Magistratura democratica

Comunicazione della Procura della Repubblica: una garanzia anche per l‘imputato

di Giuseppe Pignatone

L’esercizio in concreto di un incarico direttivo in terra di mafia rende particolarmente consapevoli del dovere di comunicare per raggiungere i fini istituzionali dell’amministrazione della giustizia. Occorre “rendere conto” per consentire ai cittadini di esercitare il controllo sociale quale necessario contrappeso all’indipendenza e all’autonomia della magistratura. Ovviamente l’interlocuzione pubblica deve avere quale unico ed esclusivo scopo quello di comunicare la giustizia al cittadino, evitando di inquinare con interessi estranei (del magistrato o di terzi) tale finalità di interesse generale. Senza dimenticare che nel momento in cui viene meno il segreto investigativo, le risultanze delle indagini offrono alla pubblica opinione e al dibattito democratico una massa di conoscenze che possono essere utili o addirittura preziose. Si pensi al contributo che alla crescita sociale e civile del nostro Paese hanno dato le indagini sulle mafie e sulla corruzione. Compresi quei dialoghi o quei filmati che una volta depositati sono diventati patrimonio conoscitivo della società: dalla documentazione dell’omaggio ai boss alla Madonna di Polsi alla riunione dei vertici della ‘ndrangheta lombarda a Paderno Dugnano, dalla richiesta e dal pagamento di tangenti in varie parti d’Italia alle conversazioni tra i capi delle organizzazioni mafiose e gli appartenenti all’“area grigia”. Non vi è dubbio infatti che anche questa è comunicazione della giustizia.

Per moltissimi anni ho ritenuto che il magistrato, anche il pubblico ministero, dovesse parlare solo attraverso i suoi provvedimenti.

Quando però, nel 2008, ho assunto la carica di procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, mi sono ben presto reso conto che il problema della comunicazione era molto più complesso di quanto avessi fino ad allora considerato, e importante – se non fondamentale – proprio per il raggiungimento dei fini istituzionali, della Procura e dell’Amministrazione della giustizia più in generale. In una terra dominata dalla ‘ndrangheta, ma nella quale quasi nessuno parlava di ‘ndrangheta, evitando persino di pronunciarne il nome; in una terra lontana, in tutti i sensi, da Roma e dal resto del Paese, in una Regione minata da una gravissima sfiducia nello Stato e nei suoi organi, in quella terra diventava vitale comunicare quello che noi, rappresentanti di una istituzione, facevamo, perché lo facevamo, con quali limiti e con quali finalità agivamo. Da qui la scelta di indire frequenti conferenze stampa per rimarcare la presenza dello Stato, illustrare gli sforzi compiuti, i successi conseguiti, gli obiettivi ancora non raggiunti; occasioni pubbliche per ringraziare e gratificare le forze di polizia che operano in condizioni difficilissime, per ribadire la volontà di non riconoscere zone intoccabili, i cosiddetti “santuari” della politica e della Pubblica amministrazione. Uno sforzo per tentare di rompere il “cono d’ombra informativo” sulla ‘ndrangheta, un cono d'ombra funzionale in primo luogo proprio agli interessi dell’organizzazione mafiosa. Accettando, ovviamente, nel fare ciò, di esporci a critiche (legittime) e ad attacchi personali (molto meno) cui il ruolo rivestito o l’opportunità hanno quasi sempre imposto di non replicare.

 

Ho voluto ricordare la mia esperienza personale e il caso-limite, per tanti aspetti, di Reggio Calabria, per spiegare concretamente perché penso che noi magistrati abbiamo non solo il diritto, ma anche il dovere di “comunicare la giustizia”, cioè di non restare chiusi nel segreto delle nostre stanze (o in quella volontaria turris eburnea di cui a volte si sente favoleggiare) e di sottoporre, al contrario, il nostro operato al controllo sociale, cioè al giudizio dei cittadini, di quel popolo nel cui nome la giustizia viene amministrata. E – direbbero gli anglosassoni – del contribuente il cui denaro (non molto, in verità) spendiamo.

Il controllo sociale è un necessario contrappeso all’indipendenza e all’autonomia della magistratura, un meccanismo salutare che non va ignorato né minimizzato rinserrandosi in una sorta di fortino istituzionale malamente inteso, impermeabile alla critica e che resista a ogni assedio, magari ricorrendo a un linguaggio comprensibile solo agli addetti ai lavori (e anche su questo specifico aspetto sarebbe opportuno uno sforzo per rendere più chiari e leggibili i nostri atti, pur con la loro inevitabile dose di tecnicismo).

