Magistratura democratica

Il silenzio e la parola dei magistrati.
Dall’arte di tacere alla scelta di comunicare

di Nello Rossi

Per la magistratura degli anni ‘50 e ‘60 valeva la regola non scritta ma ferrea del silenzio. Una vera e propria arte di tacere, frutto dell’omogeneità con la classe dominante e pegno della irresponsabilità sociale e culturale per le decisioni assunte. La stagione del risveglio sociale e culturale dei magistrati coincide con la loro presa di parola ed avvia un lungo percorso evolutivo, a più riprese contrastato, insidiato e revocato in dubbio. È un itinerario che si snoda attraverso diverse tappe: dalla difesa della libertà di manifestazione del pensiero nei confronti delle iniziative disciplinari all’elaborazione di un’etica del discorso pubblico del magistrato sino all’affermazione di un moderno e compiuto diritto-dovere di spiegare e di spiegarsi che appartiene agli uffici giudiziari ed all’occorrenza a ciascun singolo magistrato. Ma c’è un lavoro di lunga lena da fare per presidiare il confine tra libertà e prepotenze e perché la scelta per la comunicazione non sia solo una rivoluzione dall’alto…

1. L’arte di tacere e la presa di parola della magistratura

In un libretto, non propriamente “aureo”, del 1771 l’abate Joseph Dinouart, illustra diffusamente l’arte di tacere.

Naturalmente L’Arte di tacere[1] è in larga misura un libro sulla parola e sulla scrittura, come l’abate stesso ammette già nell’introduzione: «Trattando del silenzio, farò … spesso riflessioni sulla parola, al fine di spiegare più chiaramente l’uno in relazione all’altra, o meglio di spiegarli tutti e due insieme, mettendo accuratamente in evidenza ciò che riguarda le regole del silenzio».

La preoccupazione che muove, ispira e percorre l’intera riflessione dell’ecclesiastico è che un esercizio inappropriato della parola da parte dei religiosi possa compromettere agli occhi dei fedeli la sacralità del corpo dei chierici, al quale anch’egli appartiene.

Di qui una lunga elencazione dei «principi necessari per tacere» ed una analitica descrizione dei diversi tipi di silenzio: prudente e artificioso, compiacente e canzonatorio, spirituale e stupido, di plauso e sprezzante, politico, dell’umore, del capriccio. Il tutto per giungere alla salomonica conclusione che «il primo grado della saggezza è saper tacere; il secondo è saper parlare poco e moderarsi nel discorso; il terzo è saper parlare molto, senza parlar male né troppo».

Ora, come non vedere le assonanze tra l’elogio del silenzio e della prudenza untuosamente presentato ai chierici come il più sicuro scudo della loro autorità e la lunga stagione di silenzioso esercizio del potere di giudicare da parte della magistratura italiana degli anni ‘50 e ‘60?

Lo sappiamo bene: quella magistratura restava silenziosa in pubblico per ragioni politiche e di difesa corporativa.

Da un lato essa era profondamente omogenea, socialmente e culturalmente, alla classe dominante e perciò non sentiva quasi mai il bisogno di prendere la parola per criticare leggi o politiche del giudiziario o dell’ordine pubblico.  

Dall’altro lato, la scelta del silenzio e l’assenza dei magistrati nel dibattito pubblico rappresentavano il naturale e prudente corollario della asserita neutralità della corporazione e concorrevano ad opporre un ostacolo invalicabile ad ogni assunzione di responsabilità sociale e culturale del singolo magistrato per le decisioni assunte.

Pur non essendo affatto gli “esseri inanimati” di cui aveva favoleggiato nella sua prima stagione l’illuminismo, i giudici del secondo dopoguerra condividevano almeno un tratto essenziale dell’introvabile être inanimé: il silenzio.

Il progressivo risveglio culturale e sociale della magistratura che parte dalla metà degli anni 60 pone fine alla lunga atrofia della parola e del senso critico.

Ma non è una scelta indolore. Al contrario essa genera una lunghissima catena di conflitti, interni ed esterni al corpo giudiziario, che pur mutando più volte di forma e di contenuto nel corso dei decenni si prolunga sino ad oggi.

Dall’originaria e aspra polemica contro le “interferenze” (così venivano definite tutte le critiche di provvedimenti giudiziari da parte di magistrati) si passa ai dissensi nell’interpretare lo spazio di libertà espressiva dei magistrati ed ai molteplici conati di repressione, in sede di giudizio disciplinare, della manifestazione del pensiero nelle sue diverse forme: critica politica o degli assetti interni del giudiziario, polemica contro determinate sentenze o sulla condotta di magistrati, principalmente capi degli uffici giudiziari, perfino romanzi o libri ritenuti non edificanti.

L’intimazione del silenzio ed i tentativi di repressione della parola pubblica dei magistrati hanno un bersaglio costante e prediletto: i discorsi o gli scritti, critici o polemici, formulati “in volgare”, nella lingua di tutti e non nel linguaggio o gergo giuridico, astratto, formale e incomprensibile ai più.

Sono sempre le parole del linguaggio comune, così diverse dal “latino” dei chierici, veicolate attraverso canali comunicativi di ampia diffusione come la stampa o la televisione, ad irritare, a scandalizzare, a suscitare reazioni, a sollecitare l’impiego dell’azione disciplinare. Arma, quest’ultima, che si rivela spesso spuntata e perdente ma solo all’esito di faticosi giudizi della Sezione disciplinare e di sentenze delle Sezioni unite della Corte di cassazione chiamata a decidere delle impugnazioni delle decisioni del giudice disciplinare.

La storia della parola e del silenzio dei magistrati è parte essenziale della storia della magistratura (o meglio della vicenda della magistratura nella storia del Paese) e di tale storia ha scandito tappe e svolte, fornendo elementi utilissimi per le sue possibili periodizzazioni e per i suoi grandi quadri.

Ma anche se non v’è storia della magistratura che non dedichi un ampio spazio alle divergenze ed alle controversie suscitate dalle pubbliche manifestazioni del pensiero dei giudici[2] una vera e propria storia della parola pubblica dei magistrati e dei loro prudenti silenzi resta in larga misura ancora da scrivere.

In attesa che il tema sia affrontato con il necessario respiro, ci si dovrà accontentare di una istantanea che fotografi il presente e di un esercizio di previsione del futuro.

