Magistratura democratica

Introduzione.
Il dovere di comunicare dei magistrati:
la sfida per recuperare fiducia nella giustizia

di Donatella Stasio

Nell’epoca della comunicazione e contro il “cattivismo” diffuso che sembra connotare lo spirito dei tempi, diventa ancora più urgente un’etica della comunicazione. La magistratura deve farsi carico dell’aspettativa sociale di conoscere e di comprendere la complessità della giustizia. Ma il dovere di comunicare presuppone la costruzione di una solida e diffusa cultura della comunicazione. Questa è, dunque, la sfida che attende la magistratura tutta, per recuperare credibilità e soprattutto fiducia, caduta ai minimi storici. La fiducia si nutre infatti della trasmissione del sapere, della promozione della conoscenza, dell’esercizio della trasparenza, di condotte rispettose della dignità dell’interlocutore, dell’ascolto, del rendere conto … . Si tratta di una “riforma” improcrastinabile, che chiede ai giudici (e in generale ai giuristi) anzitutto di uscire davvero dall’autoreferenzialità e poi di mettersi in gioco con umiltà, consapevolezza del proprio ruolo sociale, responsabilità, ed elaborazione del lutto di una giustizia perfetta.

1. Parlare di comunicazione istituzionale della giustizia in questo momento storico, e, addirittura, promuoverne una diffusa cultura e una solida etica tra i magistrati, può sembrare un’idea bizzarra, se non una provocazione. Il fai-da-te con cui, oggi, alcune istituzioni politiche (anche oltre i nostri confini) si rivolgono direttamente al “popolo”, contrapponendo alle presunte fake news mediatiche le presunte verità in diretta Facebook, Twitter, Instagram, Youtube, sicuramente non aiuta a far maturare l’idea di una comunicazione diversamente doverosa e a coglierne il peso strategico per la tenuta della democrazia. Non aiuta ad abbattere il totem del silenzio – altezzoso, comodo, difensivo – «retaggio di una visione sacerdotale» della giustizia (Beniamino Deidda) e a far radicare la consapevolezza di un «dovere di spiegare e di spiegarsi, che permetta alla magistratura di divenire una componente attiva, responsabile e incisiva della moderna società della comunicazione» (Nello Rossi). Non aiuta neppure a superare le diffidenze per il rischio-propaganda o protagonismo. Né consente di mettere a fuoco l’obiettivo di questa necessaria svolta culturale, che non è il consenso popolare – come lo spirito del tempo induce a pensare – ma “solo” (si fa per dire) il recupero, se non la costruzione, di un saldo rapporto di fiducia con i cittadini.

Non è cosa da poco. Tutt’altro, se si pensa che anche dalla fiducia nella giustizia dipende la coscienza del nostro stare insieme, il senso di appartenenza a una comunità profondamente democratica. E la fiducia si nutre anche della trasmissione del sapere, della promozione della conoscenza, dell’esercizio della trasparenza, del riconoscimento e del rispetto della dignità dell’interlocutore, dell’ascolto, del rendere conto … .

Del resto, una democrazia matura ha bisogno di un’opinione pubblica informata e critica. Perciò, la qualità del discorso pubblico è un bene comune da tutelare e nessuno – tanto meno la giustizia – può non farsene carico, pensando di delegare ad altri questo compito.

Sfida difficile.

Viviamo nell’era della comunicazione «ma abbiamo perduto la capacità di comunicare», ci ricorda Vittorio Lingiardi. E per di più, il Censis, nel suo ultimo Rapporto (il 52mo) ci descrive come un popolo in preda a «un cattivismo diffuso, che erige muri invisibili ma spessi». Bucare quel muro, tirato su con il cemento della paura, della rabbia, del risentimento e della diffidenza, è una sfida tanto difficile quanto ineludibile, che si impone a chiunque abbia a cuore la democrazia.  