D’altra parte, è impensabile che in una democrazia i cittadini non abbiano il diritto di sapere perché – tanto per fare esempi banali – sia stata tratta in arresto una persona che rivesta una carica pubblica, che cosa si stia facendo per scoprire gli autori di un delitto eclatante o i responsabili di una vicenda economico-finanziaria che abbia danneggiato migliaia di persone. Per non parlare dei delitti riconducibili a mafia o terrorismo.

Come dice Glauco Giostra, «l’accesso della pubblica opinione alla giustizia penale non si pone in termini di opportunità, ma di necessità politica: per un ordinamento democratico moderno, prima ancora di essere utile una giustizia pubblica, è inconcepibile una giustizia segreta. Sottratta a una efficace forma di controllo della società, la repressione penale, che è il più incisivo mezzo di controllo sulla società, sviluppa fatalmente l’aspetto deteriore di quella politicità che le è connaturale, divenendo torbido strumento di affermazione di parte. Il valore della pubblicità della giustizia penale, quindi, non va misurato soltanto sugli effetti che essa in concreto propizia, ma sulla gravissima involuzione civile e democratica che la sua assenza comporterebbe»[1].

Sottoporsi al controllo sociale è un aspetto del principio di responsabilità che vale per chiunque eserciti un potere. E comprende in sé l’accettazione del dissenso e delle critiche. In sostanza anche il binomio giustizia-informazione è uno di quei giochi di pesi e contrappesi che caratterizzano una democrazia. Ed è evidente che anche in questo caso si confrontano numerosi e diversi interessi di rango primario che devono trovare un punto di equilibrio che resterà comunque – direi inevitabilmente – sempre precario e mutevole. Basti pensare alle norme della Costituzione che rilevano in questa discussione: dalla libertà di manifestazione del pensiero e quindi libertà di informare ed essere informati, al diritto di difesa, al giusto processo, al principio che la giustizia è amministrata in nome del popolo fino alle disposizioni sullo statuto dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero ed al diritto alla riservatezza.

Naturalmente – e questa notazione vale in particolare per gli uffici di Procura –l’interlocuzione pubblica deve avere quale unico ed esclusivo scopo quello di comunicare la giustizia al cittadino, evitando di inquinare con interessi estranei (del magistrato o di terzi) tale finalità di interesse generale. Occorre in ogni modo evitare di rincorrere il consenso popolare, di perseguire un’immagine mediatica a fini di promozione personale o di creare assi privilegiati tra uffici o singoli magistrati e una o più testate giornalistiche. Anche se è bene non dimenticare, per non gettare la croce solo su una parte, che soltanto dopo vent’anni abbiamo saputo come ai tempi di Tangentopoli i direttori dei quattro principali giornali italiani si telefonavano ogni sera per stabilire il titolo di prima pagina dell’indomani e i temi cui dare risalto, quelli da minimizzare, quelli su cui tacere. All’unisono.

L’esistenza di un interesse pubblico a comunicare la giustizia è inoltre riconosciuto a livello europeo da moltissimi documenti che si occupano pure di affrontare il passo successivo, cioè “come” debba avvenire questa comunicazione.

Per brevità, cito solo la dichiarazione di Bordeaux del 2009, frutto del lavoro congiunto dei rappresentanti di giudici e pubblici ministeri europei: «[…] è altresì interesse della società che i mezzi di comunicazione possano informare il pubblico sul funzionamento del sistema giudiziario. Le autorità competenti dovranno fornire tali informazioni, rispettando in particolare la presunzione di innocenza degli accusati, il diritto a un giusto processo e il diritto alla vita privata e familiare di tutti i soggetti del processo. I giudici e i magistrati del Pubblico ministero debbono redigere, per ciascuna professione, un codice di buone prassi o delle linee-guida in ordine ai loro rapporti con i mezzi di comunicazione» (par. 10)[2].

Sulla scia di queste ripetute prese di posizione a livello europeo, il Consiglio superiore della magistratura ha emanato di recente, il 13 luglio 2018 delle «linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale», che contengono anche previsioni specifiche per gli uffici di Procura, su alcune delle quali tornerò alla fine.

Prima, credo che possa essere utile qualche precisazione su alcune questioni che condizionano il dibattito sul tema. Questioni che possono prestarsi a equivoci talora solo terminologici, più spesso concettuali, e che comunque creano difficoltà a un confronto pacato e proficuo tra posizioni diverse.

1) Il processo mediatico, pane quotidiano di ogni talk show televisivo, nulla ha a che vedere con la comunicazione della giustizia nel senso che qui cerchiamo di comprendere e illustrare.

