Magistratura democratica

La protezione internazionale alla prova del genere:
elementi di analisi e problematiche aperte

di Enrica Rigo

Il dibattito critico sulla protezione internazionale in una prospettiva di genere si è sviluppato soprattutto attorno alla definizione contenuta nella Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951. L’articolo ripercorre le tappe e le questioni principali sollevate dal dibattito internazionale e le mette a confronto con la prassi e gli orientamenti giurisprudenziali. Nonostante la normativa affermi esplicitamente la necessità di interpretare il diritto alla protezione internazionale tenendo in debito conto le considerazioni e l’identità di genere, molte sono le questioni ancora aperte, sia in riferimento alle forme complementari di protezione, che nel confronto con la prassi applicativa dell’autorità amministrativa e della magistratura di merito.

1. I diritti delle donne sono diritti umani

L’affermazione che «i diritti umani sono diritti delle donne e i diritti delle donne sono diritti umani», secondo la frase resa famosa da Hillary Clinton alla conferenza di Beijing del 1995, è probabilmente la più celebre attestazione di un’epoca in cui il diritto internazionale è diventato terreno di rivendicazione e riconoscimento dei diritti delle donne. Nella prospettiva teorica del femminismo giuridico - ovvero, di quell’insieme di teorie giuridiche che hanno sottoposto a critica la pretesa neutralità delle norme nei confronti dei soggetti a cui si rivolgono[1] - si tratta di una rivendicazione non scontata né pacificata, dal momento che porta in primo piano la contraddizione tra la postura critica rispetto al diritto dei movimenti femministi e la possibilità di fare del diritto stesso uno strumento per l’avanzamento della condizione femminile[2]. Il diritto dei rifugiati offre un prisma attraverso cui osservare questa duplice tensione. Da un lato, esso è per origine e ratio un diritto solo parzialmente ascrivibile a quel corpo di regole del diritto internazionale che, a partire dal secondo dopoguerra, si è proposto l’obbiettivo di proteggere i diritti umani attraverso la condanna, morale prima ancora che giuridica, degli Stati che li violano. Il diritto dei rifugiati è, infatti, un diritto “rimediale”[3] in cui la tutela delle situazioni individuali è rimessa alle legislazioni degli Stati stessi, e rispetto al quale non esiste un organismo internazionale deputato a conoscere delle sue violazioni[4]. Dall’altro, è indubbio che alcuni degli sviluppi segnati dal diritto dei rifugiati si siano avuti per il tramite della sua interpretazione alla luce dei trattati e delle Convenzioni a tutela dei diritti umani. Una evoluzione che non è priva di ambivalenze, dal momento che ha modificato la natura stessa della protezione codificata dalla Convenzione sullo status dei rifugiati, conclusa a Ginevra il 28 luglio del 1951, torcendo, almeno in parte, la ratio del rifugio politico in quella di un rifugio umanitario[5].

Il dibattito sulla Convenzione di Ginevra del 1951 portato avanti in una prospettiva di genere non ha avuto forte eco in Italia[6]. Sebbene la critica abbia preso le mosse dal carattere prettamente maschile del modello attorno a cui è stata costruita la definizione di rifugiato, essa è andata al cuore della funzione politica del diritto dei rifugiati, ovvero - per dirla con Patricia Tuitt - della costruzione dell’identità del rifugiato come ambasciatore dei valori dell’Occidente[7]. Una costruzione in cui le identità molteplici che compongono ogni soggettività e l'irripetibilità di ogni storia personale vengono ricondotte in una cornice ristretta, sufficientemente flessibile per essere funzionale dell’affermazione dell’identità politica dello Stato che concede la protezione. Per dirla in altri termini, a partire dalla considerazione che le donne, in quanto portatrici di una soggettività sessuata, non trovavano posto nella Convenzione di Ginevra del 1951, era stato l’intero assetto del diritto dei rifugiati, delle sue funzioni politiche e, in definitiva, del modello degli Stati nazionali che esso affermava[8] a essere travolto dallo scrutinio critico del femminismo giuridico.

Non vi è dubbio che oggi la legislazione sulla protezione internazionale, almeno in Europa, affermi esplicitamente la necessità di interpretare la normativa sulla protezione internazionale tenendo in debito conto le considerazioni e l’identità di genere (ultra, § 2). Come ha messo in evidenza parte della letteratura[9], questo risultato ha tuttavia fatto abbassare la guardia della critica, sia rispetto alle ragioni più complessive che l’avevano mossa, sia rispetto alla necessità di verificare se al quadro normativo corrisponda un concreto avanzamento delle tutele e un riconoscimento effettivo dei diritti delle donne che chiedono protezione. Si tratta di un tema che oggi è di rilievo fondamentale a fronte di una crescita esponenziale delle domande di asilo inoltrate da donne in Europa, e che, solo in Italia, sono passate da 4753 nel 2014 a 21053 nel 2017[10]. Ripercorrere alcune tappe del dibattito che, soprattutto negli Stati Uniti e nei decenni successivi al dopoguerra, si è sviluppato attorno al diritto dei rifugiati come diritto che tendenzialmente esclude le donne, è dunque utile a comprendere perché, nonostante le modifiche intervenute sul piano normativo, l’esperienza mostri come le persecuzioni e le violenze connotati in una dimensione di genere fatichino ancora oggi a essere riconosciute come ragioni per ottenere la protezione internazionale.

2. I diritti delle donne sono diritti delle rifugiate

La definizione di rifugiato contenuta nell’art 1 A (2) della Convenzione di Ginevra del 1951 offre quasi un caso di scuola per mostrare come la razionalità astratta della legge, che a sua volta viene intesa come quel carattere da cui la legge trae la propria autorevolezza, non sia un vestito che si adatta a essere indossato indifferentemente da uomini o da donne. Le ragioni della persecuzione, tassativamente elencate dall’art. 1 A (2) nella razza, religione, nazionalità, opinioni politiche e appartenenza a un gruppo sociale determinato, come noto, non includono il sesso; né la differenza sessuale è menzionata nell’articolo 3 della Convenzione che impone di applicarla senza discriminazioni legate alla razza, alla religione o al Paese di origine[11]. La connotazione al maschile della Convenzione non deriva tuttavia solo da tale assenza, bensì dal fatto che le ragioni di persecuzione sono costruite attorno a una rigida divisione tra la sfera pubblica e quella privata, la quale, privilegiando la prima, esclude tendenzialmente le donne[12]. È ovvio, infatti, che indicare caratteristiche come la razza o la religione quali ragioni di persecuzione non fa riferimento a peculiarità dell’individuo che concernono le sue convinzioni private o caratteri biologici, bensì alla rilevanza sociale di tali caratteristiche nonché al trattamento discriminatorio e finanche persecutorio che esse ricevono. Si badi, che questa affermazione non significa che non vi siano donne perseguitate per le medesime ragioni degli uomini, ma che le specifiche manifestazioni di violenza di cui sono oggetto prevalentemente le donne, come per esempio la violenza domestica o sessuale, e che sono comunemente ascritte alla sfera della violenza privata, si fanno largo a fatica nella definizione della Convenzione.

Coerentemente con la postura critica del femminismo giuridico verso l’universalità astratta del diritto, non è un caso che le obiezioni sollevate nei confronti della Convenzione del 1951 siano state portate avanti a partire da rivendicazioni concrete. Ancora alla fine degli anni Ottanta le Corti degli Stati uniti consideravano lo stupro come una forma di violenza privata, anche quando evidentemente perpetrato per ragioni politiche[13]. A portare la giurisprudenza su posizioni diverse è stato il lavoro congiunto di avvocati, gruppi di attiviste, e di esperienze accademiche come quella della Harvard Immigration and Refugee Clinic, impegnati nei casi di stupro delle donne haitiane che fuggivano verso gli Stati uniti dopo il colpo di Stato del 1991 o in supporto delle rivendicazioni delle donne provenienti dal centroamerica che fuggivano dalla violenza domestica[14]. A fare da apripista al riconoscimento dello stupro come forma di tortura, anche al di fuori dei contesti di detenzione o dei conflitti armati, sono stati proprio i casi di asilo decisi da Corti statunitensi e canadesi agli inizi degli anni Novanta[15]; ben prima che tali violazioni venissero ufficialmente riconosciute come tortura dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda nel 1998. Una vicenda che mostra, peraltro, come l’influenza tra regime dei diritti umani e diritto dei rifugiati non sia affatto unidirezionale.

