Magistratura democratica

Comunicare: un compito inutile?

di Giancarlo De Cataldo

L’Autore prende le mosse da una definizione della sentenza come atto finalizzato a rendere manifesto, sia alle parti processuali direttamente coinvolte, che alla collettività, l’iter logico che sorregge la motivazione del giudice. La sentenza viene poi analizzata come documento narrativo, con riferimento agli elementi che vi devono necessariamente comparire in ossequio al dettato normativo e alle possibili tecniche di redazione, in un percorso che dovrebbe tendere all’ottenimento della giusta completezza espositiva nel quadro di una maggiore concretezza e sinteticità. L’autore si chiede infine, in chiave problematica se non apertamente critica, se l’innegabile sforzo dei giudici di comunicare, attraverso la motivazione della sentenza, in modo più chiaro, conciso e comprensibile, possa servire a migliorare, se non l’accettazione, quanto meno la comprensione, da parte della collettività, delle regole del giudizio.

1. La funzione della sentenza è di rendere manifesto l’iter logico del giudice. I destinatari sono i diretti interessati e la collettività. I diretti interessati in quanto nella loro sfera giuridica si determinano gli effetti prodotti dalla sentenza, la collettività nel rispetto del diritto di controllo sull’operato della giurisdizione che affonda radici nella Costituzione. Possiamo definire tutto questo come “funzione di conoscenza”.

 

2. La funzione di conoscenza origina un testo nel quale coesistono profili squisitamente tecnici e altri più prettamente divulgativi. Chi legge una sentenza deve potersi rendere conto del perché si sia pervenuti alla decisione. A mio avviso, sotto questo profilo, tutte le prescrizioni che impongono di riportare nella sentenza elementi fattuali o descrittivi estranei a quanto necessario a inquadrare l’iter logico decisionale trovano, nella sentenza stessa, sede impropria. Indicazioni come le generalità delle parti, la nomina del difensore, l’elenco dei testi ascoltati nelle singole udienze, ecc, potrebbero utilmente essere scorporate dalla sentenza e inserite in un apposito “diario del processo”, da tenere diacronicamente a cura degli uffici. Si tratta infatti di elementi del tutto privi di connotati decisori e tipici di un’attività ordinatoria e non decisionale. La sentenza potrebbe così essere restituita alla sua natura essenziale di “racconto” del processo e delle questioni che vi sono state affrontate e decise. 

 

3. Pressoché l’intero contenuto di una sentenza è regolamentato dalle norme processuali. Esse dettano i criteri il cui rispetto fa sì che una sentenza sia completa e rispondente ai requisiti normativamente previsti (articolo 546 cpp).

 

4. Ma una sentenza completa non è necessariamente una sentenza tale da adempiere alla funzione di conoscenza. Non sono poche le sentenze che spiegano male, o non spiegano affatto, l’iter logico seguito dall’estensore. Ciò può determinarsi sia per un difetto strettamente linguistico che per un deficit logico.

 

5. Si può dunque avere una sentenza che (nella percezione comune) è “scritta male”: tanto perché incomprensibile, farraginosa, confusa, contraddittoria nello sviluppo che conduce da una premessa a una conclusione, quanto perché lessicalmente sciatta.

 

6. Il legislatore, in realtà, ha preso in considerazione entrambi i profili. Le disposizioni dettate dall’articolo 546 cpp delineano un potenziale percorso di sviluppo “narrativo” dell’argomentare logico del giudice. Tutte le altre norme, seminate nei codici, che richiamano ai principi di chiarezza, economicità, sinteticità, ecc, sembrano, invece, mirare all’individuazione del “corretto linguaggio” della sentenza.

 

7. Nei mesi passati ho partecipato a un tavolo di studi organizzato dal Ministro di giustizia strutturato intorno a un gruppo di lavoro (presieduto da Antonello Mura) per la definizione dei criteri di “sinteticità” e “chiarezza” degli atti giudiziari. Ho personalmente tentato – in quell’ambito – di azzardare una definizione dei concetti di chiaro e sintetico ove applicati a una sentenza: “chiaro” è il testo  che persegue la comprensibilità più vasta, che, dunque, non ambisce a selezionare un determinato tipo di lettore, ma mira a includere quanti più lettori. Ciò dovrebbe indurre a ritenere non rispondente ai criteri predetti tanto la sentenza che pretermetta o ridimensioni oltre ogni accettabile limite di comprensibilità la parte narrativa, quanto la sentenza che affidi alla sola narrazione del fatto il controllo dell’iter logico seguito dal giudicante.