2) Sullo stesso tema della comunicazione correttamente intesa, corre una profonda differenza tra la fase delle indagini e quella del processo. Con ogni evidenza, nella prima fase la Procura non dispone della verità, nemmeno di quella particolare e parziale costituita da una sentenza. Noi, quindi, possiamo (anzi: dobbiamo) limitarci a comunicare quanto possibile sulla ricerca della verità (processuale), quindi una verità in formazione, sfuggente, in continuo divenire, fisiologicamente destinata a mutare da un giorno all’altro. Specie per le indagini più importanti, l’attesa e la ricerca spasmodica da parte dei media di nuove informazioni o di brandelli di notizia creano intorno all’inchiesta, e all’Ufficio che la conduce, un clima di forte pressione, che sembra pretendere un flusso comunicativo continuo tale da configurare – parafrasando il titolo di una vecchia trasmissione radiofonica –  «tutta l’indagine minuto per minuto». In questi casi è indispensabile che i depositari degli esiti degli accertamenti svolti sappiano resistere a questo particolare genere di pressione (e anche rassegnarsi al fatto che verranno pubblicate notizie distorte o inventate di sana pianta).

3) Si sente ripetere, anche in sedi autorevoli, che il problema fondamentale alla base del “circo mediatico-giudiziario” è costituito dalle “fughe di notizie”. Bisogna intendersi. Se a qualcuno – mafioso, criminale comune o colletto bianco – sottoposto a indagini viene detto: guarda che hai una microspia nell’ufficio, hai il telefono sotto controllo, sei pedinato, questa è una fuga di notizie. O, a voler essere precisi, una rivelazione di notizie coperte dal segreto investigativo (articolo 326 cp), che costituisce un reato da perseguire. Così come questo stesso delitto si configura nei casi, molto più rari, in cui sugli organi di informazione vengono pubblicate notizie veramente sottoposte a segreto. Ma non è questo il fenomeno cui si riferiscono quanti quotidianamente sollevano accese (e spesso pretestuose) polemiche che hanno, invece, per oggetto la pubblicazione sui mezzi di informazione di notizie asseritamente segrete. Naturalmente in entrambi i casi prima indicati in cui siamo in presenza di un reato, grave, si avviano le indagini possibili, ma raramente con esito positivo, sia per il numero delle persone che sono necessariamente a conoscenza delle informazioni (magistrati, personale amministrativo e di polizia giudiziaria, in numero tanto più elevato quanto più sono complesse le indagini oggetto di rivelazione), sia per la facilità con cui le informazioni e anzi gli stessi documenti possono oggi essere veicolati grazie alle moderne tecnologie.

E tuttavia è molto più probabile, come emerge dall’esperienza di qualunque ufficio di Procura, ottenere risultati positivi nel primo caso, (le rivelazioni a favore di un indagato) perché le indagini possano continuare, magari allargando il cerchio delle persone sottoposte ad accertamenti e intercettazioni per il reato per cui già si procede, che non nel secondo caso, in cui la pubblicazione della notizia mette tutti i soggetti sul “chi va là”, nel quale non è possibile disporre intercettazioni per il delitto di cui all’articolo 326 cp e in cui il giornalista è, giustamente, tutelato dal segreto professionale.

Ho detto che queste polemiche sono spesso pretestuose perché la realtà vera, al di là delle letture di comodo, è che la pubblicazione di notizie veramente coperte dal segreto costituisce l’eccezione, una percentuale assolutamente ridotta e per esse vale quello che diceva Sciascia e cioè che queste notizie non fuggono, ma vengono consegnate e se possibile anche accuratamente confezionate. Invece ogni giorno i quotidiani – ma in realtà tutti i mezzi di informazione – pubblicano notizie che non sono coperte dal segreto, perché sono già a disposizione dei difensori (articolo 329 cp) o che segrete non sono per loro natura. Per esempio, divulgare la notizia che è in corso una perquisizione non è violazione del segreto, non può esserlo, come non lo è un invito a comparire o un'ordinanza cautelare già notificati. Alla luce di queste considerazioni vale la pena di ribadire che mentre sono continue e accese le proteste per le fughe di notizie, in realtà nella maggior parte dei casi fughe di notizie in senso tecnico non ce ne sono.