Con una duplice avvertenza.

Nel descrivere il presente si dovrà sempre ricordare che esso costituisce il punto d’approdo di un lungo e tortuoso percorso che possiamo definire di “progresso” verso più ampi spazi di libertà espressiva del singolo magistrato e della magistratura nel suo complesso; ma, al tempo stesso, questo approdo è costantemente sottoposto a tensioni capaci di determinare arretramenti e regressioni.

C’è, dunque, una frontiera tuttora mobile da presidiare senza esitazioni o tentennamenti.

Nel ragionare delle trasformazioni in atto e del futuro occorrerà poi discutere come alla irrinunciabile rivendicazione della libertà del singolo magistrato possa e debba affiancarsi una più ampia libertà – e per certi versi un più ampio dovere – di spiegare e di spiegarsi, che permetta alla magistratura di essere una componente attiva, responsabile e incisiva della moderna società della comunicazione.

2. Sulla libertà di parola dei magistrati; il cielo sereno dei principi ...

Il quadro dei principi è sin troppo noto perché vi si debba soffermare a lungo. Ma l’osservazione del presente testimonia che per i magistrati resta perennemente ed altamente instabile l’equilibrio tra parola pubblica e riserbo, tra libertà di manifestare il pensiero e i doveri speciali connessi alla funzione esercitata.

Sin dalle sue prime decisioni, e in una linea di assoluta continuità ideale e giuridica, la Corte costituzionale ha dedicato alla libertà di manifestazione del pensiero alcune delle sue pagine più alte ed approfondite: qualificandola come «una di quelle che meglio caratterizzano il regime vigente dello Stato» (sentenza n. 9 del 1965); indicando nel diritto di cui all’articolo 21 della Costituzione «il più alto, forse... dei diritti primari e fondamentali garantiti dal testo costituzionale» (sentenza n. 168 del 1971); inserendo la libertà tra «i diritti inviolabili dell’uomo» di cui all’articolo 2 della Costituzione (sentenza n. 126 del 1985); rivendicando il suo carattere di «pietra angolare dell’ordine democratico» (sentenza n. 84 del 1969).

Nell’opera preziosa di continuo ed indispensabile contemperamento tra beni e interessi costituzionalmente garantiti è stata però costante – a partire dalla sentenza 7 maggio 1981, n. 100 – la sottolineatura che è necessario un equilibrato bilanciamento tra il diritto del magistrato di manifestare liberamente le proprie opinioni sancito dall’articolo 21 della Costituzione e i beni anch’essi garantiti e protetti dalla Carta dell’indipendenza, dell’imparzialità, della credibilità della funzione giudiziaria.

Un tale bilanciamento – aggiunge il giudice costituzionale – non comprime la libertà di manifestare il pensiero ma ne vieta l’esercizio anomalo e cioè l’abuso che si concreta quando sia pregiudicata l’indipendenza e risultino lesi i valori della imparzialità e credibilità.

Se questo è il perimetro costituzionale entro cui vive ed è garantita la libertà di parola dei magistrati dell’accusa e dei giudici, quali dinamiche reali, quali tensioni, quali contrasti si sono sviluppati all’interno di quest’area?

E soprattutto in quali mani è stata la bilancia utilizzata per soppesare libertà di parola e doveri (di volta in volta di osservanza del segreto, di riserbo, di correttezza) dei particolari cittadini che svolgono funzioni giudiziarie?

3. ... e le tensioni della realtà effettuale

A lungo, sino all’entrata in vigore di un vero e proprio codice disciplinare, datato 2006, la bilancia è stata esclusivamente nelle mani di giudici: i componenti, togati e laici, della Sezione disciplinare del Csm ed i giudici della Corte di cassazione chiamati, nelle Sezioni unite civili, a decidere i ricorsi avverso le sentenze della Sezione disciplinare.

È infatti sopravvissuta sino al 2006, la formula “incriminatrice”, generica ed indefinita, contenuta nell’articolo 18 della legge sulle guarentigie, secondo cui era assoggettato a sanzione disciplinare il magistrato che avesse mancato «ai suoi doveri» o avesse tenuto «in ufficio o fuori» una condotta tale da renderlo immeritevole «della fiducia e della considerazione di cui deve godere» o, infine, avesse compromesso «il prestigio dell’ordine giudiziario».

Con l’effetto di dar vita ad un diritto disciplinare di fonte esclusivamente giurisprudenziale, largamente imprevedibile per i suoi destinatari e soggetto a rilevanti oscillazioni tanto nella formulazione delle incolpazioni quanto nelle pronunce della Sezione disciplinare del Csm.

Analogamente, sul piano procedurale, nonostante singole modifiche legislative ed interventi della Corte costituzionale, il procedimento disciplinare è rimasto a lungo (e per la verità è tuttora) caratterizzato da residui di tipo amministrativo e di impronta inquisitoria in grado di limitare il principio di parità tra accusa e difesa.

Nella sfera della parola e del silenzio, ovvero della libertà di manifestazione del pensiero e del dovere di riserbo, l’indeterminatezza della norma incriminatrice aveva mantenuto aperta la strada a discutibili iniziative disciplinari del ministro della giustizia e del procuratore generale presso la Corte di cassazione.

Ma è la stagione del conflitto politica magistratura, aperta dai processi di Tangentopoli e profondamente segnata dal ridimensionamento dell’immunità parlamentare, a fare emergere i casi più eclatanti.

In quel periodo i promotori dell’azione disciplinare concentrano la loro attenzione sulle critiche mosse da magistrati al proprio o ad altri uffici giudiziari e sulle dichiarazioni pubbliche che in vario modo intersecano i procedimenti trattati.

Sul primo versante il giudice disciplinare tiene però fermo il diritto di critica pubblica della organizzazione degli uffici e della distribuzione degli affari[3].

Anche sul terreno delle dichiarazioni pubbliche di critica politica tout court o in qualche modo connesse ai procedimenti trattati dal magistrato autore delle dichiarazioni, l’orientamento della Sezione disciplinare è prevalentemente improntato a criteri liberali.