 

8. “Sintetico” è invece il testo che si proponga di rispettare la funzione di conoscenza con la massima economicità di mezzi.

 

9. Se la questione può essere posta in questi termini, allora va riempita di costrutto la distinzione, cui si accennava sopra, fra i profili linguistici e quelli di logica espositiva. Una sentenza può esser “ben scritta” dal punto di vista lessicale e risultare incomprensibile al vaglio logico, e viceversa.

 

10. Non credo che possano esistere in merito regole universali, né strumenti coercitivi. Si può e si deve lavorare molto sulla cultura della redazione del testo, ma (personalmente) l’imposizione di dettami eccessivamente dettagliati (dal format all’aggettivazione) mi pare mortificante. Senza contare poi che il diritto come scienza dell’interpretazione sembra ontologicamente refrattario all’incasellamento in schemi eccessivamente contenitivi.

 

11. Un grande intellettuale, Mark Strand, poeta laureato che spese anni a insegnare scrittura creativa al Committee on Social Thought di Chicago, sosteneva: «si può insegnare a scrivere a chi ha talento, ma chi ha talento non ha bisogno di insegnanti». L’aforisma potrebbe sembrare scoraggiante, ma va integrato con una considerazione che anima tutte le scuole di scrittura creativa sparse nel mondo (Italia inclusa): forse non si può insegnare a scrivere, ma si può mettere a disposizione di chi scrive un complesso di regole utili a creare un sapere condiviso. Che, senza rigidità o imposizioni, possa condurre, nel tempo, alla creazione di un linguaggio (mi esprimo in senso chiaramente atecnico) comune nel quale “chiarezza” e “sinteticità” divengano valori accettati (e non regole calate dall’alto).

 

12. Sotto questo aspetto, la necessità di corsi e seminari, anche su base di formazione permanente, e aperti a contributi di non-giuristi, mi pare essenziale.

 

13. Quanto a possibili consigli immediati, si può azzardare qualche considerazione relativa alla scrittura “narrativa” del testo.

 

14. Al netto di quegli elementi meramente ordinatori richiesti dall’articolo 546 cpp (indicazioni delle parti, ecc.) la sentenza “racconta” un fatto (o più fatti), interroga l’interprete/giudicante sulla rispondenza dello stesso a uno schema concreto delineato nell’imputazione, e, in caso di risposta positiva, alla fattispecie astratta evocata. In caso di risposta positiva (ma anche negativa, ove ci si muova in ambito di modifica del nomen juris), il giudicante è chiamato – laddove se ne profili l’eventualità – a pronunciarsi sull’imputabilità, e, in caso di risposta positiva, ad irrogare/comminare/applicare la sanzione. In caso di risposta negativa alla domanda della rispondenza del fatto contestato al fatto ricostruito dal giudicante, lo stesso sarà chiamato a rendere ragione, appunto, di questa non corrispondenza. Lo schema sintetico così delineato, arricchito dalla doverosa narrazione delle prospettazioni delle parti, è di fatto, come si diceva, ripercorso dall’articolo 546 cpp laddove indica il percorso che si dovrebbe seguire nella stesura della sentenza.

 

