Magistratura democratica

Clausole generali e prevedibilità delle norme penali

di Donato Castronuovo

L’Autore propone alcune variazioni sul tema della crisi della fattispecie penale, sia sul piano del formante legale sia su quello del formante giurisprudenziale, in relazione, rispettivamente, a clausole generali recate da disposizioni di legge oppure a clausole contenute in regulae iuris di origine giudiziale. Gli effetti prodotti dalle clausole generali sulla accessibilità e prevedibilità delle norme penali sono esaminati, attraverso due esempi, in funzione dell’evoluzione della giurisprudenza sovranazionale e di quella della Corte costituzionale.

1. La crisi del nullum crimen

In criminalibus, la crisi o la tendenziale dissoluzione del Tatbestand non ha, e non può avere, nulla di marginale: rappresenta, in definitiva, semplicemente la crisi dello stesso diritto penale nei suoi fondamenti garantistici. Il nullum crimen, come compendio delle istanze garantistiche di ascendenza illuministica, ne esce trasformato se non tradito, eroso e forse ridotto a poca cosa[1]. Si parla, a seconda degli accenti, in un crescendo di pessimismo, di relativizzazione, indebolimento, flessibilizzazione, deformazione, trasformazione, crisi, erosione, tradimento, dissoluzione, tramonto, eclissi della fattispecie e del principio, anzi dei principi compendiabili nel nullum crimen, nulla poena: dalla legalità in tutte le sue articolazioni alla prevedibilità, alla colpevolezza.

Il principio di legalità penale, come nucleo essenziale del nullum crimen, ha subito delle macro-trasformazioni, elencabili in un lungo cahier de doléances:

  • la realtà del principio della separazione dei poteri nelle democrazie contemporanee;
  • la crisi della rappresentatività parlamentare[2];
  • le sempre più preoccupanti manifestazioni del cd. populismo penale;
  • l’inarrestabile processo di decodificazione[3];
  • l’esplosione delle fonti e la loro propensione multilivello (direi l’esplosione dei formanti, per riprendere la teoria di Sacco):
    • quindi, per un verso, la comparsa sulla scena penalistica della giurisprudenza-fonte e quindi del giudice-creatore-di-diritto-penale[4];
    • per altro verso, la legalità penale sovranazionale (e l’impatto del diritto dell’Ue e della Convenzione Edu sulla conformazione del diritto penale nazionale[5]);
    • infine, l’irrompere sulla scena penalistica di fonti “private” di produzione normativa: protocolli cautelari e modelli organizzativi, delegati a fonti private e rientranti poi nella individuazione di obblighi penalmente sanzionati in specifici contesti di rischio (medico, imprenditoriale-societario, ambientale…), in cui lo Stato abdica sempre più spesso alla sua funzione di formulazione della norma, per rimetterla ad “agenzie delocalizzate” di valutazione e regolazione del rischio (protocolli, modelli, regole tecniche, BAT)[6].

Insomma: un contesto, quello del diritto penale contemporaneo, dove anche identificare il legislatore (il potere legislativo, la fonte di produzione normativa) con il Parlamento è sempre più frutto di breviloquenze che si approssimano alla finzione: una favola bella, che ieri ci illuse, che oggi ci illude (sempre meno, per la verità); neppure buona, ormai, per essere raccontata ai nostri studenti. Occorrerebbe (anche e soprattutto) da questo punto di vista, davvero riscrivere i manuali...

2. Le clausole generali quali cause endogene della crisi del nullum crimen. Determinatezza e prevedibilità

Tutto quanto fin qui solo evocato a proposito della crisi del concetto di legalità e più in generale del nullum crimen, ha precise ricadute sulla crisi della fattispecie, che è dovuta sia a “cause esogene” che “endogene”[7].

Sono cause esogene tutte quelle ragioni per le quali oramai si ritiene, in maniera più o meno rassegnata, che il diritto penale sia un coro a più voci, solo una delle quali, “e non sempre la più intonata”, è la voce del cd. legislatore[8].

Le clausole generali, dal canto loro, sono uno strumento tecnico della legislazione capace di incidere, dall’interno, quale fattore endogeno tra gli altri, sulla potenziale dissoluzione del Tatbestand. Prescindendo da ogni tentativo di darne qui una definizione più precisa, le clausole generali sono fattori di vaghezza, inseriti all’interno della disposizione, che richiedono la mediazione dell’interprete per il recupero della norma (quindi, per la ricostruzione ermeneutica della fattispecie).

Come noto, lo sguardo del legislatore e, quindi, della fattispecie è prospettico, corrisponde a una previsione circa il futuro; lo sguardo del giudice è retrospettivo, consiste in una decisione su un fatto del passato (operata mediante la verifica della sussumibilità o meno nella fattispecie astratta). Il raffronto tra fatto (del caso concreto) e schema legale astratto (quale micro-narrazione preconizzante) è il nucleo della decisione, e dovrebbe assicurare la calcolabilità della stessa[9].

Calcolabilità e prevedibilità della norma penale possono riuscire, tuttavia, grandemente attenuate in presenza di clausole generali. Queste trasformano lo schema legale astratto in una micro-narrazione parzialmente monca, poiché rinuncia in misura significativa a preconizzare il fatto, facendo ricorso al giudice per tratteggiare elementi talora decisivi delle sembianze della fattispecie. Con tutte le conseguenze del caso sulla stessa decifrabilità ex ante della fattispecie da parte del cittadino-destinatario, con dispersione della forza motivante della norma e diminuzione del tasso di prevedibilità delle conseguenze della violazione.

È Claudio Luzzati – un non penalista, quindi – a notare, in maniera perfino disarmante per il penalista, come sia “curioso” il fatto che gli standard (o clausole generali) esistano anche in un settore come quello penale in cui l’analogia è vietata e l’interpretazione dovrebbe essere la più stretta[10]. Rilievo tanto disarmante quanto incontestabile.

Le antinomie tra formule normative vaghe e principio di legalità – assieme alle altre articolazioni del nullum crimen, nulla poena, fino alla colpevolezza e alla prevedibilità – spiegano, dunque, le peculiarità che il tema assume sul terreno del diritto penale.

Va registrata, da un lato, la tendenziale perdita di “selettività” – quale contrassegno funzionale del Tatbestand – che la presenza di clausole generali è in grado di provocare sulla fattispecie penale; nonché, dall’altro, gli effetti negativi di tali formule vaghe sulla decifrabilità/calcolabilità/prevedibilità ex ante e quindi sullo stesso principio di colpevolezza.

Quale che sia la maniera di argomentare, secondo un lessico più o meno classico, quindi intendendo il nullum crimen su basi costituzionali interne oppure come nozione integrata su basi euro-convenzionali, si tratta pur sempre della chiarezza del messaggio normativo e della sua accessibilità/decifrabilità da parte del destinatario.