4) Altro discorso è il divieto di pubblicazione degli atti non sottoposti al vincolo del segreto. Il legislatore consente sempre la pubblicazione del contenuto di atti non (più) segreti, mentre punisce a titolo di contravvenzione la pubblicazione del testo degli stessi prima di una determinata fase processuale secondo un meccanismo assai complesso che non importa qui specificare (articolo 684 cp in relazione all’articolo 114 cpp). Secondo i lavori preparatori, la norma incriminatrice aveva la finalità di assicurare quella che nel 1989 veniva definita la “verginità del giudice”, cioè che il giudice non sapesse assolutamente nulla della questione che gli veniva sottoposta. Questa è la ratio scritta, ma è evidente che siamo completamente fuori dalla realtà, tanto più nell’era del web, caratterizzata dalla informazione globale e dalla accessibilità immediata e gratuita a qualsiasi atto su qualsiasi supporto (audio, video ecc.). Personalmente ritengo, come ho avuto modo di ribadire in altre occasioni, che l’articolo 684 del codice penale sia la spia dell’ipocrisia e della cattiva coscienza del legislatore, che mantiene l’equivoco fra tutela del segreto e divieto di pubblicazione. La violazione della norma è punita con una ammenda da 51 a 258 euro, quindi è oblabile e va da sé che qualunque organo di informazione è ben disposto a pagare poche decine di euro per uno scoop, mentre lo Stato spenderebbe molto di più anche solo per iniziare il procedimento. Viene quindi da chiedersi perché permanga questo sistema “sanzionatorio” e intanto si continui a protestare a gran voce contro violazioni del segreto per lo più inesistenti.

5) Altro tema cruciale è la (asserita) irrilevanza di molte delle notizie pubblicate cui conseguirebbe il cosiddetto “sputtanamento” dell’indagato o anche del terzo estraneo alle indagini. Anzi: per non pochi protagonisti del dibattito pubblico sul tema, questo risultato sarebbe cercato e voluto dal pubblico ministero e/o dalla polizia giudiziaria che conducono le indagini, per dare rilievo al loro lavoro (e a se stessi) o – peggio – per conseguire risultati non raggiungibili nei limiti del processo. Sarebbe ipocrita negare che qualche volta ciò sia avvenuto, così come esistono le rivelazioni di notizie segrete ai giornali e va fatto ogni sforzo per identificare e punire i responsabili, sul piano penale o disciplinare. Ma anche in questo ambito bisogna avere chiari i termini e le dimensioni della questione. Il punto fondamentale, soprattutto per quanto riguarda le Procure, è la marea di fatti e di notizie che oggi vengono acquisite durante un’indagine. Questo non è merito né colpa di nessuno, ma è un dato oggettivo che origina da diverse circostanze. La prima è che – per semplificare – ormai i procedimenti non hanno per oggetto il furtarello alla Standa, ma questioni sempre più delicate e complesse, che toccano tutti gli aspetti della vita sociale.

Per altro verso, la quantità di informazioni che vengono acquisite deriva dagli strumenti utilizzati, le intercettazioni innanzitutto. È chiaro, infatti, che le intercettazioni – a maggior ragione quelle ambientali o telematiche – fanno emergere una mole di notizie e informazioni molto più ampia e diversificata di quelle che potevano o possono risultare dalle dichiarazioni di un testimone, cui viene chiesto di riferire sul fatto oggetto del procedimento.

Ma c’è un ulteriore aspetto da non dimenticare quando, nelle considerazioni ex post, si afferma che una data notizia o circostanza nulla ha a che vedere con le contestazioni e le successive imputazioni. Polizia giudiziaria e pubblico ministero non possono sapere all’inizio quale direzione prenderà il procedimento avviato o dove arriveranno e che cosa troveranno le indagini. Possono sapere che cosa cercare, questo sì, il che porta a percorrere legittimamente – per esempio con intercettazioni autorizzate dal gip – più piste investigative, acquisendo materiale di indagine che in un primo momento appare irrilevante e di cui solo successivamente si comprende l’importanza; o che, al contrario, magari sarà poi oggetto di una richiesta di archiviazione o di una richiesta di condanna non accolta in una delle fasi processuali, ma la cui acquisizione era assolutamente giustificata nel momento in cui è avvenuta.

Inoltre, lo stesso materiale di indagine può essere irrilevante per il pubblico ministero, ma rilevante o addirittura essenziale per altre parti (le quali, peraltro, hanno spesso interessi tra loro in conflitto). Sulla valutazione di rilevanza processuale hanno dunque diritto a interloquire tanto il pubblico ministero quanto i difensori ed è proprio il mettere gli atti a disposizione dei difensori che, nel regime normativo attuale, fa venir meno il segreto. Né, certamente, si può sacrificare il diritto di difesa lasciando al solo pubblico ministero questa valutazione.

6) Altro, e diverso, problema è quello della rilevanza dal punto di vista della pubblica opinione della notizia acquisita tramite le indagini, magari in modo del tutto occasionale e del tutto estranea al tema processuale, ma comunque non più segreta, Ed è proprio questa diversa rilevanza che può determinarne la pubblicazione.

Su questo punto bisogna essere chiari. Tranne poche eccezioni (per esempio, la posizione pressoché isolata del giornalista del Corriere della Sera Luigi Ferrarella, secondo cui la violazione del segreto potrebbe essere giustificata solo se fossero in gioco i valori essenziali della nostra società), tutti gli operatori dell’informazione rivendicano il loro diritto assoluto ed esclusivo a decidere cosa è di pubblico interesse e cosa no, ai fini della pubblicazione. Questo è ciò che avviene puntualmente ogni giorno. Una volta che il segreto viene meno, la scelta di che cosa pubblicare o non pubblicare, e con quali modalità e rilievo, non è più del pubblico ministero (o della polizia giudiziaria) ma dei media.