15. Un esempio concreto. Nella città di XX scompare una donna. Si accerta che costei intratteneva plurime relazioni sentimentali con svariati individui. Costoro vengono sentiti, e si indaga sul loro conto. Fra tutte, balza all’attenzione degli inquirenti la figura di YY, che rende versioni discordanti sui suoi rapporti con la scomparsa. Ma nonostante perquisizioni, intercettazioni, interrogatorio, per oltre un anno nessuna prova viene raggiunta, e la donna resta introvabile. Finché non si viene a sapere che YY dispone di altri locali, mai perquisiti prima. Si procede ad accesso e viene ritrovato il cadavere della vittima, seppellito in una cantina di pertinenza di YY. Costui infine ammette di aver seppellito la donna, ma non di averla uccisa. La sua versione: lei muore dopo una lite e lui, colto dal panico, la seppellisce. Per giunta, tramite i suoi difensori, allega un disturbo mentale che ne avrebbe compromesse le capacità di intendere e di volere al momento dell’accaduto. Il processo si celebra con rito ordinario davanti alla Corte d’assise. Il thema decidendi riguarda: le cause del decesso (morte accidentale o omicidio?) e l’imputabilità. Ebbene: quanto da me riferito circa il fatto in 15 righe occupa una sentenza di oltre 150 pagine. Detratta la parte motiva, il semplice racconto del fatto, preceduto da una lunga esposizione del “diario del processo” (inclusi nomi e cognomi di tutti i testimoni sentiti udienza per udienza, inclusi gli irrilevanti) occupa numerose pagine. Ma ciò che più stupisce è che la notizia relativa alla scoperta del cadavere della sventurata vittima giunga a pagina 59. Il lettore dunque, e anche il destinatario, per circa un terzo dell’elaborato non sa ancora che il corpo è stato rinvenuto, ed è indotto a pensare che si tratti di un processo indiziario, se non di un caso di morte presunta. Quanto alla difesa, l’atto d’appello non è da meno: nella prima parte riproduce la sentenza (!) elencando le parti critiche, con notazioni relative ad aspetti marginali e del tutto irrilevanti. E quando infine si decide ad affrontare i veri temi (imputabilità, prova scientifica) lo fa con lunghe e verbose pagine nelle quali due o tre concetti base vengono ripetuti ossessivamente più e più volte.

 

16. La sentenza, e l’atto d’appello che nel precedente paragrafo vengono criticati, rispondono tuttavia ai criteri di legge. Sono testi corretti dal punto di vista dell’esposizione del fatto e della logica decisionale. Non rispettano la raccomandazione sulla “concisa” esposizione del fatto. E da ciò, a cascata, discende tutta la restante farraginosità.

 

17. Se si prende come esempio (in negativo) questa sentenza, si può ipotizzare uno schema espositivo che risponda ai criteri di chiarezza e sinteticità:

  1. Il giorno (...) nella città di (...) alle ore (...) scompare la signora ZZ.
  2. Fra le persone sospettate c’è il signor YY che rende versioni discordanti.
  3. Le indagini non approdano a nulla finché non si scopre, in una cantina di sua pertinenza, il cadavere di ZZ.
  4. YY si difende asserendo ecc. ecc..
  5. Il giudice ritiene non provata la versione di YY per i seguenti motivi:
    e1. cause della morte;
    e2. rapporti fra vittima e imputato;
    e3. mendacio dell’imputato, e via dicendo.
  6. Posta la responsabilità, YY sostiene di versare in condizione di infermità mentale... . Il giudice ha disposto perizia psichiatrica che ha dato i seguenti esiti... .
  7. Pena e sua determinazione.

 

18. Si tratta, in sostanza, dello schema dell’articolo 546 cpp, innervato da una consapevole gestione di elementi di chiarezza (raccontare in modo che tutti capiscano) e sinteticità (raccontare ciò che serve e niente di più). Che tutto questo si possa insegnare come gli algoritmi o la lingua greca continuo a non crederlo. Che si possa insistere e insistere e insistere finché non diventi patrimonio condiviso, questo lo credo fortemente.

 

19. Una notazione sul rapporto fra sentenza (testo tecnico) e scrittura creativa. Bene. Se immaginiamo una struttura narrativa classica (dallo pseudo-Aristotele alla manualistica in voga nelle università americane, passando per Bettelheim, Galvano della Volpe e Joseph Campbell) noteremo che la struttura classica si articola in tre atti. Nel primo atto (A) vengono presentati i personaggi, di solito protagonista e antagonista; nel secondo atto (B) si sviluppa il conflitto fra A e B; nel terzo atto A o B trionfano. Uno schema elementare, che naturalmente nella grande narrativa è decisamente più complicato, ma dal quale non si può prescindere se si vuole tentare di costruire un corpus di regole condivise. E allora, riportando il discorso alla nostra sentenza: A sarà il racconto del “fatto”. B sarà la spiegazione di come i due contendenti – nel processo penale Accusa e Difesa – leggono e interpretano questo fatto, alla luce del dettato normativo e C sarà il momento della risoluzione del conflitto: il giudice sancirà l’affermazione della tesi accusatoria ovvero di quella difensiva, e la sua motivazione sul punto costituirà quella che, in termini narratologici, è la risoluzione dei conflitti.