«Il pastore sa che le sue parole rischiano di essere impopolari, eppure non si astiene dal pronunciarle» scrive Giancarlo De Cataldo, citando il bellissimo romanzo di Kent Haruf, Benedizione, per sottolineare che, così come il compito del pastore non è inutile, anche se nel breve periodo può sembrarlo, «il dovere del giudice di rendere la migliore motivazione possibile non può mai essere negletto» e la sua utilità «si misura in un tempo che non è quello delle passioni immediate». Dunque, non c’è spazio per un pur comprensibile scetticismo. Il diritto di comunicare è, oggi, più che mai dovere. E poiché, come ricorda Elisabetta Cesqui, i giudici parlano, oltre che con le sentenze, «con i loro comportamenti, con il modo in cui organizzano gli uffici e con cui si pongono nei confronti di chi, vittima o reprobo, incrocia il loro cammino nei luoghi di giustizia, essi non possono sottrarsi al dovere di rendere comprensibile il loro agire». Forse non è questa la strada della popolarità ma certamente è quella che imbastisce la fiducia o ne ricuce lo strappo con i cittadini per garantirne la loro effettiva partecipazione democratica.

Dal 2011 ad oggi, la fiducia nella giustizia è andava via via diminuendo. Pur rientrando in un quadro generale di disaffezione dei cittadini verso le istituzioni, la caduta è stata vertiginosa e preoccupante. Secondo un sondaggio realizzato da Ipsos per Il Corriere della sera (pubblicato il 10 novembre scorso), siamo passati dal 67 al 44%. Ventitré punti percentuali in meno: un’enormità. Il sondaggio rileva anche che aumenta l’insoddisfazione dei cittadini per i tempi dei processi e per l’esito delle sentenze. Ma certo non si tratta di due criticità recenti, posto che i tempi biblici dei processi affliggono da sempre la giustizia, e da sempre l’esito dei processi – soprattutto se non coincide con le aspettative del cittadino o se è segnato dalla prescrizione – condiziona negativamente il “sentimento popolare” sulla giustizia. Inoltre, se storicamente la figura del giudice (a differenza del poliziotto, dell’ispettore, dell’avvocato) non è mai stata frequentata con particolare simpatia da scrittori, poeti, pittori, sceneggiatori, e ha suscitato diffidenza e freddezza più che empatia, è anche vero che in alcune stagioni recenti della nostra storia (basti pensare agli anni di Tangentopoli), giudici e pubblici ministeri sono stati vissuti come simboli di verità e giustizia e la loro difesa spesso ha riempito le piazze.

Che cosa è cambiato, allora, in questi sette anni per giustificare il crollo vertiginoso della fiducia nella giustizia? Nulla, se non lo scenario politico: fino a novembre 2011 ha governato (per lo più) Silvio Berlusconi mentre successivamente si sono avvicendati governi tecnici, governi promiscui, governi misti di centrosinistra e centrodestra, fino all’attuale governo giallo-verde. Il massimo della fiducia nella giustizia, quindi, si è registrato durante il ventennio berlusconiano (malgrado i continui attacchi ai magistrati, e probabilmente proprio come reazione ad essi) mentre, dall’uscita di scena di Berlusconi in avanti, quel patrimonio (forse non così solido come sembrava) è stato dilapidato. Le cause sono molteplici e non è questa la sede per analizzarle. Oggi, però, non si può non fare i conti con questa grave e progressiva disaffezione. E, oggi più che mai, bisogna dare ascolto all’aspettativa sociale di una giustizia che – al di là delle performance ma a maggior ragione se le performance non sono positive – sia comprensibile, trasparente, affidabile, inclusiva nel rapporto con il cittadino, nel linguaggio che usa e nei comportamenti che pone in essere.