Non è possibile ripercorrere in questa sede l’intera storia delle rivendicazioni e delle tappe del dibattito sulla Convenzione di Ginevra in una prospettiva di genere. Solo per elencare alcuni dei nodi in discussione, essi vanno dal riconoscimento delle donne come determinato gruppo sociale ai sensi dei nessi causali[16] previsti dalla definizione di rifugiato; al riconoscimento di atti di violenza specificamente rivolti contro un genere, come la violenza sessuale o i maltrattamenti domestici, come atti persecutori; al dibattito sulla qualificazione pubblica o privata degli agenti persecutori; alla critica della gerarchia dei diritti fatta propria dal diritto internazionale, che, nel confronto con i diritti civili e politici, attribuisce rilevanza solo marginale ai diritti sociali e alla garanzia delle condizioni materiali di sussistenza.

Il primo riconoscimento a livello internazionale della necessità di integrare una prospettiva di genere nella valutazione delle domande di protezione è avvenuto, a oltre cinquant’anni dalla Convenzione, solo con le linee guida dell’Unhcr del 2002[17] che, sebbene siano uno strumento non vincolante, dettano indicazioni autorevoli per il rispetto di standard di interpretazione uniformi. Vale la pena menzionare almeno due aspetti che fanno di tali linee guida uno strumento, a oggi, non superato. Il primo riguarda la definizione di genere come categoria socialmente costruita e, dunque, non completamente sovrapponibile alla differenza sessuale anche rispetto al binarismo tra uomo e donna: «Il genere si riferisce alla relazione tra uomo e donna basata su identità, status, ruoli e responsabilità, costruite e definite socialmente o culturalmente, che vengono assegnate alle persone appartenenti a un sesso o a un altro, mentre il sesso è una determinazione biologica. Il concetto di genere non è statico o innato, ma acquista significati costruiti socialmente e culturalmente nel tempo»[18]. Il secondo aspetto riguarda, invece, la menzione esplicita delle donne come determinato gruppo sociale ai sensi dell’elenco delle ragioni di persecuzione previste dalla Convenzione di Ginevra, e considerate come tassative. Secondo le linee guida, infatti: «la caratteristica del sesso può essere correttamente collocata nella categoria di gruppo sociale, con le donne che costituiscono un chiaro esempio di sottoinsieme sociale definito da caratteristiche innate e immutabili e che sono di frequente trattate in maniera differente rispetto agli uomini. Le loro caratteristiche inoltre le identificano come gruppo in una società, rendendole soggette, in alcuni Paesi, a trattamenti e standard differenti»[19].

Quest’ultima questione è particolarmente rilevante, poiché si tratta di uno dei pochi riferimenti espliciti, contenuto in documenti internazionali, alla possibilità di considerare le donne come gruppo sociale in sé[20]. Le successive Linee guida del 2012[21], sulle domande di riconoscimento fondate sull’orientamento sessuale e/o l’identità di genere e riferite, in particolare, sulle persone Lgbt, non fanno infatti più riferimento alle donne quale gruppo sociale determinato. Una scelta analoga, è stata operata dalla cosiddetta Direttiva Qualifiche, riformata nel 2011[22], la quale all’art. 10 comma 1, d), dopo aver specificato che, in funzione delle circostanze del Paese d’origine un determinato gruppo sociale può essere fondato sulla caratteristica dell’orientamento sessuale, chiarisce altresì che: «Ai fini della determinazione dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale, o dell’individuazione delle caratteristiche proprie di tale gruppo, si tiene debito conto della considerazione di genere, compresa l’identità di genere». Se, da un lato, l’espressione utilizzata dalla direttiva è sufficientemente generica da poter ricomprendere anche la condizione delle donne tra la “considerazione di genere”, dall’altro, come ha messo in luce parte della letteratura, si è forse persa una buona occasione per introdurre un riferimento espresso alle donne come determinato gruppo sociale, e dunque una presunzione rispetto alle ragioni della persecuzione[23], così come invece è esplicitato per gli appartenenti a un gruppo caratterizzato per l’orientamento sessuale.

Il passaggio della Direttiva Qualifiche sulla considerazione e l’identità di genere è stato riprodotto fedelmente dall’art. 8 del d.lgs 251 del 2007, emendato nel 2014 dalla legge di trasposizione della direttiva, il quale al primo comma ha altresì introdotto, accanto agli atti di persecuzione, la «mancanza di protezione contro tali atti», fugando così ogni dubbio sul fatto che ci si trovi di fronte a persecuzione anche qualora non venga offerta adeguata protezione contro atti perpetrati da agenti persecutori privati. Sempre in merito alla Direttiva Qualifiche, è opportuno menzionare, poi, l’art. 9 sugli atti di persecuzione, il quale al comma 2, lettera a), nomina gli atti di violenza sessuale, mentre, alla lettera f), richiama gli «atti specificamente diretti contro un sesso o contro l’infanzia». In conformità all’espressione utilizzata sia nella versione inglese che in quella francese della direttiva, il d.lgs 251/2007 all’art. 7, comma 2, lettera f), ha tradotto l’espressione con «atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia».

A fronte delle scelte operate sia dal diritto europeo che da quello nazionale, appare dunque ancora più rilevante la recente pronuncia della Cass. civ., sez. I, 24 novembre 2017, n. 28152, rel. Acierno, sul riconoscimento dello status di rifugiata nel caso di una donna costretta ad abbandonare il proprio Paese di origine per sottrarsi a pratiche tradizionali che impongono alle vedove di unirsi in matrimonio con il fratello del defunto marito[24]. La sentenza interviene su una serie di questioni, tra cui gli «atti di persecuzione specificamente rivolti contro un genere», in merito ai quali la Corte richiama espressamente l’ampia nozione di violenza nei confronti delle donne e violenza domestica prevista dall’art. 3 della Convenzione di Istanbul, nonché sull’individuazione del determinato gruppo sociale. In merito a tale seconda questione, la decisione così recita «Non c’è dubbio, per quanto sopra esposto, che l’odierna ricorrente sia stata vittima di una persecuzione personale e diretta per l’appartenenza a un gruppo sociale (ovvero in quanto donna), nella forma di “atti specificamente diretti contro un genere sessuale”». La Corte ha inoltre deciso nel merito la questione, riconoscendo lo status di rifugiata alla ricorrente[25].

La Convenzione di Istanbul è richiamata dalla Cassazione anche in relazione all’art. 60, il quale dispone che gli Stati firmatari «adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell’articolo 1, A (2) della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e come una forma di grave pregiudizio che dia luogo a una protezione complementare/sussidiaria». Il riferimento alle forme di protezione sussidiaria o complementare a esiti interpretativi importanti, dal momento che il dibattito dottrinario si è focalizzato fino ad ora sulla definizione di rifugiato ai sensi Convenzione di Ginevra del 1951, la quale è resa particolarmente rigida dalla tassativa elencazione dei motivi a cui è necessario ricondurre la persecuzione. Tuttavia, non superfluo osservare come la prassi interpretativa che si è strutturata attorno alla definizione di rifugiato, e che a lungo ha misconosciuto la rilevanza della violenza specificamente rivolta contro un genere sessuale, influenzi inevitabilmente anche l’applicazione delle forme gradate di protezione internazionale. Proprio su questo punto si era espressa una precedente pronuncia della Cassazione in una vicenda in cui la richiesta di protezione era fondata su atti di violenza domestica. La Corte ha ricondotto tale violenza a quella integrante un grave danno in caso di rimpatrio, dovuto al rischio di incorrere in trattamenti inumani o degradanti, che l’art. 14, lettera b) pone a fondamento della protezione sussidiaria «in base ad una interpretazione che, per un verso, non trova ostacolo letterale nell'ampia dizione normativa e, per altro verso, è imposta dal richiamato art. 60, primo comma, ultima parte, della Convenzione» (Cass. civ., sez. VI, del 17 maggio 2017, n. 12333, rel. De Chiara)[26].