 

20. Qualche considerazione, infine, sull’impatto sociale (possibile) di decisioni scritte in modo corretto, conciso, comprensibile. Nella costruzione mentale di molti di noi (mi riferisco soprattutto ai colleghi di Md, con i quali ho affinità sin dal mio ingresso in magistratura, nel 1984) la redazione del “giusto” provvedimento è parte di quel progetto culturale di costruzione del “nuovo” modello di magistrato che, sin dall’epoca in cui si gettarono le fondamenta di Md, è uno degli obbiettivi centrali. Il giudice calato nella società, contrapposto alla tradizionale torre d’avorio. Le nostre profonde convinzioni hanno fatto di noi degli illuministi di ritorno. L’idea è che il “nuovo” modello di giudice sia non solo più accettabile, per la collettività, ma che contribuisca a migliorarla. Un miglior giudice per una società migliore. Percorso analogo a quello seguito nel tempo dalla psichiatria democratica, dalla stessa medicina democratica, dalla scuola del post- sessantotto, dalla Chiesa conciliare. L’idea che scardinando la tradizionale separatezza, avvicinandosi quanto più possibile a forme di comprensione e condivisione reciproca si possa migliorare tutti insieme. Magari non convincere l’ergastolano che la sua pena è giusta, ma almeno a rispettare chi gliel’ha inflitta (come racconta Fassone nel suo bellissimo volume «Fine pena: ora»). E qualcosa di analogo sta accadendo con il vasto tema della giustizia riparativa: l’idea che una soluzione condivisa sia preferibile all’imperio, che parti tradizionalmente avverse possano avvicinarsi, che la strada maestra, insomma, non sia necessariamente quella del conflitto portato alle estreme conseguenze. Lo definisco “pensiero illuminista” perché presuppone una prevalenza della ragione sul sentimento, o almeno la capacità di sentimenti meno estremi – la resilienza, per usare una categoria un po’ in via di oblio – di eclissare quelli più ingovernabili (l’odio, il rancore). E qui scatta la domanda: la strada del nuovo giudice ha funzionato? Questo modello è stato preferito dalla collettività al precedente?

 

21. E qui, riflettendo sull’attuale stato delle cose la risposta non può che essere problematica. Questo modello di giudice ha raccolto qualche consenso, ma anche molto dissenso. E in questa fase storica sembra decisamente essere in crisi. Non è solo questione di gradimento, indici statistici, della guerriglia ormai diuturna con gli altri poteri. È qualcosa di più indefinito e di terribile che percepisci nelle parole come nella prossemica. Lo zeitgeist, lo spirito del tempo ostile. Ed è fatale che ciò provochi una risposta di chiusura, di arroccamento, una risposta d’antan. Se migliorando non si migliora il contesto, perché darsi tanta pena? Non è meglio piuttosto concentrarsi “tecnicamente” sul proprio lavoro (come se la tecnica, ogni tecnica, fosse neutra!) e tornare all’antico? C’è molta frustrazione, in queste prese di posizione, spesso diffuse fra i giovani colleghi. Ma in molti sono convinti che un’interpretazione meno aperta e più tradizionale (diciamo così, impropriamente, ma per rendere il senso) del ruolo aiuti, se non altro, a campare più serenamente. Ed ecco che lo sforzo di scrivere una migliore sentenza appare, a tanti, superfluo. Inutile. Mi sento spesso ripetere da giovani colleghi o aspiranti tali: ma io devo convincere il giudice di appello o la Cassazione, mica l’imputato o il popolo in generale. Ho tanti adempimenti ai quali rispondere, non posso certo perdere tempo col bello stile, e via dicendo. Sino a pronunce ancora più radicali: ma è inutile sforzarsi per essere “capiti” se si vive in un contesto in cui nessuno vuole davvero capirti.