E ciò fa si che (come ad esempio nel caso di una intervista rilasciata da Gherardo Colombo al Corriere della Sera) magistrati responsabili di indagini di grande rilevanza siano assolti da incolpazioni disciplinari miranti a reprimere la manifestazione di opinioni critiche sul Governo e sulla maggioranza politica del momento.

In un caso poi il giudice disciplinare enuncia un principio particolarmente innovativo ai fini che qui interessano. Con la decisione del 25.2.2000 la Sezione disciplinare supera infatti la tradizionale impostazione di salvaguardia della libertà di espressione per far emergere un embrionale diritto-dovere di comunicazione. Al magistrato incolpato viene infatti riconosciuta – laddove gli organi di stampa abbiano fornito un’informazione carente o imprecisa – la facoltà di fornire informazioni dirette a evitare fraintendimenti o false rappresentazioni della condotta sua e dell’ufficio di appartenenza. Tale facoltà, aggiunge il giudice disciplinare, coincide con l’interesse pubblico ad una corretta e veritiera informazione sull’operato dell’ufficio e sulle modalità di esercizio dell’attività giudiziaria[4].

4. Un tentativo abortito: il ripristino della regola del silenzio

Non è azzardato ritenere che propri tali orientamenti liberali del giudice disciplinare e gli insuccessi dell’iniziativa disciplinare sul fronte della libertà di espressione abbiano suggerito la stretta liberticida del codice disciplinare voluto dal Ministro Castelli.

Nel testo del codice disciplinare (contenuto nel d.lgs n. 109 del 23.2. 2006), varato ma non entrato in vigore nella sua originaria formulazione perché preventivamente abrogato in più punti da una legge voluta dal Governo Prodi (l. n. 269 del 2006), erano infatti contenute disposizioni capaci di promuovere una repressione indiscriminata e brutale della parola pubblica dei magistrati.

Ed infatti l’articolo 2 bb) del decreto legislativo sanzionava disciplinarmente «il rilasciare dichiarazioni ed interviste in violazione dei criteri di equilibrio e di misura», mentre l’articolo 3 lett. f) qualificava come illecito disciplinare «la pubblica manifestazione di consenso o dissenso in ordine a un procedimento in corso quando, per la posizione del magistrato o per le modalità con cui il giudizio è espresso, sia idonea a condizionare la libertà di decisione nel procedimento medesimo».

A corredo di queste previsioni stava poi la norma di chiusura dell’articolo 3 lett. l) del decreto che includeva tra gli illeciti «ogni altro comportamento tale da compromettere l'indipendenza, la terzietà e l'imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell'apparenza». Norma, questa, destinata a trovare nella parola pubblica e nella partecipazione alla vita sociale del magistrato il suo campo elettivo di applicazione.

Un diritto disciplinare dell’apparenza, dunque, che grazie all’ampio uso di formule tanto indeterminate quanto minacciose, avrebbe dovuto ripristinare il silenzio come indiscussa regola di condotta dei magistrati sia nell’esercizio delle funzioni che nella dimensione pubblica.

Come si è detto la mordacchia ai magistrati, giustamente evocata per definire le norme ora richiamate, non è stata applicata.

Al termine di una confusa e convulsa vicenda parlamentare venne infatti emanata la legge n. 269 del 2006 che, con una tecnica da referendum abrogativo, cancellò le disposizioni “incriminatrici” più vaghe, indeterminate e repressive, restituendo nel contempo anche alla procedura disciplinare una più accettabile fisionomia.

Il tentativo di ripristinare, per via disciplinare, la regola del silenzio era abortito[5]. E cessava anche la stagione del diritto disciplinare di fonte esclusivamente giurisprudenziale.

Le disposizioni residue del codice disciplinare in materia di segreto e di dovere di riserbo offrirono una nuova cornice entro cui collocare la libertà di manifestazione del pensiero[6]. Ma, come si vedrà, su questo fronte perennemente tormentato, i conflitti non erano destinati a finire.

5. L’elaborazione di un’etica del discorso pubblico dei magistrati

Non è stato solo il giudice disciplinare o il legislatore ad intervenire sul delicato terreno del discorso pubblico dei magistrati.

In parallelo alle vicende giurisprudenziali e legislative sin qui rievocate si è sviluppata, su impulso del legislatore, l’elaborazione da parte della stessa magistratura di un’etica dell’intervento pubblico dei giudici.

L’articolo 58 bis del d.lgs n. 29/93 del 3 febbraio 1993, n. 29, che dettava norme in materia di «Razionalizzazione della organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421» prevedeva che la presidenza del Consiglio dei ministri, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative adottasse codici di comportamento dei dipendenti pubblici.

Per le magistrature, invece, si stabiliva che l’introduzione di codici etici avvenisse ad opera degli organi delle associazioni di categoria, entro il termine di centoventi giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 29, da sottoporre poi all'adesione degli appartenenti alla magistratura interessata. Decorso inutilmente il termine fissato dal legislatore il codice sarebbe stato adottato dall'organo di autogoverno.

L’Associazione nazionale magistrati venne dunque stimolata dal legislatore alla redazione di un codice etico e in qualche misura messa in mora perché la sua inerzia avrebbe significato attribuire al Csm il compito della redazione del codice.

Ne scaturì il primo testo del codice etico della magistratura risalente al 1994, poi ritoccato nel 2010 per adeguarlo alla società della informazione e della comunicazione ed alla accresciuta sensibilità sulla questione morale[7].

In entrambi i testi del codice è l’articolo 6 a regolare i rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa.

Leggiamolo integralmente nella versione oggi in vigore.

«Nei contatti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione il magistrato non sollecita la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio.

Quando non è tenuto al segreto o alla riservatezza su informazioni per ragioni del suo ufficio concernenti l'attività del suo ufficio o conosciute per ragioni di esso e ritiene di dover fornire notizie sull'attività giudiziaria, al fine di garantire la corretta informazione dei cittadini e l'esercizio del diritto di cronaca, ovvero di tutelare l'onore e la reputazione dei cittadini, evita la costituzione o l'utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati.

Fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione. Evita di partecipare a trasmissioni nelle quali sappia che le vicende di procedimenti giudiziari in corso saranno oggetto di rappresentazione in forma scenica.».

Come è agevole constatare non è affatto una regola di silenzio che il codice etico prescrive ai magistrati.