Seguendo l’impostazione affermata dalla Cassazione, non vi è dubbio che la necessità di interpretare attraverso il prisma del genere le forme complementari di protezione si estenda anche alla protezione umanitaria prevista dall’art. 5, comma 6, del d.lgs 286/98. Come noto, la giurisprudenza in funzione nomofilattica ha chiarito più volte (cfr., Benvenuti, in questa Rivista) che i presupposti di tale protezione non coincidono con quelli della protezione sussidiaria prevista dalle direttive europee, e li ha invece ricondotti all’art. 10 della Costituzione, il quale impone il rispetto degli obblighi costituzionali o derivanti dai trattati internazionali. Secondo tale interpretazione, le tre forme gradate dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria concorrono a dare attuazione complessiva al disegno dell’asilo costituzionale. Proprio in riferimento alla protezione umanitaria, i recenti arresti della giurisprudenza hanno, peraltro, segnato importanti sviluppi, riconoscendo che la condizione di vulnerabilità del richiedente asilo, meritevole di protezione, può derivare dalla violazione dei suoi fondamentali diritti di sussistenza, ossia dalla «mancanza di condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa» (Cass. civ., sez. I, del 23 febbraio 2018, n. 4455, rel. Acierno). Come già accennato, il riconoscimento che l’esercizio dei diritti non può prescindere dalla garanzia delle condizioni di sussistenza materiale è una questione centrale quando si guardi all’impianto della protezione internazionale in una prospettiva di genere[27]. Quando a fuggire da situazioni di violenza sono le donne, i bisogni materiali di sussistenza acquisiscono infatti una rilevanza specifica, sia in ragione del ruolo che le donne svolgono nella cura dei figli o di altri soggetti non autosufficienti, sia per le forme di discriminazione economica a cui sono soggette, nonché per la circostanza che, sovente, sono padri, mariti, o chi ne fa le veci a detenere il controllo sui mezzi necessari a cercare una via di fuga e affrancamento dalla condizione di violenza o subordinazione in cui sono costrette le donne.

3. La protezione di genere alla prova della prassi interpretativa

Le poche pronunce della Cassazione riferite alla protezione internazionale in una prospettiva di genere, quando paragonate all’elevato contenzioso a cui deve far fronte la giurisprudenza di merito, se, da un lato, danno conto di una funzione nomofilattica in fieri, dall’altro, dovrebbero suonare da campanello d’allarme rispetto alle difficoltà concrete che incontrano le donne richiedenti asilo nel perseguire le proprie istanze fino alle Corti apicali. La mancanza di dati certi al riguardo è un problema rilevato dalla letteratura sul tema non solo in Italia[28]: anche quando le statistiche sugli esiti delle domande di asilo fornite dalle autorità amministrative sono disaggregate per genere, non è infatti dato sapere quali fossero le questioni poste a fondamento della domanda. Lo stesso si può dire per quanto riguarda le pronunce giurisprudenziali, dal momento che le rassegne disponibili sulle riviste specializzate possono contare solo sui provvedimenti messi a disposizione dagli avvocati stessi, o da associazioni a tutela dei diritti delle donne, e non forniscono dunque un quadro attendibile rispetto agli effettivi orientamenti della giurisprudenza di merito. Se si intende l’accesso alla giustizia come un processo culturale e sociale[29], che guarda all’effettività delle tutele e non può essere risolto dalla garanzia formale dell’accesso individuale al diritto di difesa, la difficoltà di fornire un quadro esaustivo sulla questione è parte del problema, dal momento che è specchio di una cultura giuridica dove migrazione e asilo sono considerate ancora questioni marginali o riservate agli addetti ai lavori[30].

Le osservazioni che seguono, su alcuni orientamenti delle Commissioni territoriali e della giurisprudenza di merito, non possono dunque che fornire uno squarcio di prospettiva molto parziale. Esse si basano soprattutto sulle ricerche condotte all’interno della Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza dell’Università di Roma Tre, e riguardano casi di donne richiedenti asilo udite dalla Commissione territoriale di Roma tra il 2013 e il 2017, ovvero nel periodo che ha portato all’incremento massimo delle domande di asilo presentate da donne, nonché le decisioni del Tribunale di Roma in sede di eventuale impugnazione[31]. La rassegna qui presentata mira semplicemente a illustrare alcune delle principali questioni emerse, sia rispetto agli orientamenti interpretativi, sia sulle opportunità effettive di un pieno accesso alla tutela delle situazioni in cui le considerazioni di genere appaiono rilevanti.

Tra le questioni su cui si è espresso il Tribunale di Roma, con orientamento pressoché costante, vi è quella delle mutilazioni genitali femminili, considerate una forma di persecuzione integrata da atti rivolti contro uno specifico genere sessuale. Tra le decisioni prese in esame, vi è un’ordinanza, pronunciata già nel 2014 dal Trib. Roma, sez. I civ. del 29/12/2014, est. Got Mansi, relativa a una donna proveniente dalla regione di Casamance, in Senegal, a cui la Commissione territoriale, aveva riconosciuto lo status attenuato della protezione umanitaria. Il Tribunale, a seguito dell’allegazione di un certificato medico attestante cicatrici compatibili con le mutilazioni genitali, ha diversamente deciso per il riconoscimento dello status di rifugiata, argomentando a favore della sussistenza del «fondato timore che la ricorrente possa subire violenza in ragione della sua appartenenza al genere femminile», nonché riscontrando il rischio concreto ed effettivo che «ella sia sottoposta, come in passato, nel suo Paese di origine ad un trattamento inumano e degradante quale è la pratica della mutilazione dei genitali femminili». Dello stesso tenore è la decisione recente del Trib. Roma, sez. I civ. del 02/02/2018, est. Got De Luca, in cui una ricorrente proveniente dalla Nigeria aveva invece impugnato il diniego di ogni forma di protezione da parte della Commissione territoriale. In questo secondo caso, la richiedente asilo aveva peraltro riferito alla Commissione di atti di violenza domestica, nei confronti propri e dei figli, protrattisi per anni, e aveva circostanziato le difficoltà incontrate nel ricevere protezione da parte delle autorità. La Commissione di Roma, nella seduta del 25/02/205, aveva tuttavia ritenuto contradditorio il racconto, che è stato invece successivamente confermato nel processo e ritenuto credibile dal Tribunale.