Su questo flusso comunicativo – addirittura fondante sul piano della giustificazione stessa dello ius puniendi fondato sull’idea preventiva – possono incidere, in senso distorsivo o interruttivo, norme penali incentrate su elementi vaghi e indeterminati come le clausole generali.

3. Tipi di clausole generali: frammenti di disposizioni o regulae iuris giudiziali

Non posso qui attardarmi sui problemi definitori né, tantomeno, dilungarmi sul lungo ed eterogeneo catalogo di clausole generali censibili in diritto penale e, neppure, sulla possibilità di sistemarle in gruppi tipologici omogenei, secondo una tassonomia quadripartita che propongo in un più ampio studio in corso di pubblicazione (clausole metagiuridiche; intragiuridiche da rinvio; analogiche; macro-clausole di incriminazione suppletiva)[11].

Vorrei solo ricordare come, oramai, oltre alle clausole contenute in testi di legge, siamo sempre più spesso confrontati a clausole giudiziali: ovverosia, a “regole giudiziali vaghe”, di grande rilievo specialmente allorquando queste abbiano la forza – a seconda degli ordinamenti, vincolante o no – di precedent, di massima, di regula iuris formulati da una corte suprema interna o da una corte sovranazionale: da noi, una prospettiva ancora poco indagata sul versante penale, per lo meno in termini di determinatezza/prevedibilità[12].

Tale situazione, in presenza di regole giudiziali irrimediabilmente vaghe, rappresenta un fattore di crisi dello stesso formante giurisprudenziale[13].

4. I custodi del nullum crimen a Roma e a Strasburgo

Al di là delle differenze morfologiche, le varie tipologie di clausole presentano problemi comuni in ordine ai potenziali effetti distonici sul principio di determinatezza e, quindi, di colpevolezza e prevedibilità. Problemi che, in diritto penale, interpellano il custode interno dei principi di garanzia; ma anche, in maniera sempre crescente, il custode sovranazionale dei diritti umani.

Vediamo allora le prestazioni del nullum crimen nella giurisprudenza delle due Corti, cominciando dalla Consulta e soffermandoci, in particolare, sugli orientamenti riguardanti norme penali che contengano clausole generali.

4.1. La Corte costituzionale alle prese con le clausole generali

La giurisprudenza consolidata della nostra Corte costituzionale in materia di espressioni vaghe o concetti elastici o di clausole generali è attestata su posizioni prevalentemente “salvifiche” per la norma sospettata di illegittimità in relazione al principio di determinatezza. Come noto, rarissimi sono i casi di declaratoria di incostituzionalità per indeterminatezza di una fattispecie o di una norma penale. Ne risulta, perciò, una nozione “debole” di determinatezza.

Fanno eccezione, come vedremo (infra, § 5.1), le recenti prese di posizione nella “saga Taricco”, in cui la Corte romana, in presenza di una clausola generale contenuta in una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, fa ricorso (o minaccia di far ricorso) in maniera più o meno esplicita al contro-limite del principio di determinatezza in un’accezione “forte” e, per vero, sconosciuta alla sua giurisprudenza in relazione a clausole interne, cioè contenute in leggi nazionali.

Torniamo alla regola sin qui praticata. Questa consolidata nozione debole della determinatezza (riferibile a “clausole nazionali”) si fonda su tre argomenti, ricostruibili come altrettanti criteri interpretativi delle disposizioni contenenti clausole generali: il criterio sistematico, il criterio finalistico e il criterio del “diritto vivente”.

In via riassuntiva, con il criterio sistematico la Corte afferma la necessità di una ricostruzione interpretativa “sistemica” e in un certo senso “olistica”: l’elemento vago o elastico è da leggersi alla luce degli altri elementi costitutivi della fattispecie e, più in generale, della complessiva disciplina di riferimento[14].

Il secondo criterio, quello finalistico o della ratio legis, si muove sul piano teleologico, imponendo di tener conto delle finalità perseguite dall’incriminazione, ancora una volta alla luce del contesto normativo in cui la stessa si inserisce.

Il terzo criterio, infine, fa leva sul test del diritto vivente: con il quale si finisce per “storicizzare” l’esegesi della disposizione “elastica”, mediante una verifica dei significati alla stessa attribuiti nella giurisprudenza consolidata, alla luce dei casi in essa sussunti in sede applicativa[15]. Un criterio, quest’ultimo, che si affaccia esplicitamente in alcune sentenze, ma che, sottotraccia, è spesso presente come argomento implicito.

Il riferimento della Corte costituzionale al “diritto vivente” sembra assimilabile per certi versi – lo si vedrà a momenti – a quel che accade nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, dove notoriamente, anche per ragioni di eterogeneità dei sistemi giuridici dei Paesi membri del Consiglio d’Europa, la nozione di “law” (ai fini della foreseeability of criminal law) è intesa nel senso più ampio, a comprendere tanto lo statutory law quanto il case-law.

Il diritto vivente consente una considerazione complessiva e integrata dell’ordinamento, al completo dei formanti legale e giurisprudenziale, spendibile, secondo la nostra Corte, quando si possa ritenere che «la giurisprudenza (…) [abbia oramai] conferito all’espressione contestata un significato univoco»[16]. In questo caso, «i dubbi di costituzionalità sollevati sotto il profilo della violazione del principio di legalità non hanno più ragione di essere, ove si tenga conto del risalente e oramai consolidato indirizzo della giurisprudenza costituzionale, seguito dalla giurisprudenza comune, per il quale gli estremi necessari per qualificare (…) la condotta incriminata risultano determinati con sufficiente precisione»[17].

Quello del “diritto vivente” è, di gran lunga, il criterio più interessante: da un lato, argomento sospeso tra buon senso e pragmatismo giuridico; dall’altro, potenziale leva per scardinare, mediante una verifica sulla prassi applicativa, la funzione garantistica del nullum crimen (inteso, nel senso più ampio, come compendio di esigenze che vanno dalla determinatezza alla riserva di legge, alla irretroattività, alla soggezione del giudice soltanto alla legge, alla prevedibilità).

Il riferimento al diritto vivente non può, infatti, essere utilizzato come argomento di per sé solo decisivo, a dispetto degli esiti forniti dagli altri criteri interpretativi: altrimenti qualsiasi interpretazione scorretta (ad esempio, perché frutto di operazioni analogiche della giurisprudenza, o di letture che non tengano conto del criterio sistematico o di quello finalistico) potrebbe sempre ricevere una validazione postuma per la via della semplice “reiterazione dell’errore”. Ammettere una capacità “taumaturgica” del cd. diritto vivente[18], capace di superare, a mo’ di rimedio salvifico, le conclusioni ricavabili mediante gli altri canoni interpretativi, equivarrebbe – a tacer d’altro – a una vanificazione del divieto di analogia (rivolto al giudice) e, quindi, del principio tassatività quale necessaria articolazione del principio di legalità.