La norma delimita con chiarezza le condotte eticamente riprovevoli: sollecitare la pubblicità sul proprio operato o sul proprio ufficio; costituire canali privilegiati con il mondo dell’informazione; non partecipare ai processi simulati o anticipati in televisione per evitare di accreditarli con la presenza di un magistrato.

Implicito, ma non per questo meno significativo sotto il profilo etico, l’invito al magistrato a non svolgere – salvo il caso di reali esigenze di chiarificazione e correzione di artificiose rappresentazioni mediatiche – interventi pubblici sui propri processi, nei quali egli parla già con i suoi atti giudiziari e non può gettare sulla bilancia il peso ulteriore e truccato di un parallelo intervento mediatico.

Al di là di questi confini la norma del codice etico è assai più regola della parola appropriata che regola del silenzio se è vero che la parola pubblica del magistrato è considerata utile e doverosa tutte le volte che occorra «garantire la corretta informazione dei cittadini e l'esercizio del diritto di cronaca, ovvero … tutelare l'onore e la reputazione dei cittadini».

Si può dunque parlare di una libertà di comunicazione (in linea di principio non dei singoli ma) degli uffici diretto a garantire una informazione corretta sul proprio operato, il diritto di cronaca e la tutela dei cittadini.

Ma vi è di più. L’analisi congiunta delle regole etiche, degli orientamenti giurisprudenziali e dei principi generali dell’ordinamento mostra che è maturo il riconoscimento della libertà del singolo magistrato di prendere la parola direttamente e personalmente a tutela della propria immagine di indipendenza e di imparzialità compromessa da dichiarazioni di esponenti di altre istituzioni o da notizie stampa prive di fondamento.

Diritto, questo, riconosciuto dal giudice di legittimità (e in sede di giudizio di rinvio, dopo l’annullamento della prima sentenza di condanna, dalla stessa Sezione disciplinare del Csm) all’esito di una complessa vicenda disciplinare nata da dichiarazioni rese alla stampa e da una intervista televisiva del pubblico ministero minorile Anna Maria Fiorillo in risposta alle inesatte dichiarazioni del Ministro dell’interno secondo cui la Questura milanese nel famoso caso «Ruby» aveva agito in conformità alle indicazioni del pubblico ministero[8].

Infine sul più ampio terreno del diritto di manifestazione del pensiero del magistrato il codice invita il magistrato ad ispirarsi a criteri di equilibrio e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa

6. Parresia e prepotenze

Nel codice non sono dunque enunciati precetti di silenzio ma piuttosto di parola equilibrata, misurata, soprattutto ispirata al rispetto dei cittadini[9].

Alla base di questa impostazione non sta un tartufesco invito alla prudenza bensì la nitida percezione del “ruolo” del magistrato e delle aspettative sociali che su questo ruolo si concentrano.

Quando è un magistrato a prendere la parola o a scrivere per il grande pubblico, il cittadino ha infatti il diritto di attendersi che il suo potenziale accusatore o giudice parli e argomenti in modo chiaro e comprensibile; che partecipi al discorso pubblico come un attore razionale, capace di ascolto degli argomenti altrui e di repliche meditate; che non prorompa nell’urlo fazioso, nell’invettiva, nella semplificazione magari brillante ma brutale e fuorviante.

Si può essere rigorosi difensori della libertà di manifestazione del pensiero del magistrato cittadino e al tempo stesso provare fastidio e criticare le cadute di stile e le torsioni poste in essere, sul terreno del discorso pubblico e della comunicazione, ad opera di alcuni magistrati.

Si tratta di un variopinto campionario che spazia dagli appelli al “giudizio del popolo” di qualche pubblico ministero contro una sentenza di assoluzione sgradita all’affermazione di sapere “verità” a prescindere o in contrasto con i dati emersi nei processi. Ed ancora: dall’impiego strumentale della motivazione di atti di indagine (ad es. perquisizioni) o di comunicati stampa al fine di una anticipata diffusione di contenuti delle indagini all’utilizzo di una sentenza non per descrivere, valutare e giudicare fatti ma per distribuire patenti di infamia ai loro autori. Sino al diretto coinvolgimento come testimonial di magistrati in trasmissioni connesse con i procedimenti e i processi da loro trattati.

In questi casi – va detto chiaramente – non si discute dell’esercizio di una libertà. Si è solo dinanzi ad un uso improprio del “ruolo” o di poteri che l’ordinamento affida ai magistrati per fini rigorosamente circoscritti e predeterminati dalla legge.

Qui non c’è nessuna franchezza, nessuna parresia da difendere contro l’ipocrisia ma il superamento arbitrario di limiti che l’ordinamento assegna a chiunque detenga un potere per evitare che esso dia vita ad odiose prepotenze.

Purtroppo a queste condotte si è solo raramente accompagnata quella “riprovazione dei propri pari” che più di ogni altro mezzo le avrebbe isolate e ne avrebbe scoraggiato la diffusione.

Il corporativismo della magistratura del passato predicava ipocrisia e silenzio. Il corporativismo della magistratura di oggi si mostra incline a tollerare gli abusi del ruolo e delle funzioni nella sfera della comunicazione. C’è un nuovo fronte di contrasto al corporativismo.

7. Dalla libertà da forme di repressione alla libertà di partecipare alle dinamiche della società della comunicazione

Proviamo a tirare qualche prima conclusione dalle riflessioni svolte.

Il lungo contenzioso sulla libertà della parola pubblica dei magistrati non può dirsi concluso.

Da un lato emergono, come si è mostrato, nuove aree critiche segnate da prepotenze ed abusi. Dall’altro lato riaffiorano capricciosamente, come un fiume carsico, pulsioni alla repressione per via disciplinare della pura e semplice libertà di parola.

Quello che non si comprende è se vi sia e quale sia, in materia, la linea di condotta dei promotori dell’azione disciplinare, spesso inerti di fronte a violazioni evidenti di ogni regola e solleciti in casi che non meriterebbero l’attivazione del congegno disciplinare.

Ma nella travagliata vicenda, sin qui ripercorsa solo per rapidi cenni, stanno comunque maturando una cultura ed un’etica della parola pubblica dei singoli magistrati e degli uffici giudiziari che costituiscono la premessa di più ordinati sviluppi.