L’attuale deriva populista è un ulteriore elemento che impone di sviluppare una cultura della comunicazione giudiziaria capace di spiegare la complessità dell’esistente, quanto meno per arginare le fake news che ne scandiscono spesso la narrazione. Fake che non nascono con internet ma che il web diffonde a una velocità mai conosciuta prima. E il fattore tempo è decisivo per cristallizzare verità o presunte tali. Nel saggio Verità e politica, Hanna Arendt già segnalava i rischi della “tecnica”, che, se da un lato alza il livello delle libertà, e quindi della democrazia, dall’altro lato «ha un potenziale di distorsione dei fatti tale da sostituire un mondo fittizio a quello reale»: tanto la menzogna sistematica di stampo totalitario quanto la fabbricazione di immagini nelle democrazie di massa, scriveva, «sarebbero impensabili senza l’esistenza di tecniche capaci di amplificare e rendere pervasiva la mistificazione».

Peraltro, nell’ultimo congresso dell’American Psycological Association è emerso che la tendenza a credere alle fake news avrebbe addirittura radici nell’infanzia. Il meccanismo che ci porta a credere a notizie poco credibili è il cosiddetto “pregiudizio di conferma”: dal punto di vista cognitivo ed emotivo è meno faticoso accettare informazioni che avallano le nostre credenze, giuste o sbagliate che siano, e “dimenticare” quelle contrarie. In sostanza, fin da giovanissimi sviluppiamo una modalità di pensiero per ridurre l’ansia derivante dalle incertezze del mondo e ci trinceriamo dietro certezze, anche infondate, pur di non doverci confrontare con la complessità. Con evidenti ricadute negative sulla capacità di sviluppare un serio spirito critico.

Confronto con la complessità e spirito critico sono invece essenziali per far crescere una democrazia. Bisogna perciò stimolare l’uno e l’altro, muovendosi, ovviamente, sul terreno dei fatti. E se, come diceva Arendt, la verità non è annoverabile tra le virtù politiche, è invece bene che lo sia tra le virtù di istituzioni come la magistratura, che dovrebbe avere nel suo dna, oltre ad autonomia, indipendenza e imparzialità, anche la credibilità. Perciò è più che legittimo aspettarsi almeno una tendenziale verità quando la magistratura si rivolge ai cittadini o partecipa al dibattito pubblico. La giustizia, infatti, ha molte “facce”: è funzione, potere, servizio, istituzione, e a ciascuna di esse corrisponde un diverso diritto/dovere di comunicare, che però ha come tratto comune, oltre alla chiarezza, l’affidabilità della comunicazione, anche quando questa ha un taglio più “politico”, come la comunicazione della magistratura associata. L’affidabilità non implica necessariamente la coerenza ma certamente il dovere di saper spiegare all’opinione pubblica i cambiamenti di posizione, soprattutto se in precedenza, in nome di quelle posizioni, ci si è rivolti proprio all’opinione pubblica per sostenere le proprie “battaglie”. 

Quando un magistrato parla o scrive, rivolgendosi al grande pubblico, osserva Nello Rossi, il cittadino «ha il diritto di attendersi che il suo potenziale accusatore o giudice parli e argomenti in modo chiaro e comprensibile; che partecipi al discorso pubblico come un attore razionale, capace di ascolto degli argomenti altrui e di repliche meditate, che non prorompa nell’urlo fazioso, nell’invettiva, nella semplificazione magari brillante ma brutale e fuorviante». Questo lo rende affidabile, credibile. Questo è il suo dovere, attraverso il cui esercizio concorre responsabilmente a coltivare la fiducia dei cittadini.

Ma affidabilità non significa neppure assoluta prevedibilità delle decisioni, tanto più in una prospettiva in cui – con buona pace degli algoritmi – l’interpretazione del giudice è destinata sempre più ad essere decisiva nell’adeguare l’ordinamento giuridico alla mutevolezza e complessità della realtà. Lo spiega in modo esemplare Paolo Grossi, nella parte di questo volume dedicata alla “prevedibilità”. Il presidente emerito della Corte costituzionale, da storico del diritto scrive di aver «preso atto di un itinerario che si sta distanziando dalle certezze moderne, ordinando la società e i suoi bisogni con approcci e soluzioni profondamenti nuovi». Questa strada ha un «costo da pagare», rappresentato da «una diffusa incertezza e da una scarsa, difficile prevedibilità». Al tempo stesso, però, questa «è anche la strada che permette al diritto di avvicinarsi alla giustizia», conclude Grossi. Il che rende ancora più evidente la necessità di una comunicazione chiara e tempestiva da parte del giudice.