Sappiamo tutti – anche se troppo spesso qualcuno finge di non sapere – che la scelta delle notizie da pubblicare e, ancora di più, del rilievo da dar loro, non dipendono in larghissima misura dal pubblico ministero ma dagli organi di informazione (lungo l’asse giornalista-direttore, e a volte editore). Scegliere di mandare per un mese un inviato o una troupe a Cogne o ad Avetrana o a seguire il caso delle cd. baby squillo invece che al processo su un affare economico, imprenditoriale o di mafia complicatissimo è una scelta che non dipende dal procuratore della Repubblica. Quanto alla presentazione delle informazioni, è facile constatare come la stessa notizia (una richiesta di archiviazione, un rinvio a giudizio o un semplice avviso di garanzia) viene trattata, legittimamente, in modo del tutto diverso e seconda dell’orientamento e delle letture contrapposte dai diversi organi di informazione.

Anche in questo caso, non si intende negare che vi siano casi patologici costituiti da un asse privilegiato tra singoli magistrati o altre figure della filiera giudiziaria e un organo di informazione che perciò abbia, ripetutamente, in esclusiva, notizie, anche segrete, relative a determinate indagini; ma si tratta, appunto, di una patologia che deve essere censurata, e se possibile sanzionata, ma che non giustifica, a mio parere, generalizzazioni come quelle cui troppo spesso assistiamo.

7) Ancora una riflessione: l’esperienza dimostra che il pubblico ministero “dà le carte”, se così si può dire, nelle prime ore dopo l’esecuzione di un provvedimento. Ed è persino ovvio che sia così: è il pubblico ministero che, con la polizia giudiziaria, conosce le carte ed è quindi vero che in quel particolare momento egli sia il solo in grado di dare una lettura di una vicenda e anche di indicare i punti secondo lui essenziali, visto che su quelle carte ha lavorato, magari, per anni. Ma è una questione di ore: subito dopo, questo “monopolio” cessa e comincia il “gioco” delle fonti, tutte a vario titolo e in vario modo interessate, spesso anche tra loro confliggenti.

Quando, invece, non c’è l’esecuzione o la notifica di un provvedimento, il monopolio iniziale delle informazioni, e quindi la possibilità di “dare le carte”, appartiene di regola ad altri soggetti. Sono casi numerosissimi e importantissimi, anche se normalmente non ci facciamo caso perché tutti sono concentrati soltanto su ciò che viene pubblicato dai media dopo un arresto.

Questo fenomeno si nota meno – per restare alle mie esperienze personali – in uffici come Palermo o Reggio Calabria, dove contano soprattutto i processi di mafia che sfociano in arresti, basati su intercettazioni e dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Le cose cambiano in uffici come Roma, Milano o tanti altri, in cui moltissime indagini non sfociano in arresti e moltissimi procedimenti nascono su impulso di parte. In questi contesti, la fonte della notizia che i giornali traducono (con un’espressione che ogni volta mi causa un enorme fastidio) in «la Procura ha acceso un faro» su questo o su quello, nel 90% dei casi non è affatto il sostituto, l’aggiunto o il procuratore che avrebbero «acceso il faro». L’input ai media proviene molto più facilmente (e non senza logica) da chi vuol far sapere di aver sporto la denuncia o presentato l’esposto, per scopi che possono essere politici, economici, di contrasto alla realizzazione di un’opera pubblica, o magari solo per danneggiare, già mediante la pubblicazione della notizia, la reputazione del denunciato.

Anche di questo dobbiamo tenere conto: esistono pratiche di manipolazione dell’opinione pubblica, spesso insidiose e pericolose; addirittura con il ricorso all’intervento di agenzie internazionali di pubbliche relazioni che – e questa è esperienza diretta – hanno costruito vere e proprie campagne di disinformazione, purtroppo a volte con successo.

8) Un’ultima considerazione mi sembra necessaria: per ragioni che si spiegano con la storia del nostro Paese, indagini e processi penali sono stati troppo spesso uno strumento di lotta politica. Cito in proposito Luciano Violante, ma si tratta di valutazioni largamente condivise: «L’avversario non è un naturale interlocutore, come vogliono le regole della democrazia, ma è un ‘ostacolo da abbattere’ […]. [...] Se la lotta politica si facesse con altri mezzi, cesserebbe l’interesse alla violazione del segreto. Non bastano le buone leggi, come diceva Machiavelli: servono i buoni costumi»[3]. E ancora «Il problema nasce dall’utilizzo delle inchieste nella lotta politica. Non è l’inchiesta in sé a essere decisiva nelle vicende politiche, ma l’uso che se ne fa». E, anzi, il problema è più generale perché non è limitato alla politica; dobbiamo infatti constatare che le notizie connesse a indagini e processi sono diventate strumento di lotta anche in altri campi – economico, finanziario sociale, persino culturale – sui quali si scontra una società divisa e conflittuale come è la nostra.