In questa cultura, e nell’etica che l’accompagna e la orienta, si è affermata da un lato la libertà di parlare, di criticare, di dissentire dei singoli magistrati e, dall’altro, la libertà di informare, chiarire, precisare, smentire – proprio degli uffici giudiziari e dei magistrati – a difesa della funzione esercitata e di una corretta informazione dei cittadini.

L’originaria libertà negativa – la libertà da forme di oppressione, repressione o negazione – si sta rapidamente evolvendo in libertà positiva, in libertà di concorrere, nel rispetto del pluralismo, alle dinamiche proprie della moderna società della comunicazione.

Perché stupirsene? Non si tratta forse dello stesso percorso compiute da molte altre libertà che dalla originaria ed esclusiva funzione di protezione dell’individuo rispetto all’esercizio arbitrario di un potere repressivo si sono trasformate, senza perdere il loro nocciolo originario, in originali strumenti di attiva partecipazione alla vita della società?

Nell’esercizio della libertà positiva di cui parliamo, le regole ed i limiti elaborati negli anni per disciplinare la parola pubblica dei magistrati non vanno abbandonati ma sono piuttosto destinati ad assumere una nuova ed originale funzione. Non sono più “scriminanti” per l’esercizio di un diritto tollerato ma linee di orientamento per una magistratura intenzionata a spiegare ed a spiegarsi agli occhi della più ampia opinione pubblica grazie ad un’opera di comunicazione comprensibile, corretta ed ispirata da una costante tensione verso la verità.

8. La scelta della comunicazione: una rivoluzione promossa dall’alto?

L’intelligenza collettiva della magistratura italiana – enorme risorsa non sempre pienamente sfruttata – ha dinanzi a se nuovi pensieri da pensare, nuovi campi di problemi da esplorare, nuove vie da percorrere.

Come a dire: una rivoluzione, dopo quelle della rottura del silenzio e della presa di parola.

Con una differenza di non poco rilievo. Mentre le svolte del passato nascevano da iniziative dal basso, la rivoluzione comunicativa è ancora una rivoluzione promossa principalmente dall’alto e fatta propria da volenterose avanguardie.

Che si sia dinanzi ad una “rivoluzione dall’alto” è provato dalla molteplicità degli impulsi che promanano dai vertici delle istituzioni che si occupano di giustizia.

Dal Ministero della giustizia, dal Csm, dalla Scuola della magistratura giungono infatti con insistenza al corpo della magistratura due diversi stimoli.

Il primo: ripensare linguaggio e misura della motivazione degli atti giudiziari per restituire loro la compromessa funzione comunicativa.

Il secondo: promuovere forme di comunicazione degli uffici giudiziari che rendano conto alla collettività degli utenti sia dei modi in cui si amministra giustizia sia dell’andamento e dell’esito dei giudizi che più interessano e coinvolgono la pubblica opinione.

Riferendomi solo ai contributi più recenti ricordo l’attività del Gruppo di lavoro sulla chiarezza e sinteticità degli atti processuali voluto dal ministro della giustizia, attività che si è conclusa con la relazione del 16 febbraio 2018, corredata da proposte al ministro e da un Breviario per la buona scrittura[10].

Parlo, ancora, delle «Linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale», approvate dal Csm con la delibera dell’11 luglio 2018[11].

Ed analogo impegno è stato profuso dalla Scuola superiore della magistratura che ai temi del linguaggio giuridico e delle tecniche di sintesi nella redazione dei provvedimenti sta dedicando da anni una pluralità di significative iniziative[12].

Gli studi su questi argomenti – che costituiscono parte integrante di una intensa elaborazione dei magistrati europei[13] – meritano di essere letti integralmente e meditati per la qualità dei contenuti e per la genuina tensione verso il rinnovamento che li pervade.

Ma resta lo spazio per qualche annotazione a margine e per qualche spunto problematico.

Il successo della “rivoluzione comunicativa” non potrà che scaturire da una capillare penetrazione dei suoi principi ispiratori nella cultura e nelle prassi di ciascun singolo magistrato.

In particolare, liberare il prezioso canale comunicativo della motivazione dai detriti, antichi e recenti, che vi si sono venuti accumulando appare un compito tanto indispensabile quanto arduo.

E ciò tanto sul versante del linguaggio, di certo il fronte più spinoso e complesso, quanto su quello della sinteticità degli atti.

Sul piano del linguaggio la via maestra è nota ed è chiara: utilizzare, al fine di essere compresi da una platea sempre più ampia la viva, ricca e colta lingua comune; limitare al necessario il linguaggio più strettamente tecnico giuridico; optare per uno stile di scrittura diretto, evitando ampollosità e circonlocuzioni inutilmente complesse e inevitabilmente faticose.

Una sorta di rivincita del “volgare” che – dopo tante incolpazioni disciplinari per il suo uso in dichiarazioni pubbliche – si ripropone come il linguaggio base della stessa motivazione.

Certo, si può obiettare che la quantità, spesso esorbitante, dei provvedimenti che ogni magistrato oggi deve scrivere favorisce il rifugio nel gergo tecnico – spesso allusivo più che esplicativo – come salvifica scorciatoia nella redazione degli atti[14].

Ma se l’obiettivo della chiarezza e della comprensibilità dei provvedimenti diventa per ogni magistrato un imperativo prioritario ed al tempo stesso viene assunto come un parametro della qualità professionale del suo lavoro, si può sperare che un nuovo modello di scrittura si diffonda e si affermi, liberando la motivazione dalle incrostazioni di uno stile desueto e involuto.

A questo fine si dovrà anche evitare che, nel richiamo dei precedenti, il linguaggio del passato finisca con l’imporsi sul linguaggio del presente perpetuando gli arcaismi e gli anacronismi della lingua.

È dunque un impegno di lunga lena quello che attende i magistrati italiani se veramente vorranno imboccare la strada – che tutto suggerisce – di risultare più chiari, più comprensibili, più accessibili. 

Una strada, questa, che avrebbe un ulteriore effetto positivo particolarmente importante nella società della comunicazione: ridurre il margine della mediazione giornalistica nella rappresentazione di ciò che è stato deciso e con esso lo spazio delle distorsioni interessate, delle letture fuorvianti, delle polemiche artificiose[15].

Meno complicato sarà forse promuovere una opzione collettiva per la sinteticità degli atti.