Insomma, e per riassumere, secondo la costante giurisprudenza del “custode interno” del nullum crimen, «il principio di determinatezza non esclude (...) l’ammissibilità di formule elastiche»; quindi, l’utilizzo di clausole generali deve ritenersi compatibile tutte le volte in cui il loro significato riceva «adeguata luce» in sede interpretativa in relazione alla finalità perseguita dalla previsione e al contesto in cui la stessa si innesta, tenuto conto altresì del diritto vivente[19].

Considerati gli esiti di ordinaria infondatezza delle questioni, si deve concludere che il recupero di determinatezza in sede interpretativa, mediante l’argomento sistematico o finalistico o all’esito della verifica sul diritto vivente, sia ritenuto implicitamente “non sufficiente” (soltanto) nei casi – rarissimi – in cui la Corte è pervenuta a una dichiarazione di illegittimità costituzionale di disposizioni penali, evidentemente collocate dal legislatore al di là di ogni possibile correzione ermeneutica[20].

Le vere perplessità riguardano in effetti la quasi assenza, al metro del “nullum crimen interno”, di declaratorie di illegittimità riguardanti le condizioni di qualità della norma e la sua capacità di parlare ai destinatari.

4.2. La Corte europea dei diritti dell’uomo e il principio “no punishment without law”

Veniamo ora brevemente, come preannunciato, alla dimensione sovranazionale del nullum crimen e, dunque, alla giurisprudenza del suo “custode europeo”.

La giurisprudenza di Strasburgo sull’art. 7 Cedu restituisce, come noto, un principio di legalità declinato in termini di accessibilità del precetto e di calcolabilità delle conseguenze sanzionatorie, inglobando dunque la prevedibilità delle decisioni giudiziali in materia penale. Nel contesto euroconvenzionale, in tema di standard qualitativo di chiarezza della norma, l’accento cade dunque sui “profili comunicativi”. Questa declinazione coinvolge, in sostanza, un diritto della persona a poter fare affidamento sull’interpretazione che la giurisprudenza fornirà (in futuro) di un particolare precetto o istituto penale. Ciò significa che oggetto del giudizio sulla qualità della norma non è soltanto il testo della disposizione penale; bensì anche la giurisprudenza che, in sede di applicazione, ne precisa i significati. 

Ne deriva – tornando sul piano del discorso qui condotto – che, per decidere della compatibilità o meno rispetto al nullum crimen euroconvenzionale di una previsione penale “vaga”, si dovrà valutare la chiarezza complessiva della norma alla luce della giurisprudenza maturata sulla disposizione “sospetta”.

Così, in Del Rio Prada c. Spagna[21], la Grande Camera precisa che la nozione di «legge» utilizzata all’art. 7 della Convenzione include il «diritto d’origine sia legislativa che giurisprudenziale»; inoltre che la stessa nozione implica talune “condizioni qualitative”, tra le quali quelle di accessibility and foreseeability (nella versione francese: accessibilité et prévisibilité), ovverosia, qualitative requirements che devono essere rispettati sia per la definizione del reato sia per la pena che ne consegue.

La Corte aggiunge – centrando, a questo punto, perfettamente la tematica qui esaminata – considerazioni generali sull’impossibilità di precisione assoluta delle leggi e sulla necessità di utilizzare tecniche standard di regolazione che facciano ricorso, piuttosto che a liste esaustive, a clausole generali[22]. Così, facendo professione di realismo, i giudici di Strasburgo registrano come la legge si serva spesso di «formule più o meno vaghe, la cui interpretazione e applicazione dipendono dalla pratica».

Pertanto, a prescindere dal livello di chiarezza della disposizione di legge, anche di quelle penali, vi è inevitabilmente «un elemento d’interpretazione giudiziale» indispensabile a chiarire i punti dubbi e ad adeguare la norma alle mutevoli situazioni. Inoltre, si aggiunge, la certezza, benché desiderabile, si accompagna talvolta a una rigidità eccessiva: mentre il diritto deve sapersi adattare alle mutevoli situazioni concrete. Da qui, dunque, il ruolo riconosciuto alla giurisprudenza[23].

Se ci ricolleghiamo alla giurisprudenza della nostra Corte costituzionale sulle capacità “sananti” del “diritto vivente”, ci sembra importante sottolineare che, benché il ruolo di chiarificazione delle formule vaghe da parte dell’interpretazione giurisprudenziale sia ovviamente ammesso anche in ambiente Cedu – ossia in un contesto storicamente, culturalmente e istituzionalmente più aperto a tali “suggestioni da common law” –, tuttavia la dimensione euroconvenzionale del nullum crimen subordina tale verifica alla condizione che il risultato interpretativo maturato sia, oltre che coerente con la sostanza dell’incriminazione, pur sempre ragionevolmente prevedibile (al momento della condotta).

La differenza tra Roma e Strasburgo sembra stare proprio qui: l’accento posto dal “custode europeo” del nullum crimen sulla “ragionevole prevedibilità della norma”, da valutare alla luce anche della giurisprudenza maturata sulla disposizione iniziale, rappresenta il punto di maggiore distanza con le soluzioni solitamente adottate dal custode “interno” in relazione alle formule vaghe o alle clausole generali. Nelle considerazioni che portano alla consueta infondatezza della questione, manca o resta a un livello di mera enunciazione questo collegamento diretto tra esito creativo sul piano del diritto vivente e sua prevedibilità da parte del destinatario della norma[24].

O meglio: un collegamento che era mancato, fino ad ora, ma che sembra emerso soltanto di recente, a proposito della cd. “regola Taricco”.

5. Due esempi

A questo punto, vorrei esaminare due esempi di clausole generali, tra i tanti possibili: il primo è riferibile a una clausola contenuta in una sentenza e consistente in una regula iuris sulla punibilità, in particolare sulla prescrizione del reato; il secondo, a una clausola consistente in un frammento di una fattispecie incriminatrice contenuta in una disposizione di legge. La finalità dell’esame è quella di mettere in risalto le rispettive e opposte reazioni del “custode interno” del nullum crimen di fronte a queste clausole generali (diversissime per tipologia, struttura e provenienza).

In altri termini, ci si soffermerà su due esempi rappresentativi di due opposte declinazioni della nozione di determinatezza: una inedita “nozione forte”, che fa da contrappunto alla consolidata “nozione debole” del principio di sufficiente determinatezza.

5.1. La “regola Taricco”: una lettura massimalista del principio di determinatezza

Il primo esempio fa riferimento alla recente e ben nota vicenda Taricco[25].