Nel secondo caso illustrato, il verbale di audizione e il provvedimento decisorio della Commissione territoriale, non contengono riferimenti alle mutilazioni genitali. Tale circostanza fa presumere che il racconto posto a fondamento della richiesta di asilo non avesse inizialmente evidenziato le mutilazioni subite. L’assenza di consapevolezza rispetto ai presupposti che possono integrare la domanda di protezione internazionale è una situazione non inusuale, specie nei casi di violenze che colpiscono prevalentemente un genere sessuale, sovente legate a un certo grado di radicamento culturale che ne attenua la percezione sociale. Il dovere di informazione, previsto dall’art. 8 della Direttiva 2013/32/Ue e sul quale è intervenuta l’ordinanza Cass. civ., sez. VI, del 25 marzo 2015, n 5926, rel. De Chiara, fa riferimento esplicito al solo obbligo degli Stati membri di fornire informazioni sulla possibilità di inoltrare domanda di protezione internazionale. Il dato testuale non specifica ulteriormente il contenuto di tale obbligo che, tuttavia, secondo quanto raccomandato dalla Corte Edu, seppur in riferimento a persone interessate da una procedura di allontanamento, dovrebbe estendersi al «diritto di ottenere informazioni sufficienti a consentire loro di avere un accesso effettivo alle procedure e di sostenere i loro ricorsi» (Hirsi c. Italia, n. 27765/09, sentenza del 23 febbraio 2012). Inoltre, l’obbligo di fornire informazioni che tengano conto delle questioni di genere potrebbe essere desunto dall’art. 60 della Convenzione di Istanbul che al comma 3 impone di adottare «le misure legislative o di altro tipo necessarie per sviluppare procedure di accoglienza sensibili al genere e servizi di supporto per i richiedenti asilo, nonché linee guida basate sul genere, compreso in materia di concessione dello status di rifugiato e procedure di asilo sensibili alle questioni di genere, compreso in materia di status di rifugiato e di richiesta di protezione internazionale».

Un secondo ordine di questioni, su cui il Tribunale si è però pronunciato di rado, riguarda la valutazione di domande presentate da donne e connesse all’orientamento sessuale che, in tutti i tre casi del campione preso in esame, sono state rigettate dalla Commissione territoriale di Roma perché ritenute non credibili. Nella seduta del 24/08/2015, per esempio, la Commissione ha rigettato la domanda di protezione di una donna nigeriana che aveva dichiarato di essere stata costretta ad allontanarsi dalla Nigeria dopo essere stata sorpresa in atteggiamenti intimi con una nipote. Il provvedimento decisorio della Commissione ha ritenuto il racconto della richiedente asilo inverosimile «anche per le numerose e contradditorie dichiarazioni sulla sua età, la zona di provenienza, quella di partenza, i suoi orientamenti sessuali, la sua uscita dalla Libia e la vicenda della tratta; in particolare non si comprende perché il suo unico timore sia per la zia che vive a Kano, visto che la richiedente ha vissuto sempre nel sud ed anzi nel C3 ha dichiarato di essere di Benin City». Si tratta dell’unico caso, tra i tre esaminati, in cui il Tribunale di Roma si sia già pronunciato sul ricorso contro il provvedimento di diniego confermando la decisione della Commissione territoriale (Trib. Roma, sez. I civ., del 30/09/2016, est. Ciavattone). L’ordinanza, alquanto stringata, non motiva in riferimento al rischio connesso all’orientamento sessuale della ricorrente, che pur era stato evidenziato anche in sede di ricorso. Nella motivazione, la quale rimanda a quanto riferito nell’audizione di fronte alla Commissione territoriale e confermato nel processo, si legge infatti che la ricorrente ha dichiarato «di essersi allontanata dalla Nigeria per problemi familiari, rispetto ai quali ha reso dichiarazioni confuse e contradditorie». Il timore di subire atti persecutori in ragione del proprio orientamento sessuale, nonché l’impossibilità a esercitare i propri diritti di libertà, sembrano dunque essere stati oggetto di valutazione solo come generici problemi familiari, né il Tribunale ha ritenuto sussistenti altri presupposti per concedere una forma gradata di protezione. Il medesimo orientamento è stato confermato dalla Corte di appello di Roma che, nella sentenza 2716/2018 del 26/04/2018, rel. Loasses, ha ritenuto non comprovata l’omosessualità dell’appellante. Nella motivazione, la Corte di appello specifica che «non potendosi ritenere veritiero il racconto del [sic] appellante – che in astratto avrebbe reso possibile la concessione della protezione richiesta – non può neppure essere riconosciuta alla medesima la protezione sussidiaria, consentita esclusivamente in presenza di un danno grave ricorrente nelle ipotesi tassativamente elencate dall’art. 14 del d.lgs 251/2007. Sul punto va infatti evidenziato che la zona di origine della appellante (Edo State) non presenta, attualmente, come riscontrabile dai siti internazionali, una situazione di violenza generalizzata né è interessata da conflitti etnici e religiosi». La Corte di appello ha, inoltre, rigettato la richiesta di protezione umanitaria che l’interessata aveva fondato anche sulla base di allegazioni mediche attestanti un disturbo post-traumatico e depressivo dovuto, peraltro, al fatto di aver subito violenze sessuali da parte di uomini durante il passaggio in Libia, mentre, secondo quanto riporta il referto medico, il suo orientamento sessuale è rivolto alle donne.

Quest’ultimo caso solleva una questione che è trasversale a molti dei provvedimenti decisori presi in rassegna e riguarda l’intersezionalità con cui dovrebbero essere valutate le domande di protezione internazionale fondate su atti di violenza rivolti contro un genere sessuale. Il termine, coniato alla fine degli anni Ottanta dalla letteratura giuridica[32] per sottolineare i limiti della legislazione contro le discriminazioni quando queste sono basate su caratteristiche da considerarsi cumulativamente come genere, origine, orientamento sessuale e classe sociale, è sempre più di frequente utilizzato anche dalla letteratura in materia di protezione internazionale[33]. Nel caso da ultimo descritto, per esempio, né la Commissione né i due gradi della magistratura di merito sembrano aver tenuto conto del fatto che la bassa scolarizzazione della donna, la provenienza da un Paese dove l’omosessualità è oggetto di una forte stigmatizzazione sociale e le condizioni psicofisiche compromesse dalle violenze subite possono influire profondamente sulla coerenza del racconto. Si tenga presente, poi, che l’audizione da parte della Commissione territoriale, nel caso di specie, si era tenuta presso il Centro di Identificazione e Espulsione (Cie) di Ponte Galeria[34], dove la donna, giunta in Italia via mare poche settimane prima, si trovava in stato di trattenimento.

Un approccio intersezionale, ovvero che consideri come connesse le diverse forme di discriminazione che possono riguardare un medesimo soggetto, impone altresì che le ragioni di persecuzione elencate dalla definizione di rifugiato, così come i presupposti delle forme gradate di protezione, non siano oggetto di valutazione disgiunta, bensì concorrano a formare il quadro generale della valutazione, il quale deve essere, a sua volta, calibrato attorno a un profilo attento alle considerazioni e all’identità di genere. Tale approccio è esemplificato da alcune recenti decisioni collegiali, pronunciate ai sensi del nuovo rito, dal Tribunale di Roma. Nel decreto Trib. Roma, sez. XVIII civ., del 03/05/2018 rel. Albano, rg 69666/2017, per esempio, il Tribunale si è pronunciato sul caso di una donna nigeriana, proveniente dall’Edo State, a cui la Commissione territoriale di Roma, nella seduta del 18/05/2017, aveva negato ogni forma di protezione. Viceversa, il collegio ha riconosciuto alla ricorrente lo status di rifugiata per essere stata «vittima di persecuzione in quanto appartenente ad un determinato gruppo sociale, quale può definirsi il genere femminile, sottoposta alla pratica delle mutilazioni genitali femminili, oltre che al rischio specifico derivante dall’esteso fenomeno della tratta di esseri umani a fini sessuali nell’area di provenienza, diffusamente eseguita nel territorio stante il clima di impunità regnante». Nella motivazione, la persecuzione integrata dalle mutilazioni genitali e il rischio di subire un grave danno derivante dal fenomeno della tratta sono, dunque, considerate congiuntamente e valutate entrambe tenendo in debito conto le considerazioni e l’identità di genere dell’interessata. In particolare, argomentando in merito al rischio di tratta, la decisione del Tribunale valuta elementi che la ricorrente aveva già riferito nell’audizione di fronte alla Commissione territoriale, quale il tentato reclutamento da parte di in una setta indicata dai rapporti internazionali sulla tratta come una rete di sfruttamento della prostituzione. La Commissione avrebbe, pertanto, ben potuto accordare alla donna una forma di protezione gradata come quella sussidiaria, anche in assenza dell’allegazione sulle mutilazioni genitali comprovante il rischio individualizzato di persecuzione. Allo stesso modo, nel caso sull’orientamento sessuale discusso poc’anzi, pur non ritenendo pienamente credibile il racconto della donna rispetto al proprio orientamento sessuale, il Tribunale e la Corte di appello avrebbero potuto valutare i rischi, in caso di rimpatrio, specificamente connessi al genere sessuale, come appunto quello della tratta e delle diffuse forme di violenza contro le donne, e non solamente le generiche allegazioni sulla sicurezza del Paese.