Se resta vera la citazione, ormai divenuta pressoché obbligatoria di Pascal, «ti scrivo a lungo perché ho poco tempo» per limare, ridurre, sintetizzare il pensiero, alcuni malvezzi possono essere contrastati.

Tra questi spicca, quello, relativamente recente, dell’abuso delle tecniche di scrittura informatica per montare, grazie ad un più o meno accorto assemblaggio di materiali diversi, provvedimenti monstre capaci di scoraggiare qualsiasi lettore consapevole della brevità della vita.

Il suggerimento del Gruppo di lavoro del Ministero, sostanzialmente accolto dal Csm, secondo cui, a differenza che nel passato, nelle valutazioni di professionalità sarà la sinteticità e non la lunghezza, la diffusività e l’inutile ridondanza dei provvedimenti ad essere positivamente valutata può essere uno stimolo efficace per promuovere dimensioni ragionevoli degli atti giudiziari che li rendano realmente accessibili.

Un ulteriore, decisivo, tassello per lo sviluppo di una effettiva capacità comunicativa della magistratura consiste nell’iscrivere la comunicazione pubblica tra i compiti fondamentali di un moderno dirigente dell’ufficio giudiziario, oggetto di valutazione in tutte le sedi, compresa quella della “conferma” nell’incarico direttivo.

Anche su questo terreno si sono fatti molti passi in avanti. Si pensi alla elaborazione e presentazione di “bilanci sociali” degli uffici giudiziari destinati a rendere conto ai destinatari dell’attività giudiziaria dei risultati raggiunti con i mezzi a disposizione. O, ancora, alla ricerca tuttora in corso (non senza cadute di stile ed esempi negativi) di corrette modalità di informazione su atti giudiziari di rilevante interesse pubblico posti in essere nella fase delle indagini preliminari.

9. Un troppo vasto programma?

Un “vasto programma” si potrebbe dire, con ironia, contemplando la molteplicità dei piani di intervento e l’entità delle resistenze culturali da vincere per fare della magistratura un attore consapevole e innovativo della società della comunicazione.

Tra i magistrati è però sempre più acuta la percezione che su questo terreno si svolge, già oggi ed ancor più nel futuro, una partita decisiva per le sorti della indipendenza e della legittimazione sociale del giudiziario.

Se vorrà avere successo la rivoluzione partita dall’alto dovrà fare seriamente i conti con le angustie e le inefficienze dell’organizzazione giudiziaria, con il peso dei carichi di scrittura, con i tempi del lavoro e del processo.

Ma l’obiettivo culturale, politico ed istituzionale che essa indica vale la pena di essere tenuto costantemente presente e perseguito con tenacia collettiva, pena la riduzione del ruolo e della incisività della giurisdizione.

Né del resto la posta in gioco è solo di carattere politico ed istituzionale.

È intellettualmente affascinante la prospettiva di contribuire in prima persona – attraverso un lavoro sul linguaggio, sulla sintesi, sulla comunicazione pubblica – ad una forma originale di informazione “diffusa” sui casi e sulle questioni di giustizia, chiara ma non banale, accessibile ma non pettegola, rigorosa ma non necessariamente respingente.

Parlare per un “uditorio della ragione” e riuscire a farsi capire dai cittadini; essere capaci di contrastare i falsi sulla giustizia, sempre più numerosi ed insidiosi; inserirsi con una autonoma capacità nel pluralismo dell’informazione.

Ecco dei traguardi ambiziosi che spesso si riveleranno difficili se non impossibili da raggiungere completamente ma per i quali vale la pena di spendersi.

[1] A. Dinouart, L'art de se taire, principalment en matièere de religion, ed. it. L’arte di tacere, 1989, Palermo, Sellerio.

[2] Su questi aspetti diffusamente E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Bari-Roma, Laterza 2018, che esamina il tema a partire dai “fermenti innovativi” e dai “richiami all’ordine” degli anni 60 nei confronti dei magistrati che scrivevano “troppo ed incontrollatamente” (ivi, pp. 45 e ss). Attenzione a questa problematica dedica anche A. Meniconi, Storia della magistratura in Italia, Bologna, Il Mulino, 2012. Sulle battaglie per la libertà di manifestazione del pensiero si soffermano ampiamente G. Palombarini - G. Viglietta nel loro libro La Costituzione e i diritti. Una storia italiana, Napoli, ESI, 2011, che ripercorre la vicenda di Magistratura democratica dal primo governo di centro sinistra all’ultimo governo Berlusconi (cfr. in particolare le pp.180 e ss. dedicate alle manifestazioni del pensiero ed alla loro repressione disciplinare).

[3] Cfr. Csm, Sez. disc. 6.4.2004 in questa Rivista, edizione cartacea, n. 4/2004, Franco Angeli, Milano, p. 811,  con nota di Teresa Massa, Per non “disciplinare” la libertà di manifestazione del pensiero del magistrato. Il caso riguardava una intervista rilasciata ad un quotidiano da un sostituto procuratore contenente critiche al procuratore ed al Csm sulla trattazione di un procedimento, nella quale non era stato superato il limite della “continenza”.

[4] Csm, Sez. disc., 25.2.2000, est. Rossi, confermata da Sez. un., 12.10.2000, n. 5, in questa Rivista, edizione cartacea, n. 2/2001, Franco Angeli, Milano, p. 378, con nota di L. Pepino, Il caso Davigo e il “dovere di riserbo” del magistrato.

[5] Della gravità dell’attacco alla loro libertà di parola la più gran parte dei magistrati avvertì relativamente poco, per l’andamento accidentato e oscuro dei lavori parlamentari e soprattutto perché non ha avuto modo di sperimentarne gli effetti, potenzialmente micidiali, in ragione della provvidenziale cancellazione “prima” della entrata in vigore delle norme ricordate.

[6] Nel testo vigente del codice disciplinare (d.lgs n. 109 del 23.2. 2006, come modificato dalla legge n. 269 del 2006) rientrano tra le violazioni del dovere di riserbo:

-la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui (articolo 2, lett. u);

-le pubbliche dichiarazioni o interviste che, sotto qualsiasi profilo, riguardino i soggetti a qualsivoglia titolo coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria (articolo 2, lett.v);

- il sollecitare la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio ovvero il costituire e l'utilizzare canali informativi personali riservati o privilegiati (articolo 2, lett. aa).

