Magistratura democratica

Condividere un linguaggio, aprire una finestra

di Vittorio Lingiardi

Per molti anni la professione dello psicoanalista è stata governata da tre principi fondamentali: neutralità, astinenza e anonimato. Col tempo, la cosiddetta “svolta relazionale” in psicoanalisi ha modificato, senza alterarne lo spirito etico e terapeutico, lo stile della comunicazione tra terapeuta e paziente. Prendendo spunto da questo esempio, ma rifuggendo parallelismi forzati e fuorvianti, propongo alcuni spunti di riflessione sull’importanza di una comunicazione empatica e accessibile, pur nel rigore della specificità, tra giudici e cittadini. Il tempo delle torri d’avorio è finito, e per non rimanere travolte dall’inconsistenza dei tweet, è importante che le professioni e le istituzioni, senza cedere al narcisismo della visibilità e all’esibizionismo dialettico, imparino a parlare alle cittadine e ai cittadini in modo tempestivo, non gergale, non propagandistico. Stile e modi di comunicazione dei giudici influenzano infatti la formazione dell’immagine, individuale e collettiva, psichica e sociale, della giustizia. È bene che, “oltre le sentenze”, ci siano parole che le spiegano e le accompagnano. Per non vivere in un mondo dominato dall’imperativo della comunicazione ma che ha perso la capacità di comunicare.

Per molti anni la mia professione è stata governata da tre principi fondamentali che servivano a definire la posizione dell’analista nella relazione con il suo paziente: neutralità, astinenza e anonimato. Consapevole che qualunque parallelismo è forzato, per non dire fuorviante – il giudice non è un terapeuta e il cittadino[1] non è un paziente – userò queste tre dimensioni e la loro evoluzione in ambito clinico e teorico, per iniziare a muovere i pensieri – i miei e quelli di chi legge – sul tema della comunicazione in ambito giuridico. Quanto deve aprirsi all’esterno? Quanto inclusiva dev’essere, e a quale livello di divulgazione deve mantenersi? Una comunicazione inevitabilmente specialistica e asimmetrica (un soggetto conosce, l’altro no), può essere al tempo stesso cooperativa, empatica e paritetica? È un tema che non riguarda solo terapeuti e giuristi, ma tutte le professioni che implicano una declinazione relazionale della conoscenza. Come la professione medica, per esempio nella sua espressione diagnostica[2].

In psicoanalisi, la neutralità del clinico serviva a mantenere una posizione di massima “obiettività”, evitando il compito ingrato di sbilanciarsi con pareri esorbitanti rispetto a quello che veniva considerato il proprio ruolo. L’analista, in sostanza, doveva astenersi da qualsiasi intervento che, rendendolo meno anonimo, lo avrebbe anche reso meno imparziale e pericolosamente troppo vicino al paziente. L’atteggiamento neutrale ha in passato assunto forme paradossali, che provo a esemplificare:

 

Paziente: Buonasera dottore. [Il dottore si presenta in seduta con una gamba visibilmente ingessata].  Oddio, cosa le è successo?

Analista: Buonasera. Cosa la spinge a farmi questa domanda?

 

Oppure:

 

Paziente: Com’è abbronzato, dottore? Dove è stato di bello?

Analista: Che cosa muove questa sua curiosità?

 

Anche se la storia ci consegna ritratti ben diversi del modo di fare di Freud o Jung con i loro pazienti, all’analista si è sempre raccomandato di essere uno “schermo opaco” («Il medico dev’essere opaco per l’analizzato e, come una lastra di specchio, mostrargli soltanto ciò che gli viene mostrato»[3], non poteva comunicare nulla di sé (se non fornire al paziente delle “interpretazioni”). Il paziente era in gioco con le sue parole e l’analista con i suoi silenzi. Poi, verso la seconda metà del secolo, avvenne qualcosa che prese il nome di “svolta relazionale”. Sono tutti concordi nel far coincidere questa svolta con la pubblicazione di un libro, non a caso scritto a quattro mani, intitolato Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica[4]. Fu una svolta fortunata, perché vicina alla pratica della clinica di tutti i giorni. Molti la seguirono modificando, rileggendo, trasformando le tre regole fondamentali. Nuove parole iniziarono ad abitare la teoria clinica: sintonizzazione, empatia, co-costruzione, self-disclosure, intersoggettività. Fu la (ri)scoperta di una psicoanalisi “a tutto campo”, dove l’approccio “interpersonale” o “relazionale”, negli anni 1930-40 considerato “non psicoanalitico”, entra con vitalità sulla scena psicoanalitica tanto da diventare esso stesso mainstream, quasi oscurando l’approccio tradizionale[5].