Queste puntualizzazioni mi sono sembrate necessarie per inquadrare la questione della «comunicazione della giustizia» da parte delle Procure della Repubblica, in termini meno approssimativi e confusi di quanto spesso non avvenga.

La materia è regolata, oltre che dai principi dell’ordinamento europeo richiamati all’inizio, da norme primarie come l’articolo 5 del d.lgs n. 106/2006, che riserva al procuratore della Repubblica o a un suo delegato i rapporti con la stampa, e il d.lgs n. 109/2006 che prevede il rilievo disciplinare di una serie di comportamenti tra i quali la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto di cui non è prevista la pubblicazione e la violazione del dovere di riservatezza. Il tratto comune a tutte queste ipotesi disciplinari è che sono rilevanti in quanto idonee a ledere indebitamente diritti altrui.[4]

In realtà, anche l’aspetto deontologico è estremamente complesso perché vengono in gioco principi primari dell’ordinamento a cominciare da quello della libertà di pensiero. Prova della delicatezza di questa questione è data da una sentenza della Suprema corte sul caso di un sostituto della procura della Repubblica per i minori di Milano che era stato in un primo momento sanzionato disciplinarmente dal Csm perché, dopo una dichiarazione estremamente critica del Ministro degli interni in Parlamento sull’operato suo e del suo ufficio, era intervenuto pubblicamente dando i chiarimenti del caso. Le Sezioni unite hanno affermato che la tutela dei magistrati contro denigrazioni diffamatorie, oltre che compito del Csm, «è diritto di ogni magistrato ed è anche un dovere istituzionale al quale non si può abdicare poiché la credibilità dell’istituzione giudiziaria e la fiducia dei cittadini nella sua imparzialità sono una garanzia assoluta della vita democratica»[5]. Quindi ha ritenuto che in quel caso il magistrato avesse agito non solo nell’esercizio di uno stato di necessità di difendere il proprio onore, ma addirittura nell’adempimento del dovere.

Non è possibile, in questa sede, esaminare dettagliatamente le linee-guida emanate di recente dal Csm. È però opportuno rilevare che il Consiglio – superando le rigidità della precedente normativa secondaria e le incertezze della prassi – nel ribadire ovviamente che la responsabilità dei rapporti con la stampa è del procuratore della Repubblica che può delegarli, anche per specifici ambiti di attività a uno o più magistrati, ha recepito il modello positivo di molti uffici requirenti che prevede forme articolate di comunicazione: dalle conferenze stampa vere e proprie nei casi di maggior rilievo, agli incontri informali del magistrato, di solito un procuratore aggiunto, che segue uno specifico settore, per illustrare le linee generali di un provvedimento, già pubblico, che segna un momento significativo di una indagine importante; dai comunicati stampa che danno sommariamente notizia delle attività della polizia giudiziaria ai comunicati ufficiali per precisazioni – di solito smentite, per la verità – che appaiono meritevoli di una specifica trattazione per il loro rilievo sociale ed economico, allorquando una notizia non smentita possa essere ritenuta vera e sia suscettibile di causare danno a terzi o abbia effetti di rilievo istituzionale. 

Poi, naturalmente – inutile nascondersi dietro un dito – è chiaro che c’è una trama, più o meno fitta, di rapporti fra i singoli magistrati e giornalisti in relazione ai processi i cui atti sono diventati pubblici e che peraltro trovano un contrappeso nei rapporti che gli stessi giornalisti hanno con le altre parti del procedimento. Però questo contatto rimane informale nel senso che non può né deve sfociare in dichiarazioni rese da magistrati diversi da quelli legittimati a farle.

Da quanto ho fin qui esposto, è evidente che ritengo del tutto inutile che una Procura della Repubblica si doti di un ufficio stampa che potrebbe dare solo le notizie contenute negli attuali comunicati, nella maggior parte dei casi del tutto insufficienti (per i giornalisti).

Ciò che mi sembra essenziale, e su cui giustamente insiste lo stesso Csm, è, da parte dei magistrati, assicurare la par condicio tra gli operatori dell’informazione. È indispensabile evitare i canali preferenziali sulle notizie, specie le più importanti (poi ci sono anche quelle di interesse meramente locale o settoriale), «evitando canali informativi riservati e ogni impropria rappresentazione dei meriti dell’ufficio e dei servizi di polizia giudiziaria»[6].