[7] Il testo del codice aggiornato è pubblicato sul sito dell’Associazione nazionale magistrati.

Chi scrive ha avuto la ventura di concorrere alla stesura del primo codice etico ed al suo aggiornamento nel 2010.Nel 1993 venne individuato un piccolo gruppo di lavoro composto da Gioacchino Izzo, Gabriella Luccioli, Nello Rossi e Vladimiro Zagrebelsky, incaricato di redigere il testo base del codice da sottoporre poi alla discussione ed all’approvazione degli organismi dell’associazione. Un testo “breve” che non subì significativi mutamenti nella fase di approvazione da parte degli organismi locali e nazionali dell’Associazione nazionale magistrati. All’epoca la redazione del codice non fu percepita come un incarico di particolare rilievo. Certo l’associazione si preoccupò di scegliere dei magistrati di cui aveva stima e fiducia per la redazione del codice ma non nascose le sue perplessità e perfino un certo fastidio verso l’onere che la legge o meglio un decreto legislativo le accollava. Del resto chi legga l’introduzione del codice del 1994 trova chiaramente manifestate quelle perplessità e i timori dell’epoca, che si tradussero in una certa diffidenza verso il codice etico di cui pure l’associazione era l’autrice e la responsabile.

Sul punto mi sia consentito rinviare a due miei scritti: N. Rossi, Prime riflessioni sul codice etico della magistratura in questa Rivista, edizione cartacea, n. 4/1993, Franco Angeli, Milano, pp. 804 ss. e N. Rossi, L’elaborazione del codice etico dell’Anm, in AA.VV., Deontologia giudiziaria, Napoli, 2006, pp. 205-221.

[8] Sezioni unite n. 6827 del 28.1.2014.

[9] In un intervento sull’argomento Edmondo Bruti Liberati ha citato un decalogo di matrice anglosassone, che è stato poi ripreso in un articolo sul Corriere della Sera.

È troppo utile e stimolante per non rileggerlo qui. Mi approprio quindi della citazione.

Il decalogo è contenuto in un opuscolo intitolato Media Guide a cura di National association for court management, National center for State courts, Williamsburg, Virginia.

  1. Sii sincero. Di la verità oppure taci
  2. Non dire ciò che non vuoi sia riportato
  3. Non dire mai “no comment”
  4. Non farti ingannare dal “off the records”. È una cosa che non esiste
  5. Non dire nulla che non vorresti vedere il giorno dopo sui titoli dei giornali
  6. Comportati come se un giornalista fosse sempre presente ogni volta che parli in pubblico
  7. Stabilisci le regole e i tempi dell’intervista in anticipo
  8. Tieni conto dei tempi di chiusura dei giornali
  9. Parla in “plain English. Avoid legalise”
  10. Pensa prima a quello che vuoi dire e preparati a rispondere alla domande prevedibili

[10] Nel documento sono attentamente esaminati e discussi i principi ed i criteri cui fare riferimento per dar vita ad una “cultura della chiarezza e sinteticità” di tutti gli atti del potere giudiziario. Una cultura, si aggiunge, che deve mirare non solo a soddisfare l’esigenza di rapidità della risposta giudiziaria, ma anche a favorire la qualità di essa, individuata come uno degli obiettivi del giusto processo.

Riflessione, questa, già presente nelle formulazioni di principio della giurisprudenza di legittimità (che però nel suo complesso resta ancora largamente connotata da forme di prolissità e di utilizzazione di un linguaggio desueto ed involuto). Nella sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, n. 642 del 2015, si legge al riguardo che «la sentenza che emerge dagli interventi censori della giurisprudenza di legittimità degli ultimi decenni è … una sentenza funzionale, flessibile, deformalizzata, improntata al contemperamento delle esigenze di effettività della tutela ed efficienza del sistema attraverso la conciliazione, in apparenza difficile, tra una motivazione comprensibile e idonea ad esplicitare il ragionamento decisorio che sia tuttavia concisa, succinta ed in ogni caso tale da giungere in tempi (più) ragionevoli».

Di particolare valore è il suggerimento di considerare, in sede di valutazioni di professionalità, la sinteticità e non l’ampiezza dei provvedimenti come parametro per un giudizio positivo (par. 3.5 doc. cit.).

[11] Nell’esordio del documento citato – incentrato sul tema del rapporto tra uffici giudiziari e circuito dell’informazione – si afferma, con felice sintesi, che la «trasparenza e la comprensibilità dell’azione giudiziaria sono valori che discendono dal carattere democratico dell’ordinamento e sono correlati ai principi d’indipendenza e autonomia della magistratura nonché a una moderna concezione della responsabilità dei magistrati».

In passato il Csm aveva approfondito un diverso versante dell’informazione: il rapporto tra Uffici giudiziari e utenza (Risoluzione su Uffici Relazioni con il pubblico e modalità di comunicazione degli Uffici giudiziari e del Consiglio superiore della magistratura, approvata il 26 luglio 2010). In tale risoluzione l’organo di governo autonomo della magistratura aveva sostenuto che una corretta strategia comunicativa degli Uffici giudiziari costituisce il presupposto necessario per una moderna e democratica configurazione dei rapporti tra cittadini ed istituzioni ed aveva individuato nella costituzione degli Uffici per il Rapporto con il pubblico una prima forma di risposta a tale esigenza.

[12] Sui temi della comunicazione del giudiziario e del linguaggio dei magistrati è stata costante l’attenzione della Scuola superiore della magistratura.

In particolare sulla questione della comunicazione sono stati promossi i corsi Informazione e giustizia, esperto formatore Francesco Giorgino, anno 2016; Il sistema della giustizia nel mondo della informazione, esperto formatore Donatella Stasio, anno 2017; Alla ricerca di un linguaggio comune tra società e giurisdizione, esperto formatore Edmondo Bruti Liberati, anno 2018.

Sul linguaggio della giurisdizione vanno ricordati i corsi organizzati dalla Scuola superiore della magistratura in feconda collaborazione con l’Accademia della Crusca (Il linguaggio del giudice, anno 2015; Il linguaggio della giurisdizione, esperto formatore Giuseppe Barbagallo, anno 2016; Il linguaggio della giurisdizione, esperti formatori Federigo Bambi e Gianrico Carofiglio, anno 2017; Laboratorio di scrittura giuridica: il linguaggio e gli stili delle sentenze ed il principio di sinteticità degli atti, esperto formatore Federigo Bambi, anno 2018).