Oggi, con il termine “neutralità” si intende il mantenimento di una posizione non giudicante nei confronti del paziente, caratterizzata non da distacco o freddezza, bensì da partecipazione emotiva. Il passaggio, per citare Luciana Nissim Momigliano[6], da un “ascolto sospettoso” a un “ascolto rispettoso”. Per “astinenza” si continua a intendere la giusta attitudine a non gratificare in modo indiscriminato i desideri e i bisogni del paziente (e ovviamente dell’analista) quando questi violano i confini del setting. Quanto all’“anonimato”, oggi l’analista è consapevole dell’utilità, talvolta, di manifestare aspetti della propria soggettività (si parla di self-disclosure), pur evitando di rivelare contenuti inutilmente personali o di esprimere giudizi o opinioni in modo perentorio o autoritario. Del resto, l’analista si rivela anche nella sua condizione più neutrale, silenziosa e anonima. Il silenzio stesso è una rivelazione. Così come il ritiro è a volte una forma della paura. Non sempre è freddezza, a volte è semplicemente una difesa che protegge dal coinvolgimento spontaneo, la barriera che controlla gli affetti, un’iperconsapevolezza dell’importanza etica e tecnica della propria vocazione. Ho provato a dirlo con due semplici versi[7]:

Alcuni sciocchi chiamano freddezza

il precipizio che sovrasta la carezza.

È importante che il paziente possa cogliere l’umanità del suo medico. Ed è il dialogo una delle formule più alte dell’umanità. Il ritmo buberiano dell’Io-Tu che prelude ogni comunicazione autentica. Fui colpito, anni fa, dall’esclamazione di un giovane collega che, incamminatosi lungo un percorso analitico molto ortodosso, dopo mesi di sedute silenziose, mi disse: «Oggi ha parlato! Il mio analista oggi mi ha parlato!».

Il film di Richard Eyre «Il verdetto», tratto dal romanzo di Ian McEwan «La ballata di Adam Henry», racconta l’incontro tra l’austera giudice inglese Fiona Maye e il cittadino Adam Henry, minorenne, testimone di Geova, leucemico, bisognoso di una trasfusione proibita dalla sua fede. Fiona è un “Vostro onore” che non si è mai concessa un’apertura comunicativa al di fuori del perimetro del rito. E bene ha fatto: confini ben custoditi, regole, disciplina istituzionale. Ma c’è una volta, la volta di Adam, in cui la dieta restrittiva della sua comunicazione si avvicina troppo, deliberatamente, alla materia incandescente dell’adolescenza testarda su cui si trova a deliberare. È una smagliatura, rivelatrice di una trama troppo tesa. È l’incontro con l’inatteso che mette in tensione drammatica due eccessi: la distanza di un lavoro chiuso nel suo rito impeccabile e la gestione drammatica di un avvicinamento emotivo che produce l’inevitabile corto circuito, l’incidente. È anche per regolare queste tensioni che occorre che la comunicazione fluisca, il suo ritmo regolato dalla diastole (il momento dell’apertura) e dalla sistole (quello della contrazione).

Oggi i clinici tendono a partecipare più attivamente all’interazione, creando un clima di fiducia e sicurezza, in modo che il dialogo con il paziente sia spontaneo e fluido, pur senza perdere le caratteristiche di separatezza nella vicinanza e asimmetria nell’alleanza che, caratterizzando la relazione terapeutica, la differenziano da tutte le altre relazioni significative del soggetto. Questa rilettura dello “stare con il paziente” è avvenuta all’interno di un più generale spostamento da una prospettiva mono-personale a un’ottica bi-personale, in cui paziente e analista sono entrambi coinvolti nella produzione congiunta di significati. Non sono cambiate le regole “etiche” della relazione analitica, sono cambiati gli spazi della relazione e i modi della comunicazione.

La parentela tra l’appello rivolto, anni or sono, da Peter Fonagy[8], autorevole figura della ricerca contemporanea in campo psicodinamico, agli psicoanalisti, invitati a “interrompere il loro (non così tanto) splendido isolamento”, la turris eburnea della loro solitudine linguistica e disciplinare, e quello rivolto dall’emerito Marcello Gallo, nel corso di un convegno bolognese del 2014, ai colleghi perché uscissero «dall’adorata asetticità del mestiere di giuristi» e dagli spazi angusti del «carattere esoterico» del loro linguaggio, non può che farmi risuonare nella memoria un terzo appello: le celebri parole pronunciate da James Hillman in un libro dal suggestivo titolo Cento anni di psicoterapia e il mondo va semprepeggio[9]. «Occorre aprire una finestra nella stanza d'analisi», scriveva Hillman. «Io non sono, se non in un campo psichico con gli altri, con la gente, gli edifici, gli animali, le piante». Non vale forse per i giuristi come per gli psicoanalisti? L’invito, infatti, non riguarda tanto le tecniche, quanto i rischi dell’isolamento e dell’autoreferenzialità. La consapevolezza che per capire meglio quello che ci abita e ci governa, la psiche come la legge, è necessario aprire le finestre dei nostri studi, dei nostri palazzi, delle nostre discipline. Senza perdere, va ribadito sempre, la protezione del setting, l’insieme di regole che governano il campo relazionale e i rapporti tra i soggetti coinvolti.