 

22. Mi viene in mente, al riguardo, una bellissima pagina in un recente romanzo americano, Benedizione, di Kent Haruf. È una storia ambientata poco dopo l’11 settembre 2001, in una piccola città. Il pastore tiene in chiesa un sermone evocando il discorso della Montagna. Prima minaccia il castigo divino sui nemici dell’America, con parole d’odio. E dice: quando Gesù parlava di porgere l’altra guancia, sbagliava. Non sapeva quello che diceva. Oppure, usava una metafora, non dovete prenderlo alla lettera. I fedeli sono sconcertati, ma sembrano apprezzare. Sono americani, sono appena stati colpiti dai terroristi, sono gonfi d’odio. Ma il pastore ha teso loro una trappola. Perché dopo averli scossi in questo modo, con apparente, ma ben costruita contraddizione, si corregge: e se invece Gesù dovessimo prenderlo alla lettera? Se la strada giusta fosse proprio quella della non-violenza? Se per spezzare la spirale dell’odio fosse necessario invertire la tendenza? I fedeli non lo capiscono, e soprattutto non vogliono capirlo. Indignati, abbandonano la chiesa. Qualcuno, nei giorni successivi, lo affronta per strada e lo picchia. È un nemico dell’America, vuole arrendersi ai terroristi.

 

23. Quando ho letto questo capitolo di Haruf, mi sono immediatamente chiesto: il pastore non ha fatto breccia nell’animo dei suoi fedeli perché è apparso troppo freddo, o dogmatico, o enfatico? Se avesse parlato meglio, lo avrebbero capito meglio? Lo avrebbero accettato? Se avesse scritto meglio la sua “sentenza”, sarebbe stato compreso? Credo di no. E così crede anche lo scrittore, che fa riflettere il suo personaggio: questo Cristo che semina dubbi, la gente non lo capisce. La gente vuole sentire un sermone rassicurante, poi tornare a casa, arrostire due bistecche al barbecue, bersi la propria birra e dire: che bella funzione ha tenuto oggi il pastore! Come parla bene! Si scoprirà poi che il pastore è recidivo: era stato mandato via da un’altra città per essersi pubblicamente speso contro le discriminazioni nei confronti degli omosessuali. Il problema non è “come” il pastore afferma le proprie convinzioni. Il problema “sono” quelle convinzioni. E se il pastore incontra una forte opposizione alle sue idee in tema di pacifismo e tolleranza “gender”, oggi il modello di giudice alternativo alla torre d’avorio incontra una forte opposizione nella collettività e notevoli resistenze all’interno della classe togata perché è fatalmente vettore di idee esse stesse oggetto di serrata critica: a partire dal garantismo, passando per il diritto penale minimo, sino all’estremo della tutela di valori che sino a pochi mesi fa consideravamo acquisiti e che ora appaiono quanto meno controversi, come insegnano le recenti vicende delle proposte di modifica della legittima difesa e della protezione umanitaria.

 

24. È dunque davvero comunicare è uno sforzo inutile? Una sentenza trasandata sciatta superficiale poco comprensibile ma capace di “tenere” in Cassazione perché formalmente ineccepibile equivale a una bella sentenza concisa e sintetica e completa perché tanto chi ha perso maledirà comunque e chi ha vinto, ritenendosi nel giusto, passerà con indifferenza all’incasso? No, certo che no. Passato lo sconforto, si può tornare a leggere Haruf in un modo diverso. Il pastore sa che le sue parole rischiano di essere impopolari, eppure non si astiene dal pronunciarle. A ben vedere, due o tre fedeli, una minoranza, certo, restano ad ascoltarlo, e sono colpiti. E poi la fase acuta passerà, e ci sarà da rimboccarsi le maniche e ricostruire. Meglio, allora, portarsi avanti col lavoro. Perciò il compito del pastore non è inutile, anche se sul breve periodo può apparire come tale. Perciò il dovere del giudice di rendere la migliore motivazione possibile non può mai essere negletto. Anche se, a volte, appare inutile, la sua utilità si misura in un tempo che non è quello delle passioni immediate. È un’utilità da considerare, come avrebbero detto gli antichi, frigido pacatoque animo. Nell’era dei social può apparire impossibile, o vano, ma ci si deve comunque provare.