Sull’importanza della comunicazione del giudiziario vedi da ultimo D. Stasio, Il ruolo sociale del giurista impone una comunicazione più inclusiva, in questa Rivista on line, Rubrica Controcanto, 23 marzo 2018, www.questionegiustizia.it/articolo/il-ruolo-sociale-del-giurista-impone-una-comunicazione-piu-inclusiva_21-03-2018.php.

[13] In ambito europeo sono numerosi i contributi di studio e gli atti ufficiali dedicati alle questioni della informazione sull’attività giudiziaria.

Si veda, al riguardo, il §19 della Raccomandazione Rec(2010)12 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri, sul tema dell’indipendenza, efficacia e responsabilità dei giudici, adottata il 17 novembre 2010 nel quale si legge: «I procedimenti giudiziari e le questioni relative all’amministrazione della giustizia sono di pubblico interesse. Il diritto all’informazione in materia deve però essere esercitato tenendo conto delle limitazioni imposte dall’indipendenza della magistratura. Deve essere incoraggiata la creazione di posti di portavoce giudiziario o di servizi stampa e comunicazione sotto la responsabilità dei Tribunali o sotto il controllo dei Consigli superiori della magistratura o di altre autorità indipendenti. I giudici devono dar prova di moderazione nei loro rapporti con i media».

Significativo è anche il § 14 (Accesso alla giustizia. Trasparenza) della Magna Carta dei giudici approvata il 17 novembre 2010 dal Consiglio consultivo dei giudici europei (Ccje) che recita: «La giustizia deve essere trasparente e debbono formare oggetto di pubblicazione informazioni sul funzionamento del sistema giudiziario».

L’European network of councils for the judiciary, nel rapporto intitolato Public Confidence and the Image of Justice – Report 2017-2018, approvato a Lisbona il 1° giugno 2018, esamina la prospettiva della comunicazione in ambito giudiziario e suggerisce l’adozione di piani d’azione nazionali, verifiche periodiche del livello di fiducia del pubblico, la formazione professionale specifica (per capi degli uffici, giudici, procuratori, personale amministrativo), l’elaborazione di «linee-guida» sui rapporti tra il giudiziario e i media. Raccomanda inoltre la nomina come “spokeperson” di giudici o procuratori con specifica formazione in tema di comunicazione e l’istituzione di uno “specialised department” che impieghi professionisti nella comunicazione sotto la direzione del “press judge/prosecutor”.

In precedenza lo stesso organismo aveva elaborato rapporti sulle relazioni tra giudiziario e mezzi d’informazione (2005-2006); sulla fiducia del pubblico (2009-2010) e sulla misura di tale fiducia in ambito nazionale e transnazionale (2010-2011); su giustizia, società e media (2011-2012); sulla fiducia pubblica e l’immagine della giustizia (2017-2018). Vedi anche la Risoluzione di Bucarest sulla trasparenza e l’accesso alla giustizia (29 maggio 2009); la Dichiarazione di Roma in occasione del decimo anniversario dell’Encj (11-13 giugno 2014); la Dichiarazione di Parigi sulla giustizia resiliente (9 giugno 2017).

Assai ampia è stata anche l’elaborazione di organismi operanti in ambito europeo sul delicatissimo tema delle informazioni provenienti dagli uffici del pubblico ministero.

Meritano di essere ricordate in proposito le Raccomandazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri: Rec(2000)19 e Rec(2012)11 sul ruolo del pubblico ministero – rispettivamente – nel sistema di giustizia penale e al di fuori di esso; Rec(2003)13 sulla diffusione delle informazioni attraverso i media in relazione ai procedimenti penali; Rec(2010)12, Giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità; Rec(2011)7 relativa ad una nuova nozione di media.

Si vedano inoltre i pareri del Consiglio consultivo dei giudici europei (Ccje): n. 7(2005), Giustizia e società; Magna Carta of Judges (Fundamental Principles) (2010); n. 14(2011), Giustizia e tecnologie dell’informazione(IT).

Nel parere del Consiglio consultivo dei procuratori europei (Ccpe): n. 8 (2013), Rapporti tra il pubblico ministero e i mezzi di informazione, si legge tra l’altro: «Gli Stati membri o il pubblico ministero dovrebbero realizzare una policy of communications per far sì che i media abbiano accesso ad informazioni adeguate, necessarie ad informare il pubblico in merito al lavoro del pubblico ministero. Le «linee-guida» relative ai rapporti con i mezzi di comunicazione potrebbero anche essere incluse nei codici etici dei procuratori. Si tratta, per il pubblico ministero di ogni Stato membro, di esaminare quale sia il modo migliore di comunicare con i media e fino a che punto farlo, sulla base della situazione, della legislazione e delle tradizioni».

Nel parere congiunto Cccje-Ccpe, Dichiarazione di Bordeaux (2009), intitolato Giudici e magistrati del pubblico ministero in una società democratica, si afferma che «è interesse della società che i mezzi di comunicazione possano informare il pubblico sul funzionamento del sistema giudiziario» e si auspica la redazione per la magistratura giudicante e requirente di codici di buone prassi o linee-guida in ordine ai loro rapporti con i mezzi di comunicazione (Both judges and prosecutors should draw up a code of good practices or guidelines for each profession on its relations with the media).

[14] Si pensi, per fare un solo esempio, alla situazione – che suscita lo stupore di studiosi e magistrati stranieri – di un giudice penale della nostra Corte cassazione, tenuto a scrivere in media tra le 400 e le 500 sentenze all’anno. Un dato, questo, che non può costituire un alibi per l’oscurità e la mancanza di uno sforzo di sinteticità ma che serve ad inquadrare il difficile contesto nel quale si iscrive l’impegno per un diverso modo di scrittura.

[15] Sui rapporti dei magistrati con la stampa mi sia consentito rinviare a N. Rossi, Giustizia e informazione. Poteri infedeli, poteri nemici? in questa Rivista edizione cartacea, n. 4/2008, Franco Angeli, Milano.