La cd. “regola Taricco” interpreta (o, meglio, alla luce delle successive puntate della saga, interpretava) l’art. 325, comma 1, Tfue[26], in tema di frodi agli interessi finanziari dell’Unione, nel senso che lo stesso imponga la disapplicazione delle disposizioni del diritto interno sulla prescrizione del reato (artt. 160, ultimo comma, e 161, comma 2, cp), allorquando tali disposizioni interne impediscano al giudice di infliggere sanzioni effettive e dissuasive «in un numero considerevole di casi di frode grave che ledano gli interessi finanziari dell’Unione europea»[27].

Questa regola contiene al suo interno una clausola generale metagiuridica, incentrata su un parametro valutativo a carattere quantitativo-non-numerico. Una clausola insanabilmente indeterminata, quella della Corte di giustizia, recante una regola di giudizio che reclama, su tale base di irriducibile incertezza, la disapplicazione di norme interne incidenti sulla (non) punibilità e, segnatamente, sull’istituto della prescrizione[28].

Come ha reagito la Corte costituzionale di fronte a tale regola, è noto.

In questo caso, la Consulta – sia nell’ordinanza (di rinvio pregiudiziale) del 2017, sia nella sentenza (di non fondatezza) del 2018 – ha proceduto a una inedita affermazione forte del principio di determinatezza sulla base di una lettura, per così dire, massimalista (e “patriottica”) del medesimo canone[29]. La regola Taricco è ritenuta irrimediabilmente indeterminata «nella definizione del “numero considerevole di casi” in presenza dei quali può operare, perché il giudice penale non dispone di alcun criterio applicativo della legge che gli consenta di trarre da questo enunciato una regola sufficientemente definita. Né a tale giudice può essere attribuito il compito di perseguire un obiettivo di politica criminale svincolandosi dal governo della legge al quale è invece soggetto (art. 101, secondo comma, Cost.)»[30]. Ma ancor prima, è ritenuto indeterminato (addirittura) l’art. 325 Tfue, dal quale la regola Taricco è desunta per via interpretativa dalla Corte di giustizia, «perché il suo testo non permette alla persona di prospettarsi la vigenza della “regola Taricco”»[31]. Addirittura, nella declinazione datane dalla Corte costituzionale nel 2018, sorge il dubbio che la prevedibilità riguardi già il testo della norma, dal quale dovrebbe potersi desumere in anticipo la successiva concretizzazione per via giurisprudenziale: una prevedibilità valutata, cioè, non al momento della condotta[32].  

Di fronte a tali esiti, salutato con favore il richiamo a una determinatezza “forte”, ecco che un retropensiero si affaccia fin troppo facilmente: sulla base della sua giurisprudenza sino ad ora consolidata, viene da pensare, cioè, che la Corte romana sia molto più esigente verso le regole vaghe di provenienza europea e dettate dalla Corte lussemburghese di quanto non lo sia nei confronti di quelle contenute nelle leggi italiane. Resta, poi, uno scetticismo di fondo circa l’eventualità che tale lettura massimalista ed enfatica della determinatezza possa essere estesa, nel futuro prossimo, ad altre cause generali contenute nel nostro ordinamento penale: insomma, dalla determinatezza come “promessa non mantenuta”[33], alla stessa, nella sua versione Taricco, quale espressione di una “promessa che non può essere mantenuta”[34].

Tuttavia, al di là del – già espresso – giudizio negativo sul tradizionale scarso interventismo della nostra Corte in tema di (in)determinatezza e prescindendo pure dall’arrière-pensée appena evocata, si vuole segnalare che forse non è del tutto fuori luogo guardare con maggior sospetto le clausole giudiziali, ovverosia regole vaghe contenute in sentenze (di corti superiori, interne o sovranazionali che siano), rispetto a quelle contenute in testi legislativi. Sicché, si può ritenere che quell’arrière-pensée si fondi su qualche possibile buona ragione, riferibile, però, non alla provenienza sovranazionale della regola afflitta da indeterminatezza, bensì alla fonte che la reca, ovverosia una sentenza di una corte “superiore”.

Clausole siffatte, ovvero elementi vaghi contenuti in regole di giudizio recate da una sentenza, sono le più intollerabili e le più lontane dal nullum crimen, sia nella nozione interna, sia al metro integrato su base euroconvenzionale. Mentre quelle contenute in disposizioni attendono la loro possibile disambiguazione da parte del singolo giudice, allorquando vengono in contatto con il caso, e potrebbero sperabilmente convertirsi in norme di diritto vivente stabili e prevedibili (oppure, benché l’evenienza, come visto, sia rarissima, potrebbero subire una declaratoria di incostituzionalità); al contrario, quelle contenute in sentenze di “giudici superiori” (corti supreme interne o corti sovranazionali, che “parlano” in maniera, a seconda dei casi, più o meno vincolante ai giudici “comuni” – oltre che alle singole persone) rappresentano il fallimento incorreggibile della valenza comunicativa della norma e la sua quasi definitiva “incalcolabilità”.

In presenza di una clausola “giudiziale” ci troviamo di fronte a una sorta di delega del giudice “superiore” (“interno” o “sovranazionale”) al giudice “inferiore” (“interno”), che potrebbe, a tacer d’altro, far insorgere più di un dubbio dal punto di vista del vincolo del secondo giudice soltanto alla legge (almeno, là dove vi sia un vincolo per il giudice “inferiore” verso la regola di giudizio del giudice superiore). A differenza delle “normali” clausole generali contenute in disposizioni di legge, la clausola giudiziale vedrebbe il giudice superiore erigersi a creatore di norme vaghe (e non più soltanto ad autorevole interprete e “concretizzatore” delle stesse a partire da un testo legale che le contiene), così sovvertendo completamente i rapporti tra la fonte scritta e quella giudiziale. Insomma, qui sembra più che altro (o, almeno, anche) un problema di riserva di legge, e non (solo) di determinatezza.

5.2. Inosservanza delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale: una lettura minimalista del principio di determinatezza

Da una lettura massimalista ed enfatica a una minimalista o, peggio, negazionista del principio di determinatezza. Il delitto di inosservanza delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale si regge su un rinvio “in bianco” alle prescrizioni che saranno imposte dal tribunale nel decreto di applicazione della misura di prevenzione ante delictum[35]. Tra le prescrizioni di necessaria imposizione, da includere «in ogni caso», figurano anche quelle di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi»[36].

Ne risulta una sorta di doppio rinvio in bianco, o di rinvio speculare all’infinito, che si perde in un circolo normativo vizioso: la legge, con una norma penale in bianco, affida al provvedimento del giudice l’esatta individuazione delle prescrizioni che debbono accompagnare la misura; ma il provvedimento del giudice deve, in ogni caso, contenere la prescrizione in bianco di (vivere onestamente e di) rispettare le leggi, rinviando così, a sua volta, alla legge... Una tecnica normativa capace di far venire alla mente immagini paradossali, come le due mani che si disegnano reciprocamente di una celebre litografia del geniale artista olandese M.C. Escher: Mani che disegnano (1948). Qui le mani sono quelle del legislatore e del giudice, impegnate in un autoreferenziale rimando senza fine.