Su questo punto, io concordo anche sulla proposta di Luigi Ferrarella, recepita in parte nel recente decreto delegato sulle intercettazioni (la cui efficacia è in atto sospesa), per mettere formalmente a disposizione dei giornalisti lo stesso materiale che viene depositato per gli avvocati nel momento in cui diventa pubblico. Naturalmente ci sono molti ostacoli da superare e molti accorgimenti da adottare, specie per la tutela dei terzi; mi sembrerebbe però un’operazione di trasparenza che contribuirebbe a evitare quei canali preferenziali unanimemente deprecati. In questa direzione c'è stato di recente una interessante presa di posizione di alcuni avvocati romani tra cui il Vicepresidente della Camera penale[7].

Quanto fin qui affermato porta anche a una possibile precisazione su come debba avvenire questa comunicazione. L’obiettivo deve essere quello di dare dell’attività giudiziaria (e alla sua organizzazione) un’immagine comprensibile, ragionevole, non condizionata dai conflitti della società purché, naturalmente, questa immagine corrisponda alla realtà delle cose. E quindi il magistrato deve essere capace di parlare in modo chiaro, ragionevole ed equilibrato, dimostrando altresì di essere a sua volta capace di ascolto.

Le «linee-guida» del Consiglio sono, come è ovvio, largamente condivisibili, anche se a volte sembrano non prendere in adeguata considerazione alcune delle circostanze di fatto illustrate nella prima parte di questo intervento.

Così, in primo luogo, sembrano ritenere che il pubblico ministero sia il detentore esclusivo delle informazioni, mentre la realtà quotidiana dimostra che la parte di gran lunga maggiore delle notizie importanti sono date dai giornalisti, con le modalità e il rilievo che essi (e non il pubblico ministero) scelgono, dopo aver avuto copia di atti non più segreti, i quali a loro volta sono stati redatti, peraltro non solo dal pubblico ministero, ma anche da altri soggetti, a cominciare dalla polizia giudiziaria e dal gip, in relazione alle loro finalità processuali e non certo per diventare oggetto di comunicazione (salvo, ripeto, i casi patologici di cui si è già detto).

Con questa avvertenza sono certamente condivisibili le indicazioni di:

  • evitare ogni ingiustificata comunicazione di dati sensibili (punto 2, lett.b, n. 1);
  • garantire particolare tutela alle vittime e alle persone offese, adottando tutte le misure utili ad evitare l’ingiustificata diffusione di notizie e immagini potenzialmente lesive della loro dignità e riservatezza (punto 2, lett.b, n. 4 seconda parte);
  • cercare la massima, possibile spersonalizzazione della comunicazione (punto 3, lett. d);
  • ridurre il rischio di impropria influenza sul giudice e sul pubblico ministero (punto 3, lett. e);
  • tutelare la dignità e i diritti delle persone coinvolte nel procedimento (punto 3, lett. f).

 

Una riflessione ulteriore è infine opportuna su una delle indicazioni delle «linee-guida del Consiglio». Indicazione che peraltro riecheggia la Dichiarazione di Bordeaux citata all’inizio e che ci consente di riepilogare efficacemente alcuni punti già esaminati: «È assicurato il rispetto della presunzione di non colpevolezza; va quindi evitata, tanto più quando i fatti sono di particolare complessità o la loro ricostruzione è affidata a un ragionamento indiziario, ogni rappresentazione delle indagini idonea a determinare nel pubblico la convinzione della colpevolezza delle persone indagate» (punto 2, lett. b, n. 4 prima parte).

Ribadito – come riconosce lo stesso Consiglio – che le Procure hanno il diritto e il dovere di informare, è necessario comprendere il valore e il senso dell’indicazione sopra riportata quando, e sono i casi più frequenti e rilevanti, viene data notizia di una misura cautelare, peraltro adottata dal Giudice, o di una richiesta di rinvio a giudizio.

Credo che l’indicazione consiliare debba avere riferimento al modo in cui le informazioni vengono veicolate[8], mentre nel merito la Procura resta tenuta a informare i cittadini delle ragioni per cui essa stessa, e il gip che ha emesso la misura, ritengono che nei confronti dell’indagato ci siano, allo stato, gravi indizi di colpevolezza, fermo restando il richiamo al principio costituzionale; ma la citazione nell’articolo che verrà pubblicato di questo richiamo al principio di non colpevolezza resta poi affidata alle scelte di ogni singolo giornalista. Quindi, al di là degli aspetti formali, pur importanti, il vero nucleo problematico del rapporto tra informazione, doverosa, da parte delle Procure e diritti dell’accusato sta altrove: non tanto, salvo casi estremi, nel tenore dei comunicati o delle singole comunicazioni, ma piuttosto nell’adozione di strategie scorrette e subdole, con l’organizzazione sistematica di campagne di stampa attraverso giornali “amici” cui vengono fornite informazioni privilegiate, o con l’uso improprio di fatti emersi dalle indagini per screditare l’indagato o un’altra delle parti al di là del loro rilievo processuale, in un contesto di strategie extraprocessuali o addirittura finalizzate a interessi personali.

