Magistratura democratica

Editoriale

di Renato Rordorf

I due temi ai quali è dedicato questo numero trimestrale di Questione Giustizia – la disabilità ed il regime carcerario – potrebbero a prima vista apparire del tutto disomogenei, ed in certa misura innegabilmente lo sono. Credo tuttavia che, soprattutto se considerati nell’ottica del diritto, essi siano legati da un nesso tutt’altro che insignificante: la necessità di assicurare la tutela di soggetti che, sia pure per ragioni assai diverse ed in termini tra loro non comparabili, vengono a trovarsi in situazioni di particolare fragilità e debbono quotidianamente confrontarsi con difficoltà materiali, morali e psicologiche assai maggiori di quelle cui sono esposti gli altri consociati.

È in situazioni di questo genere che dovrebbe soprattutto manifestarsi la funzione civilizzatrice del diritto, affinché possano «le umane belve esser pietose di se stesse e d’altrui». Perché, certo, il diritto può aver bisogno della forza, ma sempre al fine di meglio tutelare coloro che forza non hanno, rischiando altrimenti di essere mero strumento di potere. Il diritto, che si esprime nell’insieme delle regole da cui è disciplinato il vivere comune, dovrebbe perciò servire soprattutto ad assicurare maggior tutela ai componenti più fragili della società, che meno di altri hanno la possibilità di conseguire autonomamente il soddisfacimento dei propri bisogni e che rischiano altrimenti di essere emarginati.

Su un punto occorre però esser molto chiari, ed il richiamo alla pietà foscoliana non deve trarre in inganno: il dovere di dare supporto ai soggetti più fragili non va confuso con atteggiamenti compassionevoli, non si tratta di “buonismo”. Nella vita essere buoni (qualunque cosa ciò voglia dire) non è certo un difetto, e la pietas è da sempre una virtù morale dell’individuo, ma qui siamo anzitutto in presenza di un fondamentale dovere giuridico, che scaturisce direttamente dal principio di eguaglianza enunciato nell’articolo 3 della Costituzione. Sul tema delle diseguaglianze questa Rivista si è spesso soffermata in passato (l’obiettivo sulle disabilità esposto in questo numero è un’ideale continuazione, sotto questo profilo, di quello sulle nuove diseguaglianze che fu pubblicato sul numero 2 del 2017) ed è perciò appena il caso di sottolineare come la pari dignità di tutti i cittadini, quali che ne siano le condizioni personali, cui esplicitamente si riferisce il primo comma del citato articolo 3, resterebbe un enunciato meramente retorico se non se ne facesse discendere il dovere dello Stato, in tutte le sue articolazioni, di adoperarsi affinché la condizione di disabilità non leda la dignità di coloro che concretamente la vivono. E, del resto, il secondo comma del medesimo articolo è ancor più esplicito nel far carico alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che, anche solo di fatto, possono compromettere l’eguaglianza dei cittadini ed impedire il pieno sviluppo della persona: espressione, questa, che non lascia dubbi sul dovere – vero e proprio dovere giuridico – di fare quanto possibile affinché le persone affette da qualsivoglia forma di disabilità non vedano perciò compromesse la propria dignità e le proprie potenzialità di sviluppo.

Si obietta, talvolta, che la concreta attuazione di questi diritti ha costi elevati e che quindi occorre misurarla col metro della sostenibilità economica. Ma, se è vero che nessuna realizzazione sociale può mai del tutto prescindere dalla valutazione del costo che essa comporta, va ribadito con forza che la tutela della dignità, specialmente di quella dei soggetti più vulnerabili, per il valore che la Costituzione le assegna andrebbe collocata tra i primi nelle priorità di spesa.

L’attenzione a questi temi è frutto del maturare di una sensibilità, culturale e politica, che caratterizza, almeno in via di principio, il consesso delle società moderne le quali ambiscono a definirsi civili. Ed è anche su questo piano che si può misurare l’enorme distanza che separa la concezione di uno Stato democratico dalle aberrazioni eugenetiche che pur caratterizzarono alcuni regimi totalitari novecenteschi e che – per limitarsi ad un solo esempio – mai avrebbero consentito a Stephen Hawking di dare all’umanità il suo straordinario contributo scientifico. Tuttavia il mondo giuridico italiano appare ancora poco attento alle conseguenze che ne derivano o ne dovrebbero derivare, tanto sul piano della legislazione quanto su quello della effettiva attuazione della normativa esistente. Occorre dunque adoperarsi per stimolare in proposito un maggiore interesse.

 

Pure quando si parla del trattamento carcerario bisognerebbe sempre avere ben presente che si ha a che fare con persone rese fragili dalla stessa condizione in cui si trovano; e di questa loro condizione occorrerebbe tenere sempre conto, indipendentemente dal fatto che il trovarcisi possa esser dipeso da cause a loro medesimi imputabili.

Anche dell’Ordinamento penitenziario questa Rivista si è già ampiamente occupata (dedicando al tema un numero monografico: numero 2 del 2015) e le pagine sulla (sostanzialmente mancata) riforma carceraria che vengono ora pubblicate sono di nuovo un’ideale continuazione di quei precedenti scritti. Qui però vorrei sottolineare non tanto la pure indiscutibile necessità di rendere il trattamento carcerario coerente con la finalità rieducativa della pena enunciata dall’articolo 27, comma 2, della Costituzione, esplicito nel pretendere che la pena non sia contraria al senso di umanità, quanto, per l’appunto, la situazione umana e sociale di debolezza che inevitabilmente si accompagna alla detenzione: per il fatto stesso di privare il detenuto della sua libertà personale e di renderlo costantemente soggetto al controllo (ma sarei tentato di dire: al predominio) altrui. Il detenuto è, per ciò stesso, anch’egli un soggetto debole, che proprio per questo avrebbe più degli altri bisogno di tutela giuridica, ed invece la comunità dei giuristi in genere assai poco se ne occupa. Vi sono – è giusto sottolinearlo – delle encomiabili eccezioni, dovute non solo all’impegno professionale di molti giudici di sorveglianza ma anche, da ultimo, all’iniziativa della Corte costituzionale che ha programmato e sta attuando una serie di incontri con la popolazione carceraria, così manifestando una non comune sensibilità per questi temi ed un modo d’interpretare il proprio ruolo ben lontano dal tradizionale modello paludato e formale. Ma, per il resto, i giuristi mostrano poco interesse per la drammatica realtà delle nostre carceri, accorgendosene magari solo quando una sentenza di condanna della Corte europea di Strasburgo li mette improvvisamente in allarme; ed anche in seno alla magistratura – occorre ammetterlo – l’attenzione a questo settore dell’Ordinamento è minima e l’opera delicata, difficile e fondamentale dei giudici di sorveglianza è tenuta in assai minore considerazione di quanto meriterebbe.

Le difficoltà di ordine politico che hanno accompagnato il recente, sfortunato tentativo di riforma dell’Ordinamento carcerario, assai bene evidenziate in alcuni scritti dell’obiettivo ospitato in questo numero, dimostrano quanto poco sia ancora comunemente avvertita la necessità di assicurare davvero pienamente alle persone coinvolte nell’universo carcerario quel surplus di tutela che la loro condizione imporrebbe.

Anche per questo – per cercare di accrescere la sensibilità del mondo giuridico intorno a tale argomento – credo che fosse necessario occuparsene.

Novembre 2018