La fattispecie incriminatrice di inosservanza delle prescrizioni, fondata com’è sui menzionati presupposti di honeste vivere, se non fosse per la soggettività ristretta (riguarda solo le persone sottoposte alla misura di prevenzione: i sorvegliati speciali), si avvicinerebbe paurosamente al famigerato Schurkenparagraph, il “paragrafo del briccone” di belinghiana memoria: quella sorta di “disposizione omnia”, una macro-clausola generale che vanificherebbe il nullum crimen nonostante l’apparente rispetto formale della riserva di legge[37].

Anche qui, ci si pone la stessa domanda: qual è stata la reazione del custode interno del nullum crimen?

Ebbene, questa mostruosa fattispecie ha superato indenne, almeno finora, lo scrutinio della Corte costituzionale, benché nella (sostanzialmente) pedissequa versione antecedente: quella dell’art. 9, comma 2, legge n. 1423/1956, abrogato e sostituito nel 2011 dall’art. 75, comma 2, codice antimafia[38]. La Corte – nel 2010 – ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione incriminatrice nella parte in cui sanziona penalmente le prescrizioni di vivere onestamente, di rispettare le leggi e non dare ragione di sospetti (art. 5, comma 3, l. n. 1423/1956), facendo riferimento, tra l’altro, ai già ricordati criteri interpretativi, professati dalla sua stessa giurisprudenza, finalizzati a recuperare  determinatezza in presenza di clausole generali: in particolare, in questo caso, al criterio sistematico-olistico e al criterio finalistico o della ratio legis.

Come anticipato, la legge è poi stata abrogata dal d.lgs n. 159/2011 (cd. codice antimafia): ma le prescrizioni di vivere onestamente e di rispettare le leggi (non anche la terza, fondata sul «dare ragione di sospetti») sono, ora, replicate all’art. 8, comma 4, del codice antimafia, che continua a incriminarne – a titolo di delitto – l’inosservanza.

La legittimità di tale fattispecie andrà rivista, nel futuro prossimo, al “metro euroconvenzionale” del nullum crimen, come formulato da ultimo proprio a proposito delle prescrizioni che fanno da presupposto all’applicazione della misura personale di prevenzione ante delictum della sorveglianza speciale.

La Grande Camera della Corte di Strasburgo (in de Tommaso) ha condannato l’Italia – sebbene in relazione alla violazione della libertà di circolazione (art. 2 del Protocollo n. 4 alla Cedu) e non al canone nulla poena sine lege (art. 7 Cedu) – dichiarando incompatibile la disciplina delle misure personali di prevenzione ante delictum fondate sulle fattispecie di pericolosità “generica” di cui alla legge n. 1423/1956 (poi trasfuse nell’art. 1 del codice antimafia), sulla base della “insufficiente prevedibilità” delle conseguenze della condotta proprio perché è straordinariamente vago il contenuto delle prescrizioni da imporre ai destinatari della misura[39]. Un difetto qualitativo della norma che, di necessità, si ribalta anche sulla fattispecie delittuosa, già salvata dalla Corte costituzionale nel 2010[40].

Il paradossale congegno, col quale il legislatore rimanda al giudice che a sua volta prescrive di rispettare le leggi, si risolve in un gioco di specchi; e fa venire alla mente la mano che disegna la mano. Un congegno che poteva – e può nuovamente – essere cancellato da una terza mano: quella del giudice costituzionale. Una mano provvidenziale, che crediamo oramai prossima[41].

6. Una conclusione nel segno del paradosso

È noto da sempre che il primato della legge ha una doppia faccia: quella autoritaria e quella garantista. Del resto, era Calamandrei a rimarcare come “nello stampo della legalità si può colare oro o piombo”: il piombo della legalità fascista (preservata, nella forma, negli artt. 1, 2 e 199 del codice Rocco); l’oro della futura legalità costituzionale[42].

Occorre anche ricordare che la perdita di centralità del formante legale (nazionale), in favore del formante giurisprudenziale, nella sua dimensione sovranazionale, se sottrae terreno alla legalità nazionale, può anche produrre, nella declinazione della Corte Edu, una espansione dei diritti individuali fondamentali sub specie di diritti dell’uomo.

Questa ambivalenza della legalità nazionale è plasticamente visibile anche in relazione alle formule vaghe qui studiate. Le clausole generali, in criminalibus, sono ordigni ambigui anche negli effetti: certo, più facilmente generano incertezza, favorendo l’arbitrio repressivo e contribuendo alla formazione di un diritto incalcolabile che rende imprevedibili le conseguenze penali delle proprie azioni. E tuttavia, proprio perché sono metafore di vaghezza, Ventilbegriffe, le clausole potrebbero talora funzionare come “valvole di disinnesco” o come “fattori di dissipazione” della portata repressiva di certe disposizioni: dando rilievo, per esempio, a situazioni in senso lato esimenti o con effetti in bonam partem, valutabili discrezionalmente dal giudicante.

Indizi di questo ruolo ambivalente delle clausole generali emergono anche nella storia recente, a proposito di previsioni incriminatrici in tema di immigrazione ritenute, per varie e più o meno condivisibili ragioni, “sgradevoli” anche da una parte della magistratura, e che, nel loro rigore sono ritenute troppo... tassative, poiché non presentano formule vaghe come “senza giustificato motivo”, che proprio per la loro vaghezza permettano di considerare situazioni di oggettiva o soggettiva non “rimproverabilità” o comunque riguardanti la meritevolezza di pena. Così, era stata lamentata l’illegittimità della fattispecie del cd. reato di “immigrazione clandestina” (art. 10-bis, d.lgs n. 286/1998), introdotta nel 2009, in relazione ai principi di colpevolezza, proporzione e ragionevolezza, sotto forma di mancata previsione della clausola «senza giustificato motivo»[43]; clausola invece presente nella norma incriminatrice “affine” di cui all’art. 14, comma 5-ter, del medesimo Testo unico sull’immigrazione (inosservanza dell’ordine di lasciare il territorio nazionale)[44].

In sostanza – ecco il paradosso – si invocava da parte dei giudici rimettenti la clausola generale “senza giustificato motivo”, che in precedenza era stata sospettata di indeterminatezza in relazione alla menzionata fattispecie incriminatrice analoga (poi “salvata” dalla Corte). In questo caso, si finisce insomma per “rimpiangere” la formula vaga, consistente in una clausola classica, fondata su parametri metagiuridici che danno rilievo ai motivi: una formula di per sé idonea ad assecondare le contingenti finalità repressive del legislatore contemporaneo, spesso non estranee, in materie come la disciplina dell’immigrazione, alle improvvide suggestioni di un populismo penale più o meno becero; ma anche, quella stessa formula, uno strumento elastico che, nelle mani del giudice, potrebbe rivelarsi capace di comprimere l’enfasi di quelle finalità repressive, se non di frustrane in parte le meno commendevoli intenzioni politico-criminali o forse schiettamente elettoralistiche.

