ancora essere praticata ma solo per le persone che siano giunte in Italia o in Grecia prima del 19 settembre 2018.

[54] F. Maiani, The Reform of the Dublin III Regulation, European parliament, 28 June 2016, www.europarl.eu, 2016, pp. 53-56.

[55] Direttiva 2001/55/Ce, Norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell'equilibrio degli sforzi tra gli stati membri che ricevono sfollati e subiscono le conseguenze dell'accoglienza degli stessi, Guce 7 agosto 2001, l. 212, pp. 12 ss.

[56] Verso una procedura comune in materia di asilo e uno status uniforme e valido in tutta l'Unione per le persone alle quali è stato riconosciuto il diritto d'asilo, COM(2000)755 del 22 novembre 2000, pp. 13-14; Libro verde sul futuro regime comune europeo in materia di asilo, COM(2007)301 del 6 giugno 2007, pp. 6-7. Da segnalare la direttiva n. 2011/51/Ue che ha esteso l’ambito di applicazione della direttiva 2003/109/Ce sullo status di lungo soggiornanti anche ai beneficiari di protezione internazionale. Guce 2011, l. 132, pp. 1-4. La direttiva non prevede alcuna specificità della situazione dei beneficiari di protezione internazionale né concerne in alcun modo il trasferimento di responsabilità, neanche limitatamente al rilascio dei documenti di viaggio.

[57] Comunicazione COM(2016)0197 del 6 aprile 2016,Riformare il sistema europeo comune di asilo e potenziare le vie legali di accesso all'Europa.

[58] M. Di Filippo, Le misure sulla ricollocazione dei richiedenti asilo adottate dall’Unione europea nel 2015: considerazioni critiche e prospettive, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2015, pp. 55-56.

[59] La procedura legislativa ordinaria prevede che la lettura del Parlamento sia esaminata dal Consiglio che può rigettarla, accoglierla o emendarla. Il tutto a maggioranza qualificata a meno che non voglia approvare emendamenti del Parlamento europeo sui quali la Commissione abbia espresso un parere negativo. In questo caso il Consiglio potrebbe approvarli solo all’unanimità. La ricerca dell’accordo tra le istituzioni avviene nei cd. triloghi, le riunioni dei rappresentanti delle tre istituzioni volte a trovare un punto di incontro tra le posizioni del Consiglio e del Parlamento, onde arrivare all’approvazione, possibilmente, in prima lettura.

[60] Nuovo quadro di partenariato con i paesi terzi nell'ambito dell'agenda europea sulla migrazione, COM(2016)385 del 7 giugno 2016. D. Vitiello, La dimensione esterna della politica europea, in Savino, M. (a cura di), La crisi migratoria tra Italia e Unione europea, Napoli, 2017, pp. 303-348.

[61] F. De Vittor, Responsabilità degli Stati e dell'Unione europea nella conclusione e nell'esecuzione di 'accordi' per il controllo extraterritoriale della migrazione, in Diritti Umani e Diritto Internazionale, 2018, 1, pp. 5-28.

[62] Una raccolta ragionata degli accordi di riammissione dell’Unione e dell’Italia, nonché delle variegate forme della cooperazione internazionale in questo settore, può essere reperita nell’annata 2016 della rivista Diritto, immigrazione e cittadinanza, ad essi interamente dedicata. M. Borraccetti, L’Italia e i rimpatri: breve ricognizione degli accordi di riammissione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 1-2, pp. 33-58.

[63] Il Tribunale dell’Unione europea ha pronunciato ha pronunciato una criticabile ’ordinanza di inammissibilità su un ricorso diretto di annullamento presentato da due cittadini pachistani ed uno afghano; 28 febbraio 2017, NC c. Consiglio europeo, T-192/16. È pendente un ricorso di impugnazione dell’ordinanza del Tribunale di fronte alla Corte di giustizia, C-208/16 P. Tra tutti i numerosi contributi sul punto si veda E. Cannizzaro, Disintegration through Law?, 2016, 1, pp. 3-6; M. Marchegiani, e L. Marotti, L’accordo tra l’Unione europea e la Turchia per la gestione dei flussi migratori: cronaca di una morte annunciata?, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2016, 1-2, pp. 59-82..

[64] In particolare, con il Mali è stata avviata nel 2015 la missione EUCAP Sahel Mali, una missione civile dell’Unione (decisione (PESC) 2017/50 del Consiglio dell’11 gennaio 2017 che modifica la decisione 2014/219/PESC relativa alla missione dell'Unione europea in ambito PSDC in Mali (EUCAP Sahel Mali). Dal 2012 è operativa la missione EUCAP Sahel Niger: decisione 2012/392/PESC del Consiglio del 16 luglio 2012 relativa alla missione dell’Unione europea in ambito PSDC in Niger (EUCAP Sahel Niger). Anche il Governo italiano ha dislocato una missione militare in Niger che si aggiunge alle missioni già presenti in Libia e a quelle avviate nell’ambito della NATO: Deliberazione del Consiglio dei ministri in merito alla partecipazione dell'Italia a missioni internazionali da avviare nell'anno 2018, adottata il 28 dicembre 2017, approvata dal Parlamento con due risoluzioni distinte, una del Senato del 15 gennaio e una della Camera del 17 gennaio 2018. Si veda la scheda Difesa e Forze armate. Autorizzazione e proroga di missioni internazionali per l'anno 2018, in www.camera.it.

[65] In questo senso si è pronunciata la Corte di giustizia sul rinvio pregiudiziale di un giudice belga al quale si erano rivolti due cittadini siriani che si erano visti negare un visto di breve durata ai sensi del Codice visti richiesto sulla base di motivi umanitari: 7 marzo 2017, X. e X. contro État belge,C-638/16.

[66] Raccomandazione 2015/914 della Commissione dell’8 giugno 2015 relativa a un programma di reinsediamento europeo e raccomandazione della Commissione C(2015)9490, 11 novembre 2016 sul reinsediamento dalla Turchia.

[67] Proposta COM(2016)468 del 13 luglio 2016 che istituisce un quadro dell’Unione per il reinsediamento e modifica il regolamento (Ue) n. 516/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio.

[68] E. Ambrosi, The Unbearable Lightness of Leadership, in EU Observer, 18 ottobre 2017.