In seguito alla costituzione della Sezione specializzata sui diritti della persona e l’immigrazione, istituita dopo l’entrata in vigore della riforma prevista dal dl 13/2017 conv. in l. 46/2017, le decisioni del Tribunale sembrano aver assunto un impianto argomentativo più uniforme e un orientamento più costante. Si segnalano, per la valutazione congiunta delle intersezioni tra le caratteristiche personali delle richiedenti asilo, nonché della loro rilevanza rispetto ai presupposti delle diverse forme di protezione, la decisione Trib. Roma, sez. XVIII civ., del 03/05/2018, rel. Albano, rg 65893/2017, in cui la Corte di merito ha riconosciuto lo status di rifugiata a una donna nigeriana vittima di tratta e di violenza domestica connessa al matrimonio forzato; e la decisione di cui al decreto Trib. Roma sez XVIII civ., del 03/05/2018, rel. Albano, rg 70955/2017, in cui il collegio giudicante, valutando i presupposti della protezione sussidiaria, ha riconosciuto il rischio congiuntamente legato «all’appartenenza di genere, alla giovane età ed all’appartenenza ad un gruppo sociale medio basso e scarsamente scolarizzato, derivante dall’esteso fenomeno della tratta di esseri umani a fini sessuali nell’area di provenienza, oltreché dalla pratica delle mutilazioni genitali, anche questa particolarmente estesa nell’area di provenienza». Tale impianto argomentativo, peraltro, appare congruente con l’obbligo istruttorio, che grava sull’autorità amministrativa e su quella giudicante in sede di ricorso, e che deve coprire tutti gli aspetti rilevanti per la valutazione del caso, così come impone il principio della piena cognizione della causa devoluta.

4. La tratta come violenza contro un genere sessuale

Una delle questioni su cui il Tribunale di Roma si è trovato a decidere con maggiore frequenza è quella delle donne richiedenti asilo, provenienti in particolare dalla Nigeria, e potenziali vittime di tratta. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni, nel solo 2016 sono state 11009 le donne nigeriane sbarcate in Italia, delle quali 8277 probabilmente trafficate[35]. La problematica della tratta è certamente complessa e interseca diversi strumenti normativi (cfr., Giammarinaro, in questa Rivista), sia di carattere penale sia in relazione alla protezione internazionale, le cui finalità primarie, di repressione delle reti criminali nel primo caso e di protezione contro i rischi connessi al rimpatrio nel secondo, non sempre sono congruenti. In questa breve rassegna, l’intento non è di discutere della tratta in chiave complessiva, ma solo di evidenziare alcune problematiche connesse alla sua rilevanza per la protezione internazionale. Già le linee guida Unhcr del 2002, indicano, infatti, la tratta a scopo di sfruttamento sessuale come possibile forma di violenza specificamente diretta contro un genere sessuale. Posizione poi ribadita e dettagliatamente illustrata nelle linee guida del 2006, dedicate nello specifico al fenomeno della tratta e al suo inquadramento rispetto ai presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato[36]. Il numero dei casi di cui si è esaminata la documentazione, che comprende i verbali di udienza e i provvedimenti decisori inerenti 70 donne nigeriane udite dalla Commissione territoriale tra il 2013 e il 2017, nonché 31 decisioni del Tribunale di Roma, nei casi in cui il provvedimento della Commissione è stato impugnato dalla parte, seppure non si possa considerare un campione quantitativo rilevante quando è paragonato alla mole di contenzioso che occupa la giurisprudenza di merito, consente tuttavia di tracciare alcune linee di tendenza sviluppate dal foro giudicante romano.

Nelle decisioni più risalenti, infatti, il Tribunale ha riconosciuto la protezione sussidiaria a donne provenienti dalla Nigeria ai sensi dell’art. 14, comma 1, lettera c), del d.lgs 251/2007, per il rischio di un danno grave in caso di rimpatrio «derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale», ovvero per la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile in cui possono incorrere indifferentemente uomini e donne (per esempio, Trib. Roma, sez. I civ., del 31/01/2014, est. Got De Luca; Trib. Rm, sez. I civ, del 30/09/2015 est. Velletti). A partire dal 2016, alcuni giudici, pur confermando l’orientamento ora richiamato, hanno iniziato a menzionare nella motivazione la larga diffusione del nel Paese di forme di violenza specificamente rivolte contro le donne, quali, per esempio, il reclutamento ai fini dell’avviamento alla prostituzione o la carenza di protezione contro la violenza sessuale. Nell’ordinanza del Trib. Roma, sez. I civ., del 16/02/2016, est. Got Minotti, per esempio, dopo aver esposto dettagliatamente le situazioni di conflitto e le diffuse violazioni di cui riferiscono rapporti di accreditate organizzazioni umanitarie, la motivazione afferma che le informazioni acquisite «inducono a ritenere che il paese di origine del richiedente viva situazioni di ordine generale che si traducono necessariamente in potenziali gravi rischi all’incolumità dei cittadini o nella endemica esposizione delle donne a comportamenti gravemente degradanti e violenti». Di tenore analogo è la decisione del Trib. Roma, sez. I civ., del .31/03/2017, est Got Ferrari, che si segnala, peraltro, per un passaggio in cui la motivazione specifica che non è stato possibile identificare e sentire la ricorrente perché rimpatriata prima dell’udienza «nonostante la sospensione del provvedimento [della Commissione territoriale], disposta con decreto il 17/09/2015»[37]. Nel caso in esame, il giudice ha ritenuto di poter valutare comunque la situazione della ricorrente alla luce della documentazione acquisita e di riconoscere la protezione sussidiaria «per il rischio correlato a forme di violenza indiscriminata ed al rischio di comportamenti inumani e degradanti».

Tale ultima decisione è utile a introdurre alcune osservazioni in merito all’effettività del diritto di difesa e all’accesso alla giustizia delle donne richiedenti asilo. Nel caso di un’altra donna rimpatriata nelle medesime circostante, seppur il giudice avesse in una precedente udienza sospeso il provvedimento impugnato, in sede di decisione sul ricorso ha ritenuto il rimpatrio ostativo alla possibilità di dare seguito alle misure di protezione richieste (Trib. Roma, sez. I civ., del 23/05/2016, est. Gatta). I motivi della decisione, affermano che «la circostanza che la ricorrente sia stata rimpatriata non ha consentito di dar seguito all’identificazione ed alla audizione richiesta in via istruttoria, essendo stata preclusa al giudicante la verifica delle motivazioni addotte a sostegno del suo allontanamento dal Paese di provenienza e la cui credibilità è stata inficiata dalla valutazione di genericità ed indeterminatezza della vicenda personale formulata dalla Commissione territoriale». Sulla stessa linea si è era già pronunciato con una stringata ordinanza il Trib. Roma, sez. I civ, del 18/12/2015, est. Vitalone, in relazione al caso di una donna rimpatriata nell’ottobre 2015 dopo che il giudice aveva rigettato l’istanza di sospensione del provvedimento impugnato. Il fatto che tali decisioni non entrino in una valutazione del merito delle questioni sollevate in sede di ricorso, né diano conto di una attività istruttoria sulla situazione del Paese di provenienza, desta non poche perplessità. Non è infatti pensabile che il rimpatrio giustifichi una cognizione limitata della causa: a una tale interpretazione ostano le stesse norme che prevedono eccezioni alla sospensione automatica del provvedimento impugnato, le quali presuppongono che il diritto di difesa sia comunque garantito anche in caso di rimpatrio. Se così non fosse, l’intero impianto delle impugnazioni, per come è congegnato, risulterebbe, infatti, palesemente incostituzionale perché lesivo del diritto di difesa e di quello a un rimedio effettivo. Richiamare la circostanza del rimpatrio quale elemento determinante della decisione di rigetto appare, poi, illogico rispetto alla natura del riconoscimento della protezione che, come affermano giurisprudenza e dottrina costanti, è dichiarativa e non costitutiva dello status riconosciuto[38].