In definitiva, benché gli effetti nefasti dell’incalcolabilità riguardino principalmente le persone destinatarie delle norme, la carica entropica delle clausole generali, una volta immesse nel sistema, può manifestarsi in forme impreviste, anche per gli stessi malcauti artefici.

Dietro al prevalente lato cattivo delle clausole generali, può nascondersi eventualmente qualcosa di buono: primariamente, scongiurare un diritto penale ipertrofico e smisurato, dalle formule descrittive prolisse e inconoscibili, tutte le volte in cui sia inevitabile utilizzare tali formule di integrazione del testo; forse, benché più raramente, offrire al giudice una valvola di decompressione di previsioni enfatiche sul piano repressivo, non estranee in epoca di crescente populismo penale.

La vera sfida, alla fine, consiste nell’individuare un rapporto di scala adeguato, che, senza eccedere in disposizioni smisurate, sappia condensare in segni ancora accessibili e decifrabili le – calcolabili – pretese del principe.

[1] Di distinzione tra tradimenti e trasformazioni della legalità parla, di recente, F. Palazzo, Il principio di legalità tra Costituzione e suggestioni sovranazionali, in G. De Francesco e A. Gargani (a cura di), Evoluzione e involuzioni delle categorie penalistiche, Giuffrè, Milano, 2017, pp. 14 ss.

[2] Fino ai più recenti rigurgiti di forme di pretesa democrazia diretta (benché, poi, in realtà mediata da inediti mezzi di comunicazione, il cui potenziale sembra, nel bene e nel male, ancora incalcolato e incalcolabile).

[3] Resta tutto da verificare, al momento, il significato anche culturale che potrà avere per il legislatore futuro il recentissimo inserimento nel codice penale del principio della riserva di codice, attesa la fonte ordinaria e non costituzionale in cui lo stesso è previsto (art. 3-bis cp). Si rinvia a M. Donini, L’art. 3 bis c.p. In cerca del disegno che la riforma Orlando ha forse immaginato, in Diritto penale e processo, n. 4/2018, pp. 429 ss.; M. Papa, Dal codice penale “scheumorfico” alle playlist. Considerazioni inattuali sulla principio della riserva di codice, in Diritto penale contemporaneo, n. 5/2018, pp. 129 ss.   

[4] Tra i tanti possibili riferimenti, si rinvia ai contributi (di M. Vogliotti, L. Ferrajoli, D. Pulitanò, B. Pastore, F. Palazzo, G. Carlizzi) raccolti nel volume monografico Aa.Vv., Ermeneutica e diritto penale, in Ars interpretandi, n. 2/2016 (www.arsinterpretandi.it/251/).

[5] E, come noto, sulla stessa ridefinizione dei confini della matière pénale: cfr., per tutti, F. Mazzacuva, Le pene nascoste, Giappichelli, Torino, 2017; M. Donini e L. Foffani (a cura di), La «materia penale» tra diritto nazionale ed europeo, Giappichelli, Torino, 2018.

[6] Un tema, quest’ultimo, che, da qualche tempo, ha finalmente attratto l’attenzione della dottrina penalistica: si rinvia ad esempio, per una trattazione monografica, a V. Torre, La “privatizzazione” delle fonti di diritto penale, BUP, Bologna, 2013. Cfr., inoltre, C. Piergallini, Autonormazione e controllo penale, in Diritto penale e processo, n. 3/2015, pp. 261 ss. Per l’individuazione dei rapporti tra legalità e saperi esperti come ulteriore «fronte di cedimento del monopolio della fonte legislativa», si veda F. Palazzo, Il principio di legalità, op. cit., pp. 20 ss.

[7] Sulla distinzione tra cause esogene e cause endogene dell’erosione della legalità, F. Mantovani, Erosione del principio della riserva di legge, interrogativi e rimedi, in Aa.Vv., Criminalia 2017, ETS, Pisa, 2018, pp. 121-132 (www.edizioniets.com/Priv_File_Libro/3663.pdf), là dove, assieme ad altre cause endogene – quali l’inflazione legislativa, l’instabilità della legislazione, la decodificazione, la sciatteria, l’indeterminatezza –, si fa menzione anche della legislazione per “clausole”.

[8] Ancora F. Palazzo, Il principio di legalità, op. cit., p. 7.

[9] Cfr. N. Irti, Un diritto incalcolabile, Giappichelli, Torino, VII ss.

[10] C. Luzzati, Le metafore della vaghezza, in P. Comanducci e R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1999, Giappichelli, Torino, 2000, p. 130.

[11] La mappa dell’impero. Clausole generali e decifrabilità della norma penale, in Diritto & Questioni pubbliche, 2018, § 5 ss. (in corso di pubblicazione). Lo stesso tentativo di decostruzione e ricostruzione del concetto si trova già in un contributo precedente: Tranelli del linguaggio e “nullum crimen”. Il problema delle clausole generali nel diritto penale, in Legislazione penale, 5 giugno 2017, pp. 16 ss. (disponibile online: www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2017/06/approfondimenti_castronovo_2017.pdf).

[12] Si veda, però, F. Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, in Dir. pen. cont., 19 dicembre 2016, pp. 26 ss. (disponibile online: www.penalecontemporaneo.it/d/5118-il-principio-di-prevedibilita-della-decisione-giudiziale-in-materia-penale). Quali esempi di regole di diritto indeterminate emanate dalle sezioni unite, lo stesso Autore (ibidem, pp. 28 e 29) indica la «quantificazione del “profitto” confiscabile» (Cass., sez. unite, 27 marzo 2008, n. 26654, Impregilo) e la «distinzione tra concussione e induzione indebita» (Cass., sez. unite, 24 ottobre 2013, n. 12228, Maldera).

[13] In generale, per la tematizzazione, accanto alla crisi del formante legale, anche della crisi del formante giurisprudenziale, R. Palavera, Il penalista e il suo spartito, ETS, Pisa, 2018, pp. 43 ss., pp. 52 ss.