Potrei andare avanti a lungo, annoiandovi con dibattiti interni al mondo della psicoanalisi. Ma l’intenzione del mio breve scritto mi sembra ormai chiarita: che le nostre professioni si svolgano – come e dove giustamente devono svolgersi – in stanze tranquille e lontane dal clamore; ma che non si dimentichino le loro salutari ricadute, concrete e simboliche, sul tessuto sociale. Nessun riflettore, va da sé, nessuna esibizione, nessuna proiezione di bisogni personali, ma una voce istituzionale, chiara e rivolta alla promozione della conoscenza. Una scelta di democrazia, perché il sapere non va tenuto stretto, ma elargito e condiviso. Perché “oltre le sentenze”, ci sono parole che le spiegano e le accompagnano.

Questa inclinazione diventa particolarmente importante in un contesto politico e sociale dominato dalla paura-rifiuto della complessità, vera e propria malattia culturale del nostro tempo, e dalla progressiva riduzione del linguaggio (non solo sociale ma anche politico!) agli scarni caratteri di un tweet. In un momento in cui la politica è fatta di hashtag e il dibattito si avvita e inaridisce in tifoserie pro/contro, il contributo di una divulgazione giuridica non può che irrigare un terreno linguistico e concettuale sempre più arido e petroso. Dove le parole diventano pietre, non nel senso altissimo di Carlo Levi, bensì in quello violento della lapidazione online, dell’hate speech, il discorso fondato sull’odio, dove la comunicazione diventa evacuazione delle nostre “scorie psichiche”.

La connettività istantanea ha soppiantato l’introspezione e il modo in cui elaboriamo le informazioni e organizziamo i pensieri. La comunicazione e la divulgazione, quella scientifica come quella giuridica, sono compiti troppo importanti per essere trascurati o peggio lasciati al danno delle semplificazioni. Usando le parole dello psicoanalista Christopher Bollas «le risposte-scorciatoia non ci portano lontano», «la psicoanalisi serve a favorire domande capaci di muovere idee inconsce infinite», a battere «l’egemonia delle soluzioni semplici a favore dei movimenti complessi del pensiero». Viviamo in un mondo dominato dall’imperativo della comunicazione, ma abbiamo perso la capacità di comunicare. In questa “età dello smarrimento”[10], la comunicazione è sempre più veloce, ma ahimè sempre più superficiale, imprecisa, se non addirittura fasulla (fake news). Impegnarsi sul fronte di una comunicazione vera è oggi un dovere civile. Come osserva Sherry Turkle[11], docente al Mit di Boston, esperta di digital culture e studiosa al confine tra psicologia e sociologia, il trionfo delle tecnologie comunicative ha aumentato i nostri scambi ma ha ridotto le nostre conversazioni. Con ripercussioni profonde e durature: meno conversazione = meno empatia = meno introspezione = meno conoscenza.

Guardati con gli occhi del cittadino, vi sono due aspetti sui quali, come psicoanalista, mi sembra importante fermare l’attenzione. Il primo riguarda l’aspettativa di una giustizia comprensibile, “accogliente”, trasparente e viva nel dibattito pubblico e quindi capace di comunicare. In questo modo il cittadino non si sentirà, o si sentirà meno, estraneo alla cosa pubblica, ma invece partecipe di un istituto fondativo della democrazia costituzionale; potrà così (ri)stabilire un rapporto di fiducia con la giustizia (negli ultimi oggetto di svalutazioni maledicenti o di idealizzazioni salvifiche), comunque necessario al di là del consenso o della critica. Il secondo riguarda una certa timorosa resistenza della magistratura, a parte i noti casi di passaggio alla politica attiva, ad addentrarsi in un ambito, quello della comunicazione aperta, non solo sconosciuto ma considerato estraneo ai saperi tipici del giudice. E percepito come pericoloso non solo per le conseguenze disciplinari, ma anche per la convinzione che autorevolezza e magistero si possano esprimere solo con un linguaggio tecnico, poco accessibile, faticoso, inevitabilmente per addetti ai lavori.