Dunque, il dovere di comunicare – a prescindere dalla mediazione giornalistica, che non va certo bypassata – risponde anzitutto all’esigenza di farsi comprendere per consentire un efficace controllo sociale – contrappeso dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura – spesso ignorato o minimizzato da una giustizia prevalentemente “in difesa”, silente e soprattutto autoreferenziale, anche nelle parole che usa e che appartengono a un linguaggio specialistico da addetti ai lavori, per pochi intimi. Inoltre, il dovere di comunicare risponde all’aspettativa sociale di entrare “dentro” la complessità della giustizia, senza paura di perdersi o di subire ma per emanciparsi dalle semplificazioni social, dai pregiudizi, dal tifo da stadio, dalle polemiche sterili, dai luoghi comuni. In buona sostanza, per partecipare al dibattito pubblico con cognizione di causa e spirito critico. Non più da spettatore o, peggio, da straniero – come nell’omonimo romanzo di Albert Camus – ma da cittadino appartenente a una comunità, di cui la giustizia è un pilastro fondamentale. E, quindi, da vero protagonista della vita democratica. Comunicare, insomma, per sviluppare il senso di appartenenza dei cittadini alla comunità.

Il cittadino che “incontra” la giustizia (non solo come utente o parte) pretende perciò un registro comunicativo che anzitutto riconosca e rispetti la dignità dell’interlocutore, esigenza mirabilmente descritta da Elvio Fassone in questo volume e di per sé sufficiente a spiegare la necessità di un approccio al tema della comunicazione diverso da quello tradizionale, declinato per lo più in termini di divieti e patologie invece che di doveri e di saperi. Un approccio “costituzionale”, posto che il dovere di comunicare – per tutto quanto si è già detto e si dirà ancora – trova direttamente nella Costituzione la sua vera ragion d’essere (Deidda).   

 

2. Non mi interessa l’immagine della giustizia ma la giustizia dice Isabelle Huppert in un film di Claude Chabrol uscito in Italia nel 2006 – La commedia del potere – ispirato a un noto caso di cronaca giudiziaria francese degli anni ’90. La Huppert interpreta Eva Joly, magistrata rigorosa, ai limiti del fanatismo, alle prese con una grossa indagine di corruzione che coinvolge politica, finanza, magistratura. Huppert/Joly è circondata da figure terribili e squallide, totalmente prive del senso di giustizia e di principi morali, tra cui il procuratore capo. Il quale, sensibile alle pressioni provenienti dall’alto per fermare quella scomoda inchiesta, invita la collega a prendersi una vacanza, le offre promozioni fittizie, le affianca una collaboratrice nella convinzione che «le donne tra loro si massacrano» (previsione che, come spesso accade in questi casi, si rivelerà sbagliata). Ed è proprio lui, il procuratore, che la invita a farsi carico dell’«immagine della giustizia». Ed è a lui che la Huppert/Joly risponde «Non mi interessa l’immagine della giustizia ma la giustizia».

In questa frase – che offre molti spunti di riflessione – si misura la distanza tra immagine e realtà, tra realtà e rappresentazione, tra realtà e percezione. È la distanza che separa l’istituzione dal cittadino e che con il tempo rischia di diventare un baratro.

Il film di Chabrol è stato l’occasione per cominciare a ragionare, a scrivere, e a sollecitare una riflessione sulla comunicazione giudiziaria intesa più come dovere che come diritto e, quindi, in una prospettiva per certi versi nuova. Un percorso tutto in salita. Da almeno sette anni – su Il Sole 24 Ore, in convegni, seminari, sedi istituzionali, e anche su questa Rivista – ho sostenuto che la “comunicazione giudiziaria” – intesa come diritto/dovere della giustizia di comunicare la giustizia, indipendentemente dalla mediazione giornalistica – è cruciale per rendere effettivo il controllo sociale, colmare la distanza con i cittadini, recuperando la loro fiducia, e contribuire a migliorare la qualità della democrazia.