[14] Corte cost., n. 247/1989, non fondatezza della questione di illegittimità dell’art. 4, n. 7, l. n. 516/1982: alterazione «in misura rilevante» del risultato della dichiarazione fiscale; Corte cost., n. 5/2004, infondatezza della questione di illegittimità dell’art. 14, comma 5-ter, del Tui: reato di trattenimento sul territorio dello Stato senza «giustificato motivo»; Corte cost., n. 21/2009, infondatezza della questione riguardante l’art. 12, comma 1, Tui: favoreggiamento all’ingresso illegale dello straniero in altro Stato; Corte cost., n. 327/2008, infondatezza della questione di illegittimità dell’art. 434 cp: disastro innominato; Corte cost., n. 282/2010, non fondatezza della questione di legittimità dell’art. 9, comma 2, l. n. 1423/1956: delitto di violazione delle prescrizioni di «vivere onestamente», di «rispettare le leggi» e «non dare ragione di sospetti»; Corte cost., n. 172/2014, non fondatezza della questione di legittimità dell’art. 612-bis cp: reato di atti persecutori.

[15] Si rinvia, tra gli altri, ai lavori di: A. Pugiotto, Sindacato di costituzionalità e “diritto vivente”. Genesi, uso, implicazioni, Giuffrè, Milano, 1994, passim; E. Belfiore, Giudice delle leggi e diritto penale. Il diverso contributo delle Corti costituzionali italiana e tedesca, Giuffrè, Milano, 2005, pp. 136 ss., pp. 304 ss.; D. Micheletti, Le fonti di cognizione del diritto vivente, in Aa.Vv., Criminalia 2012, ETS, Pisa, 2013, pp. 619-639 (www.edizioniets.com/criminalia/2012/024_Micheletti.pdf); F. Palazzo, Corso di diritto penale, Giappichelli, Torino, 2013, p. 144.

[16] Cfr. Corte cost., n. 31/1995, infondatezza della questione di illegittimità dell’art. 174, comma 1, n. 3, cpmp (rivolta mediante «eccessi»).

[17] Corte cost. n. 519/2000, in relazione ai reati militari di “sedizione” (artt. 182 e 183 cpmp).

[18] Cfr., in senso critico, F. Giunta, Il diritto (malamente) vivente salva gli atti persecutori, in Giur. cost., n. 3/2014, pp. 2738 ss., a commento di Corte cost., n. 172/2014, cit., che, anche rifacendosi al diritto vivente, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità dell’art. 612-bis cp («Atti persecutori»).

[19] Cfr., nella giurisprudenza recente, ancora una volta, Corte cost., n. 172/2014, che ha dichiarato la non fondatezza della questione utilizzando tutti e tre i criteri qui ricordati.

[20] Corte cost., n. 34/1995, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7-bis l. n. 39/1990: straniero, destinatario del provvedimento di espulsione, che non si adopera per ottenere il rilascio del documento di viaggio (una sorta di indefinibile e amplissima clausola metagiuridica di natura “empirica” e sostanzialmente priva di contenuto normativo).

[21] Corte Edu, Grande Camera, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna, § 79. Poi ripresa, per esempio, da Corte Edu, sez. IV, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, § 60.

[22] In realtà, letteralmente, in Del Rio Prada, nel § 92, si parla di «catégories générales», nel testo francese; e di «general categorisations», in quello inglese. Ma, l’interpretazione “sistematica” del passo (la contrapposizione con la tecnica delle liste esaustive e la presenza di formule vaghe), restituisce in maniera evidente il senso di queste più generiche espressioni, che qui si ritengono equivalenti a quella di “clausole generali” o “legal standards”, etc.

[23] Corte Edu, Grande Camera, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna, cit., § 92.

[24] Come noto, nella giurisprudenza costituzionale nostrana è oramai risalente l’affermazione circa l’essenziale collegamento tra legalità/determinatezza e colpevolezza: l’archetipo “nobile” è in Corte cost., n. 364/1988 (parziale illegittimità dell’art. 5 cp in tema di ignorantia legis); successivamente, Corte cost., n. 322/2007 (inammissibilità della questione di illegittimità dell’art. 609-sexies cp in tema di error aetatis nei delitti sessuali). Sul punto, si consenta di rinviare, ancora una volta, ai nostri: La mappa dell’impero, op. cit., § 3.1; Tranelli del linguaggio e “nullum crimen”, op. cit., pp. 16 ss. Anche in tema di clausole generali si trova, sovente, un riferimento all’esigenza che la formula utilizzata dal legislatore «permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (così, ad esempio, Corte cost., nn. 5/2004, 327/2008 e varie altre). Tuttavia, in presenza di clausole generali, tale riferimento sembra assumere il valore di una mera petizione di principio. In effetti – anche in ragione delle notevoli differenze in termini di “cognizione” tra il giudizio di legittimità costituzionale e quello che nasce da un ricorso alla Corte Edu – la conoscibilità della norma alla luce del diritto vivente non viene indagata dalla Consulta sul piano concreto. Si pensi, invece, ad esempio, alla meticolosa indagine “storica” compiuta dalla Corte Edu nel caso Contrada c. Italia (sez. IV, 14 aprile 2015, cit.), circa l’epoca a partire dalla quale poteva ritenersi maturata la prevedibilità, sopravvenuta nel diritto vivente, della punibilità del concorso esterno in associazione mafiosa (al di là, poi, della condivisibilità o meno degli esiti ai quali si giunge alla fine di tale indagine storica). Peraltro, tornando alla Consulta, anche sul piano astratto, per fare un esempio, resta difficile ritenere che i destinatari della norma (art. 434 cp: altro disastro o disastro innominato) abbiano «una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» anche in relazione a casi di disastro ambientale (non a dinamica tendenzialmente immediata, ma) realizzato mediante emissioni industriali seriali e continuative verificatesi nell’arco di anni. Emissioni iniziate, quindi, molto tempo prima che anche tali ipotesi di disastro ambientale fossero ricondotte – dal diritto vivente – all’art. 434 cp. Cosa che avveniva già, probabilmente, nel diritto vivente coevo a Corte cost., n. 327/2008, cit., che ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità relative all’art. 434, promosse per ipotesi di disastro ambientale a dinamica tendenzialmente immediata, consistiti nell’utilizzo di terreni agricoli come discariche abusive: un noto precedente, espressivo quantomeno della propensione della giurisprudenza di quegli anni a ricondurre già alla stessa fattispecie anche le ipotesi a dinamica seriale e diluita nel tempo, è rinvenibile in Cass., sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, Bartalini (sul caso del Petrolchimico di Porto Marghera). Sulla questione, si rinvia a Castronuovo, Il caso Eternit. Un nuovo paradigma di responsabilità penale per esposizione a sostanze tossiche?, in Legislazione penale, 16 luglio 2015, pp. 15 ss. (disponibile online: www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2015/07/studi_Castronuovo_Eternit.pdf).