L’osservazione che il riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria abbia natura dichiarativa e non costitutiva appare rilevante anche in riferimento a una prassi che si è diffusa tra le Commissioni territoriali in relazione al sistema di cosiddetto “referral” per l’individuazione di potenziali vittime di tratta e il loro avviamento al programma di emersione. In una serie di decisioni relative ad audizioni tenutesi presso il Cie di Ponte Galeria (oggi Cpr), per esempio, la Commissione territoriale di Roma ha indicato tra i motivi che hanno portato alla concessione della protezione umanitaria il consenso delle donne ad aderire a un percorso di integrazione e sostegno affiancate da organizzazioni specializzate nell’emersione del fenomeno della tratta (per esempio, seduta del 20/08/2015 sospesa per accertamenti e ripresa l’11/09/2015, seduta del 20/10/2015, seduta dell’11/02/2016 sospesa per accertamenti e ripresa il 26/04/2016). Da un confronto tra i provvedimenti di rigetto di ogni forma di protezione e quelli di parziale accoglimento, l’elemento del consenso appare decisivo ai fini del riconoscimento della protezione da parte della Commissione[39]. Tali decisioni sollevano almeno due ordini di questioni. In primo luogo, non è chiaro per quale ragione, a fronte del riscontro di indici che depongono per la circostanza che la richiedente asilo sia stata oggetto di un reclutamento ai fini dello sfruttamento sessuale, la Commissione decida per la protezione umanitaria. Pur in assenza della prova di una persecuzione personale che potrebbe fondare lo status di rifugiata, a fronte del rischio, in caso di rimpatrio, di subire nuovamente trattamenti inumani e degradanti come quelli legati alla tratta, potrebbe, infatti, apparire congruo il riconoscimento della protezione sussidiaria. Una seconda questione riguarda, invece, il fatto che se il riconoscimento della protezione è un atto meramente dichiarativo esso non può essere condizionato all’adesione personale a un programma di emersione, la cui ratio risponde a finalità diverse da quelle della protezione internazionale.

Tale prassi non si registra solo presso la Commissione territoriale di Roma. Alcuni provvedimenti di rigetto della Commissione di Torino riportano in calce alla decisione la seguente dicitura: «Si rileva che qualora la richiedente asilo presenti nuova istanza di protezione internazionale alla luce dei suindicati evidenti indicatori di potenziale vittima di tratta degli esseri umani, seppure non confermati dalla richiedente asilo, l’autorità competente ai sensi degli obblighi discendenti dalla normativa vigente in materia di protezione delle vittime di tratta e di protezione internazionale riesaminerà l’istanza di protezione internazionale che la richiedente dovesse presentare» (seduta del 5/07/2017, nello stesso senso seduta del 22/08/2017). In presenza degli indicatori di una situazione di tratta di esseri umani, e dunque di una evidente condizione di vulnerabilità delle richiedenti asilo che sono probabilmente soggette al controllo di reti criminali, simili decisioni non sono del tutto comprensibili. Esse espongono infatti le richiedenti asilo al rischio di rimpatrio, o comunque le costringono a una condizione di irregolarità che non favorisce certo percorsi di emersione. Più che alla tutela delle situazioni giuridiche, l’intento di questi provvedimenti appare rivolto a condizionare la scelta delle donne se aderire o meno a un programma di protezione specifico per le vittime di tratta.

Come si è già accennato, alcune decisioni del Tribunale di Roma, in casi analoghi, hanno optato per un orientamento diverso, certamente più rispondente alla natura dei beni giuridici tutelati dalla protezione internazionale. Nell’ordinanza del Trib. Roma, sez. I civ., del 07/02/2017, est. Ciavattone, per esempio, la motivazione richiama espressamente la «naturale reticenza che accompagna il racconto [del] coinvolgimento della ragazza nella tratta della prostituzione». Ciò nonostante il giudice, seppure in modo succinto, riporta gli elementi essenziali del racconto da cui si deducono gli indici della tratta, e conclude osservando che la condizione della ricorrente «rende più che verosimile il pericolo, in caso di suo rientro in patria, di cadere ancora vittima di tratta, atteso il particolare sviluppo della prostituzione proprio nell’Edo State e tenuto conto, comunque, della condizione femminile nel Paese di provenienza, notoriamente priva della necessaria tutela per le specificità di genere, e dei conseguenti trattamenti degradanti la dignità della sua persona». L’ordinanza ha pertanto riconosciuto alla donna la protezione sussidiaria ai sensi dell’art. 14, lettera b), del d.lgs 251/2007 (in senso analogo, Trib. Roma, sez. XVIII civ., del 04/05/2018, rel. Salvio, rg 57662/2017. .

In una recente decisione del Trib. Roma, sez. XVIII civ., del 03/05/2018, rel Albano rg. 67145/2017,il collegio giudicante ha invece riconosciuto lo status di rifugiata a una donna proveniente da Benin City, che aveva dichiarato di essersi trasferita in Italia, a Torino, dove aveva iniziato a prostituirsi per aiutare economicamente i fratelli in patria. Racconto che non era stato considerato credibile dalla Commissione territoriale di Roma e che, in sede processuale, è stato confermato dalla relazione di una organizzazione in supporto alle vittime di tratta. Sulla base di tali elementi, il Tribunale ha stabilito che «Non vi è dubbio, pertanto che l’odierna ricorrente sia stata vittima di una persecuzione personale e diretta per l’appartenenza a un gruppo sociale (ovvero in quanto donna), nella forma di “atti specificamente diretti contro un genere sessuale” (art, 7, comma secondo, lettera f, d.lgs 251/2007) e che la sua vicenda personale narrata le dia diritto allo status di rifugiato poiché vittima di tratta». La motivazione precisa, poi, che ai sensi della legge e della giurisprudenza di legittimità responsabili della persecuzione possono essere anche “soggetti non statuali” se le autorità statali non possono o non vogliono fornire protezione: «Sebbene, infatti, il quadro normativo nigeriano preveda forme di tutela a favore delle vittime di tratta, tali misure, considerata anche l’estensione e l’incidenza del fenomeno nel Paese, non possono essere assicurate con certezza ed efficacia tali da scongiurare il fenomeno rappresentato, ed il rischio ad esso connesso, stante anche la generalizzata corruzione delle forze di polizia nel Paese». Il decreto riconduce, dunque, esplicitamente la tratta agli atti di violenza specificamente rivolti contro un genere sessuale, i quali, anche ai sensi della Convenzione di Istanbul, devono essere presi in debita considerazione quali presupposti della protezione internazionale, così come peraltro recentemente ribadito dalla Cassazione.