In sostanza, il diritto dell’accusato, e anche il principio di non colpevolezza, si rispetta garantendo un processo equo e corretto anche sotto il profilo dell’informazione fornita. Con una notazione supplementare: che anche qualcuna delle altre parti potrebbe tentare di “inquinare” o “forzare” il processo per via mediatica e allora potrebbe essere necessario un intervento del pubblico ministero, nel modo più sobrio e senza polemiche, per ristabilire l’equilibrio spezzato.  

Vorrei chiudere con una considerazione su un aspetto ulteriore e diverso, dell’utilità dell’informazione sulla giustizia. Il processo, come insegna Salvatore Satta[9], non deve perseguire scopi esterni al processo stesso; le indagini e i processi si fanno per arrivare a una sentenza che affermi o escluda la responsabilità di uno o più soggetti in relazione a fatti specifici. Non si fanno, invece – è la mia opinione – per far pubblicare articoli di giornali o per riscrivere la storia. Però, nel momento in cui viene meno, secondo le regole del codice, il segreto investigativo, le risultanze delle indagini offrono alla pubblica opinione e al dibattito democratico una massa di conoscenze che possono essere utili o addirittura preziose. Specie perché, in molti casi, si tratta di elementi non acquisibili diversamente: credo che nessuno dubiti, per fare un esempio, sul contributo che alla crescita sociale e civile del nostro Paese hanno dato le indagini sulle mafie e sulla corruzione. Compresi quei dialoghi o quei filmati che una volta depositati sono diventati patrimonio conoscitivo della società: penso, per esempio, alla documentazione dell’omaggio ai boss durante la festa della Madonna di Polsi e della riunione dei vertici della ‘ndrangheta lombarda a Paderno Dugnano; o della richiesta e del pagamento di tangenti in varie parti d’Italia; o, ancora, delle conversazioni tra i capi delle organizzazioni mafiose e gli appartenenti all’ “area grigia”. Anche questa è comunicazione della giustizia. E non credo sia giusto rinunciarvi.

[1] G. Giostra, Processo penale e mass media, in Criminalia, 2007.

[2] Per una dettagliata indicazione degli interventi, anche di soft law, a livello europeo, è sufficiente rinviare alla delibera del Csm del 13 luglio 2018 che ha dettato linee-guida in tema di comunicazione istituzionale degli uffici giudiziari. Vedi anche, per un quadro di sintesi, R. Chenal, Il rapporto tra processo penale e medianella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Diritto Penale Contemporaneo, 15.11.2017, www.penalecontemporaneo.it/d/5712-il-rapporto-tra-processo-penale-e-media-nella-giurisprudenza-della-corte-europea-dei-diritti-delluo.

[3] E. Calessi, Matteo Renzi sia generoso. Candidi Gentiloni premier, intervista a Luciano Violante, Libero, 23 maggio 2017, www.liberoquotidiano.it/news/politica/12393082/luciano-violente-intervista-matteo-renzi-paolo-gentiloni-premier.html.

[4] Il Codice deontologico dell’Anm è ancora più dettagliato; il punto cruciale mi pare questo: «fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni e interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa così come in ogni scritto e dichiarazione destinati alla diffusione».

[5] Cass. Sez.un. civ., 28 gennaio 2014, ric. Fiorillo.

[6] Vedi punto 2, lett.c) delle «Linee-guida», cit.

[7] V. Comi - A. Mazzone, Informazione e tutela della privacy: e se si consentisse il diretto accesso agli atti?, in Il Dubbio, 13novembre 2018, p. 14.

[8] F.M. Pizzetti, Informazione, presunzione di innocenza e “verginità del giudice”. L’Italia e l’Europa, in L’informazione giudiziaria in Italia. Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale, Pacini srl, Pisa, 2016, p.129, sottolinea che la presunzione di innocenza «vale soprattutto a disciplinare la forma, ossia i modi, dell’informazione sui procedimenti penali in corso più che non a limitarne l’oggetto. In questo senso, quando si discute di un’informazione lesiva della presunzione di innocenza, il tema non è quello, a sua volta ben noto delle fughe di notizie, ma è soprattutto quello del linguaggio, delle modalità espositive, dei toni utilizzati».

[9] S. Satta, Il mistero del processo, Adelphi, Milano, 1994.