[25] Cgue, Grande Sezione., 8 settembre 2015, causa C-105/14; Corte cost., ord. n. 24/2017 (di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia); il “dialogo tra le corti” nel caso Taricco è, poi, proseguito con Cgue, Grande Sezione, 5 dicembre 2017, causa C-42/17, alla quale ha fatto seguito, chiudendo la vicenda, Corte cost., sent. n. 115/2018. Sulle diverse fasi della vicenda, si vedano, tra gli altri: C. Paonessa e L. Ziletti (a cura di), Dal giudice garante al giudice disapplicatore, Pacini, Pisa, 2016; A. Bernardi (a cura di), I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali, Jovene, Napoli, 2017; A. Bernardi e C. Cupelli (a cura di), Il caso Taricco e il dialogo tra le Corti, Jovene, Napoli, 2017; nonché, sull’ultimo snodo, anche per ulteriori riferimenti: C. Amalfitano (a cura di), Primato del diritto dell’Unione europea e controlimiti alla prova della “saga Taricco”, Giuffrè, Milano, 2018; M. Donini, Lettura critica di Corte costituzionale n. 115/2018. La determinatezza ante applicationem e il vincolo costituzionale alla prescrizione sostanziale come controlimiti alla regola Taricco, in Dir. pen. cont., 11 luglio 2018, disponibile online (www.penalecontemporaneo.it/upload/8210-donini2018b.pdf).

[26] «L’Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo, che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell’Unione».

[27] Cgue, Grande Sezione, 8 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco.

[28] O, quantomeno, ne reclamavano la disapplicazione. Può infatti dirsi il contrario alla luce della seconda presa di posizione dei giudici di Lussemburgo, in sede di rinvio pregiudiziale proposto dalla Corte cost.: la citata sentenza Cgue del 2017 nega, infatti, la persistenza dell’obbligo di disapplicazione delle disposizioni interne in tema di prescrizione del reato quando siffatta disapplicazione comporterebbe una violazione del principio di legalità, a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile o a causa dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato.

[29] Di nozione forte e di lettura massimalista parla esplicitamente M. Donini, Lettura critica, op. cit., passim, al quale si rinvia anche per una disamina completa della pronuncia.

[30] Corte cost., n. 115/2018, § 11 del Considerato in diritto.

[31] Ibidem. Come notato in dottrina, la statuizione della Corte costituzionale è assai singolare, dal momento che applica il principio di determinatezza in materia penale a una disposizione del Trattato che ha, quali destinatari, non i cittadini, ma gli Stati quali Paesi membri dell’Unione, vincolando gli stessi ad adottare misure efficaci e dissuasive per la lotta alle frodi contro gli interessi finanziari. Si veda M. Donini, Lettura critica, op. cit., pp. 11 ss.

[32] Individua e stigmatizza questo elemento, ancora una volta, M. Donini, Lettura critica di Corte costituzionale n. 115/2018, op. ult. cit., pp. 15 ss. e 24 ss.

[33] Così, già dal titolo, il libro di S. Moccia, La “promessa non mantenuta”. Ruolo e prospettive del principio di determinatezza/tassatività nel sistema penale italiano, ESI, Napoli, 2001.

[34] Cfr. M. Donini, Lettura critica, op. cit., pp. 16 e 23 ss., il quale, giustamente, si dice scettico sul futuro della determinatezza nella versione “forte”.

[35] Art. 75, comma 2, in relazione all’art. 8, comma 4, del cd. codice antimafia (d.lgs. n. 159/2011). In precedenza, la fattispecie era prevista dall’art. 9, comma 2, in relazione all’art. 5, comma 3, l. n. 1423/1956 (poi abrogato e sostituito dal codice antimafia).

[36] Nella versione precedente a quella contenuta nel codice antimafia, alle prime due prescrizioni si aggiungeva la terza di «non dare ragione di sospetti» (art. 5, comma 3, l. n. 1423/1956, poi abrogato).

[37] E. Von Beling, Die Lehre vom Verbrechen, Mohr (Siebeck), Tubinga, 1906 (ristampa: Scientia Verlag, Aalen, 1964), 300. Lo ricorda, proprio in relazione a questa fattispecie, anche F. Viganò, La Corte di Strasburgo assesta un duro colpo alla disciplina italiana delle misure di prevenzione personali, in Dir. pen cont., n. 3/2017, p. 378 (https://www.penalecontemporaneo.it/d/5264-la-corte-di-strasburgo-assesta-un-duro-colpo-alla-disciplina-italiana-delle-misure-di-prevenzione-p.

[38] Corte cost., n. 282/2010.

[39] Corte Edu, Grande Camera, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia.

[40] Segnatamente dalla già menzionata sentenza della Corte costituzionale n. 282 del 2010.

[41] Dopo la sentenza della Grande Camera nel caso De Tommaso, erano intervenute le sezioni unite della Cassazione, le quali, rendendo un’interpretazione conforme a quella della Corte europea, hanno escluso dal novero dei presupposti del reato in esame le prescrizioni dell’honeste vivere, etc.: Cass., sez. un., 27 aprile 2017, n. 40076, Paternò, sulla quale F. Viganò, Le Sezioni Unite ridisegnano i confini del delitto di violazione delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione alla luce della sentenza de Tommaso, in Dir. pen. cont., n. 9/2017, pp. 146 ss.; G. Biondi, Le Sezioni unite Paternò e le ricadute della sentenza della Corte EDU De Tommaso c. Italia, in Dir. pen. cont., n. 10/2017, pp. 163 ss. Tuttavia, poche settimane dopo, la sez. II della suprema Corte ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale, ritenendo necessario l’intervento della Consulta affinché dichiari l’illegittimità della disposizione penale in questione nella parte in cui sanziona la violazione di precetti considerati incompatibili con gli artt. 25 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 Cedu e all’art. 2 Protocollo n 4 alla Cedu, interpretati alla luce della sentenza della Grande Camera della Corte Edu nel caso De Tommaso (Cass., Sez. II, ord. 11 ottobre 2017 (dep. 26 ottobre 2017), n. 49194, Sorresso, sulla quale vds. sempre F. Viganò, Ancora sull’indeterminatezza delle prescrizioni inerenti alle misure di prevenzione, in Dir. pen. cont., n. 10/2017). Si attende, dunque, il giudizio della Consulta. Infine, è successivamente intervenuta Cass., sez. I, 9 aprile 2018 (dep. 10 luglio 2018), n. 31322, che ha ridotto ulteriormente la tipicità della fattispecie con riferimento al divieto di partecipare a pubbliche riunioni – si veda, in proposito, G. Amarelli, Ulteriormente ridotta la tipicità del delitto di violazione degli obblighi inerenti alla misura di prevenzione, in Dir. pen. cont., n. 7-8/2018, pp. 174-182.

[42] Sul punto, Palazzo, Il principio di legalità, op. cit., pp. 13 ss.

[43] Questione dichiarata non fondata da Corte cost., n. 250/2010.

[44] La questione era stata ritenuta non fondata da Corte cost., n. 5/2004, cit.