5. Il diritto d’asilo alle donne è una battaglia che riguarda tutti

L’affermazione che i diritti delle donne sono diritti umani, pur se resa celebre da Hillary Clinton, va in origine attribuita alle suffragiste Sarah e Angelina Grimké, attiviste del Movimento per i diritti delle donne e per l’abolizione della schiavitù. Si tratta di un’origine che vale la pena ricordare proprio per l’alleanza che storicamente ha visto fianco a fianco i movimenti di lotta per i diritti delle donne a quelli contro le diverse forme di oppressione[40]. Un’alleanza che, oggi, trova nel diritto d’asilo un banco di prova centrale per l’affermazione dei diritti e della giustizia dentro e fuori i confini dell’Europa. Le obiezioni che vedono contrapporsi, sul piano teorico, universalismo dei diritti e riconoscimento delle differenze non possono che trovare conciliazione nella storicità di battaglie concrete, ed è sul piano delle rivendicazioni concrete che la tensione tra la postura critica del femminismo giuridico, da un lato, e il diritto come terreno di avanzamento della condizione delle donne, dall’altro, si trasforma da nodo teorico a motore del cambiamento. La sfida per l’accesso delle donne alla protezione internazionale va dunque ben al di là dei diritti di una parte, e non può accontentarsi di una valutazione che guarda al mero riconoscimento formale dei diritti perché essa investe l’impianto stesso del diritto dei rifugiati e della cultura giuridica che attorno a questo si è formata.

La rassegna di questioni presentata in queste pagine non ha alcuna pretesa di esaustività. Alcune sono da tempo al centro dei dibattiti sul diritto dei rifugiati in una prospettiva di genere, come quella sulla natura non necessariamente statuale degli agenti persecutori, quella del riconoscimento della violenza privata diretta contro un genere sessuale come forma di persecuzione, e della presunzione che, in determinate circostanze, la persecuzione sia rivolta contro le donne in quanto gruppo sociale. Questioni che, nonostante siano in parte risolte dal diritto positivo, non è raro trovare, più o meno sottotraccia, nelle motivazioni dei provvedimenti amministrativi o della giurisprudenza di merito come elementi che depongono a sfavore del riconoscimento della protezione[41]. Un'altra serie di questioni riguarda certamente la credibilità e la prova richiesta nei casi in cui la domanda è fondata sul pericolo connesso all’orientamento sessuale. È rilevante il dato che la casistica decisa favorevolmente dalla giurisprudenza di merito, o giunta all’attenzione di quella di legittimità, riguardi quasi sempre domande di protezione presentate da uomini[42]. La giurisprudenza europea ha posto dei paletti alla possibilità di richiedere documentazione lesiva per la dignità degli interessati[43], ma, a fronte di una prassi poco propensa a concedere il beneficio del dubbio alla credibilità delle donne richiedenti, non risulta semplice fornire elementi probatori a sostegno delle proprie narrazioni.

Altre problematiche, seppure possono apparire tecniche, come il contenuto dell’obbligo di informazione, il diritto di difesa e quello a un rimedio effettivo, sono tagliate trasversalmente dal tema più generale delle possibilità concrete di accesso alla giustizia di soggetti in condizione di vulnerabilità come quella determinata dalla richiesta di asilo. L’accesso alla giustizia è una variabile profondamente dipendente dalle condizioni sociali e dal connesso capitale culturale, oltre che economico, di coloro che lo rivendicano. Se ci sono voluti oltre cinquant’anni dalla Convenzione di Ginevra perché il genere cominciasse a fare capolino nella determinazione delle domande di protezione, non è affatto scontato che le donne che chiedono asilo siano messe nella condizione di essere pienamente consapevoli della possibilità di rivendicare i propri diritti. E in questo quadro, non può certo passare in secondo piano la considerazione che sono proprio gli spazi di tutela dei diritti, a partire da quelli processuali, a venire ridotti dalle scelte politiche in materia di asilo. Così come storicamente le battaglie per i diritti delle donne si sono alleate con le diverse forme di oppressione, oggi le donne che chiedono asilo pongono una rivendicazione di giustizia che riguarda tutti: ognuna delle questioni sollevate allarga, infatti, spazi di rivendicazione per ogni richiedente asilo, donna o uomo che sia, mostrando come il genere sia una prospettiva tutt’altro che parziale.

[1] Per un’introduzione, si vedano, L. Re, Femminismi e diritto, un rapporto controverso, in M.G. Bernardini, O. Giolo, a cura, in Le teorie critiche del diritto, Pacini 2017; O. Giolo, Il giusfemminismo e le sfide del neoliberalismo. A proposito di soggetti, libertà e diritti, in M.G. Bernardini, O. Giolo, a cura, in Le teorie critiche, cit.

[2] Cfr. H. Charlesworth, C. Chinkin e Shelley Wright, Feminist Approaches to International Law, in American Journal of International Law, 85, 1991, pp. 613-645; H. Charlesworth, Talking to Ourselves? Feminist Scholarship in International Law', in S. Kouvo & Z. Pearson, a cura, Feminist Perspectives on Contemporary International Law, Hart Publishing, Oxford, 2011.

[3] Cfr. D. Anker, Refugee Law, Gender, and the Human Rights Paradigm, in Harvard Human Rights Journal, 15, 2002, pp. 133-154.

[4] Per una panoramica delle principali questioni, si vedano, J.C. Hathaway, J.C., The Rights of Refugees under International Law, Cambridge University Press, Cambridge, 2005; G. S. Goodwin-Gill e J. McAdam, The Refugee in Iternational Law,Oxford University Press, Oxford, 2007.

[5] Cfr. D. Anker, Refugee Law, cit.; B. S. Chimni, The Birth of a Discipline: From Refugee to Forced igration Studies, in Refugges Studies, 22, 2009, pp. 11-29.

[6] Per una discussione, si consenta il rimando a E. Rigo, Donne attraverso il Mediterraneo. Una prospettiva di genere sulla protezione internazionale, in notizie di Politeia, 124, 2016, pp.82-94.

[7] P. Tuitt, False Images. Law’s Construction of the Refugee, Pluto Press, London, 1996. Sull’asservimento dell’asilo alla causa nazionale, si veda anche il fondamentale lavoro G. Noiriel, La Tyrannie du national. Le droit d'asile en Europe (1793-1993), Calmann-Lévy, Paris, 1991.

[8] Sulla crisi del diritto d’asilo al cospetto degli Stati nazioni, il rimando è necessariamente a H. Arendt, The Origin of Totalitarianism, 1951, trad. it. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1989.

[9] E. Arbel, C. Douveregne e J Millbank, Introduction, in E. Arbel, C. Douveregne e J. Millbank, a cura, Gender in Refugee Law. From the margins to the centre, Routledge, London, 2014.

[10] I dati aggiornati sono pubblicati alla pagina www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it/documentazione/statistica/i-numeri-dellasilo, ultimo accesso 30/04/2018.

[11] La proposta di inserire il sesso tra i presupposti elencati dall’art. 3 era stata portata ai lavori della Convenzione dalla Jugoslavia. Sui lavori preparatori, si veda, P. Weis, The Refugee Convention, 1951. The Travaux Preparatoires Analysed with a Commentary by dr Paul Weis, 1991 www.unhcr.org/protection/travaux/4ca34be29/refugee-convention-1951-travaux-preparatoires-analysed-commentary-dr-paul.html, ultimo accesso 30/04/2018.

[12] Per un’introduzione al dibattito, si vedano N. Kelly, The Convention Refugee Definition and Gender-Based Persecution: A Decade' Progress, in International Journal of Refugee Law, 13, 2002, pp. 559-568; A. Edwards, Transitioning Gender: Feminist Engagement with International Refugee Law and Policy, in Refugee Srvey Quarterly, 29, 2010, pp. 21-45; J Freedman, Gendering the International Asylum and Refugee Debate, Palgrave, London, 2015.

[13] Tra i casi più noti, quello di una donna salvadoregna violentata da uno squadrone della morte al fine di intimidire i familiari attivisti politici; discusso in D. Anker, Refugee Law, cit.