Giudici capaci di comunicare sono invece importanti perché la loro parola si va a posare sulla formazione di un sentimento collettivo della giustizia. Che è anche, potremmo dire, un “oggetto psichico” composito, sfaccettato, carico di proiezioni: timore reverenziale, paura che affonda nella colpa, desiderio di risarcimento, idealizzazione di un genitore potente, punizione di un genitore vendicativo, intrusione di uno potere controllante, e così via. La collega Simona Argentieri, in un corso sulla comunicazione organizzato dalla Scuola superiore della magistratura, ha mostrato come le aspettative idealizzanti siano tra le più pericolose perché lusingano, in un gioco di specchi, le fantasie di onnipotenza e onniscenza del giudice. Giudici inquisitori che perseguitano, indagano, puniscono? Giudici eroi che ripuliscono, salvano, ristabiliscono l’ordine morale? Non dimentichiamo, e la teoria clinica della personalità narcisistica lo ha ben dimostrato, che idealizzazione e svalutazione, l’altare e la polvere, sono facce della stessa medaglia. E non sottovalutiamo fenomeni sociali preoccupanti che sempre più stanno prendendo piede, dalla ribellione no-vax alle aggressioni fisiche ai danni di medici e insegnanti (nell’ultimo anno, in Italia, 1200 medici sono stati aggrediti da pazienti o loro familiari: tre al giorno, e due su tre sono dottoresse).

È importante riflettere sul sentimento collettivo (e di questi tempi, inevitabilmente, anche sul “risentimento”) nei confronti delle istituzioni perché solo da lì possiamo partire per trarre indicazioni su come la giustizia deve parlare al cittadino. Lo stile e i modi di comunicazione dei giudici influenzano la formazione di un’immagine collettiva della giustizia e devono rappresentare un antidoto sia alla banalizzazione twitter sia all’esibizionismo dialettico, a favore di una comunicazione istituzionale tempestiva, non gergale, non propagandistica. Una comunicazione che porti conoscenza e pensiero nel dibattito pubblico, che faciliti la convivenza tra cittadini e istituzioni, promuovendo una mentalità in grado di muoversi tra idee complesse e spiegazioni semplici e non, come sempre più spesso accade, idee confuse e spiegazioni semplificate. Insomma promuovendo democrazia perché, come scrive Wisława Szymborska[12], «e ti piaccia o no, | i tuoi geni hanno un passato politico, | la tua pelle una sfumatura politica,| i tuoi occhi un aspetto politico. | Ciò di cui parli ha una risonanza, | ciò di cui taci ha una valenza | in un modo o nell’altro politica».

[1] In questo testo, ho scelto di seguire le regole finora in uso della lingua italiana e usare prevalentemente il maschile (“il giudice”, “il cittadino”, ecc.): non certo per perpetuare il sessismo nel linguaggio, ma per evitare di appesantire il testo.

[2] V. Lingiardi, Diagnosi e destino, Einaudi, Torino, 2018.

[3] S. Freud, S. (1912), Consigli al medico nel trattamento analitico, tr. it. in Opere, vol. 6. Boringhieri, Torino, 1974.

[4] J.R. Greenberg - S.A. Mitchell,Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica, tr. it., Il Mulino, Bologna, 1987.

[5] P. Migone, Terapia psicoanalitica, Franco Angeli, Milano, 1995; V. Lingiardi - G. Amadei - G. Caviglia - F. De Bei, La svolta relazionale, Raffaello Cortina, Milano, 2011.

[6] L. Nissim Momigliano, L'ascolto rispettoso. Scritti psicoanalitici, Raffaello Cortina, Milano, 2001.

[7] V. Lingiardi, La confusione è precisa in amore, Nottetempo, Roma, 2012.

[8] P. Fonagy, Genetica, psicopatologia dello sviluppo e teoria psicoanalitica: l'occasione per interrompere il nostro (non così tanto) splendido isolamento, tr.it. in Richard & Piggle, vol. 1, 2004, pp. 77-102.

[9] J. Hillman - M. Ventura, Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre Peggio, tr. it., Raffaello Cortina, Milano, 1998.

[10] C. Bollas, L’età dello smarrimento. Psicoanalitica, tr.it. Raffaello Cortina, Milano, 2018.

[11] S. Turkle, Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, tr.it., Codice, Roma, 2012; dello stesso autore, La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale, tr. it. Einaudi, Torino, 2016.

[12] W. Szymborska, Gente sul ponte, Tr.it. Scheiwiller, Milano, 1986.