[14] Per una ricostruzione dell’evoluzione della giurisprudenza, K. Musalo, A Short History of Gender Asylum in The United States: Resistance and Ambivalence May Very Slowly be Inching Towards Recognition of Women’s Claims, in Refugee Survey Quarterly, 29, 2010, pp. 46-63; D. Anker, Legal change from the botton up: the development of genfer asylum jurisprudence in the United States, in E. Arbel, C. Douveregne e J. Millbank, a cura, Gender in Refugee Law. From the margins to the centre, Routledge, London, 2014.

[15] Cfr. D. Anker, Refugee Law, cit.

[16] I motivi di persecuzione elencati dalla Convenzione di Ginevra del 1951 vengono indicati dalla letteratura giuridica anglo-statunitense anche come fattispecie o nessi causali.

[17] Unhcr, Linee guida sulla protezione internazionale n.1. La persecuzione di genere nel contesto dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati, 7 maggio 2002, HCR/GIP/02/01. Sulle consultazioni che hanno portato all’adozione delle linee guida, E. Feller, V. Turk e F. nicholson, a cura, Refugee Protection in International Law: Unhcr's Global Consultations on International Protection, Cambridge University Press, Cambridge 2003.

[18] Unhcr, Linee guida sulla protezione internazionale n.1. La persecuzione di genere, cit., p. 3. Una definizione di genere è contenuta anche nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata a Istanbul l’11 maggio 2011, che all’art. 3, lettera c, recita: «con il termine genere ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini».

[19] Unhcr, Linee guida sulla protezione internazionale n.1. La persecuzione di genere, cit., p. 9.

[20] Il riferimento è ripreso anche dalle linee guida sulla tratta di esseri umani; si veda Unhcr, Linee guida di protezione internazionale N.7. L’applicazione dell’art. 1A(2) della Convenzione del 1951e/o del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati alle vittime di tratta o alle persone a rischio tratta, HCR/GIP/06/07, del 7 aprile 2006.

[21] Unhcr, Linee guida in materia di protezione internazionale n.9: Domande di riconoscimento dello status di rifugiato fondate sull’orientamento sessuale e/o l’identità di genere nell’ambito dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del suo Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati, 23 ottobre 2012, HCR/GIP/12/09. Le linee guida del 2012 non sono sostitutive bensì complementare a quelle del 2002 sulla persecuzione di genere.

[22] Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta, 2011/95/Ue, del 13 dicembre 2011.

[23] Cfr. A. Edwards, Transitioning Gender, cit., p 25.

[24] Per un commento, si veda D. Genovese, Violenza di genere e protezione internazionale. Note a margine di un recente orientamento della Corte di cassazione, in questionegiustizia.it, 2018, accessibile a www.questionegiustizia.it/articolo/violenza-di-genere-e-protezione-internazionale-not_05-02-2018.php, ultimo accesso 30/04/2018.

[25] In precedenti pronunce, dove erano emerse questioni relative al genere, la Corte aveva censurato il provvedimento impugnato per vizio istruttorio e rinviato al giudice a quo; si vedano, Cass. civ., sez. VI, del 09/07/2013, n. 25873; Cass. civ., sez. VI, del 24/09/2012, n. 16221. Seppure non direttamente inerente a una domanda relativa a violenza di genere, per la rilevanza del principio espresso, si veda anche Cass. civ., sez. VI, del 10/04/2015, n. 7333.

[26] Per un commento, D. Genovese, Violenza di genere e protezione internazionale, cit.

[27] Cfr. M. Foster, International Refugee Law and Socio-Economic Rights. Refugee from Deprivation, Cambridge University Press, Cambridge 2007.

[28] Cfr. E. Arbel, C. Douveregne e J Millbank, Introduction, cit.

[29] Cfr. M. Cappelletti, B Garth, Access to Justice and Walfare State. An Introduction, in M. Cappelletti, a cura, Access to Justice. Vol. 4, European University Institute, Firenze, 1981

[30] Cfr. E. Rigo, Spazi di trattenimento e spazi di giurisdizione. Note a margine di materiali di ricerca sulla detenzione amministrativa dei migranti, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2, 2017, pp. 475-494.

[31] La Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza, da me coordinata, è attiva dal 2010 presso il Dipartimento di giurisprudenza di Roma Tre e coniuga attività di didattica e ricerca. Le osservazioni qui presentate si basano sull’analisi della documentazione, raccolta dalla Clinica, relativa a 70 casi di donne richiedenti asilo. La ricerca è a oggi ancora in corso.

[32] K. Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A black Feminist Critique of Antidiscrimination Docrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, in University of Chicago Legal Forum, 1, 1989, pp. 139-167.

[33] Si vedano, per esempio, E. Pittaway e E. Pittaway, ‘Refugee woman’: a dangerous label. Opening a discussion on the role of identity and intersectional oppression in the failure of the international refugee protection regime for refugee women, in Australian Journal of Human Rights, 10, 2004, pp. 119-135; M. Verveliet, J. De Mol, E. Broekaert e I. Derluyn, ‘That I Live, that's Because of Her’: Intersectionality as Framework for Unaccompanied Refugee Mothers, in The British Journal of Social Work, 44, 2014, pp. 2023–2041.

[34] Questa la denominazione al tempo in vigore. Tali centro sono stati rinominati in Centri per il rimpatrio (CPR) dal dl 13/2017 conv. in l 46/2017.

[35] Si veda, Oim, Human Trafficking through the central Mediterranean route: data, stories and informations collected by the International Organization of Migration, www.italy.iom.int/sites/default/files/news-documents/IOMReport_Trafficking.pdf, ultimo accesso 30/04/2018.

[36] Unhcr, Linee guida di protezione internazionale n. 7, cit.

[37] Il rimpatrio a cui si riferisce l’ordinanza è menzionato anche nel rapporto del Consiglio d’Europa: Council of Europe Group of Expert on Acion against Trafficking in Human Beings; GRETA(2016)29, del 30 gennaio 2017, https://rm.coe.int/CoERMPublicCommonSearchServices/DisplayDCTMContent?documentId=09000016806edf35, ultimo accesso 30/04/2018.

[38] Cfr, in particolare, l’ordinanza Cass., sez. un. civ., n. 19393 del 09/09/2009, rel. Salmè, nella quale la Corte argomenta per l’identità della natura giuridica del diritto alla protezione umanitaria, del diritto d’asilo e dello status di rifugiato e ribadisce la natura dichiarativa dei provvedimenti giurisdizionali che li riconoscono.

[39] Sembra andare in questo senso anche l’ordinanza interlocutoria Trib. Fi., sez. IV civ., del 14/12/2017, est. Breggia; per un commento, si veda D. Genovese, La tutela delle vittime di tratta di fronte alla Sezione specializzata in materia di protezione internazionale di Firenze, 2018, in questionegiustizia.it, accessibile a www.questionegiustizia.it/articolo/la-tutela-delle-vittime-di-tratta-di-fronte-alla-s_04-05-2018.php, ultimo accesso 05/05/2018.

[40] Per una ricostruzione, A. Davis, Women, Race & Class, 1981, trad. it, Donne razza e classe, Edizioni Alegre, Roma, 2018.

[41] Si vedano, per esempio, Trib. Rm, sez. I civ. del 05/06/2017 est. Savasta; Trib. Rm, sez. I civ. del 10/10/2017 est. Savasta.

[42] La casistica, giunta in Cassazione, sull’orientamento sessuale come fondamento della protezione internazionale conta ormai un certo numero di pronunce, quasi sempre concernenti uomini. In relazione a una donna, si segnala l’ordinanza Cass., sez. VI civ., del 04/08/2016, n. 16361, in cui il ricorso per lo status di rifugiata presentato da una donna nigeriana, che nel frattempo era stata ammessa alla protezione umanitaria, è stato respinto.

[43] Si veda, la recente pronuncia della Corte di giustizia nella causa C‑473/16, sentenza del 25/01/2018.