In particolare, proprio la consapevolezza del controllo sociale implica – o dovrebbe implicare – una declinazione del principio di responsabilità anche come dovere del giudice di rendere conto ai cittadini. Quindi, non in funzione di una particolare strategia (investigativa, di carriera o di consenso popolare) ma di un più generale dovere di trasparenza e di chiarezza. Che, come diceva Piero Calamandrei, è «una garanzia della giuridicità dei contenuti», perché tutto ciò che è oscuro, aggiungeva Vittorio Scialoja, «non può appartenere al diritto».

Ma la comunicazione non si improvvisa. Né può essere delegata ad altri. Se non in seconda battuta. Richiede una specifica forma mentis e un allenamento costante. E richiede anzitutto un costume, un’etica, che accompagna il magistrato fin dai suoi primi passi, con l’acquisizione (per nulla scontata, purtroppo) della consapevolezza del proprio ruolo sociale e di come questo ruolo gli imponga di riconoscere i propri interlocutori anche attraverso una comunicazione inclusiva. Che, perciò, non si esaurisce nel comunicato stampa, nella conferenza stampa o nella dichiarazione pubblica davanti alle telecamere e neppure nell’informazione online ma è qualcosa di più e di meglio, perché ha a che fare con “l’essere magistrato”. È quella che Fassone chiama l’«etica della relazione, ovvero un’interpretazione del ruolo ispirata alla consapevolezza che il rapporto tra magistrato e cittadino è inteso come rapporto tra persone di pari dignità».

Davvero efficace, anche se dichiaratamente forzato, il parallelismo che Vittorio Lingiardi propone tra psicoterapeuti e giuristi e in generale fra tutte le professioni che implicano una declinazione relazionale della conoscenza. «Occorre aprire una finestra nella stanza d’analisi. Io non sono se non in un campo psichico con gli altri, con la gente, gli edifici, gli animali, le piante», scrive James Hillman e Lingiardi si chiede (e ci chiede): «Non vale forse per i giuristi come per gli psicoanalisti? L’invito – aggiunge – non riguarda tanto le tecniche, quanto i rischi dell’isolamento e dell’autoreferenzialità».

 

3. La Scuola superiore della magistratura ha cominciato a cambiare passo su questo fronte, anche se non ancora in modo convinto (e perciò convincente), a differenza di quanto avviene all’estero (per esempio in Francia) dove la comunicazione giudiziaria è una specifica competenza professionale della magistratura. Come riferisce Nicoletta Giorgi, la formazione deve coinvolgere prima di tutto un cambiamento culturale, fin da quando i magistrati cominciano a muovere i primi passi.

Ecco perché ha ragione Luigi Ferrarella quando, a proposito delle «Linee guida» del Csm varate nel 2017, nota una contraddizione: se si ammette che la comunicazione giudiziaria è uno dei doveri istituzionali della magistratura, allora «il tema del come comunicare quello che si fa nei Tribunali e nelle Procure non può continuare a essere limitato ai soli dirigenti degli uffici giudiziari e vissuto invece da tutte le altre toghe come un fastidio, come un ulteriore fardello del proprio lavoro, ma deve diventare un pezzetto del loro lavoro». Dall’inchiesta di Raffaella Calandra sembra emergere una nuova sensibilità culturale dei magistrati più giovani sulla comunicazione, per la necessità di ridurre le distanze con l’opinione pubblica. E tuttavia, se forte è l’esigenza di uscire dalla torre d’avorio non altrettanto forte è la consapevolezza che ciascuno deve mettersi in gioco. Prevale ancora l’idea che la comunicazione sia affare di pochi, competenza di alcuni magistrati appositamente formati o di professionalità esterne. In sostanza, ancora oggi sembra prevalere l’idea che la comunicazione, se non un fastidio o un ulteriore fardello, non debba rientrare nel bagaglio culturale del magistrato né debba “appesantirne” il lavoro. Si conferma, dunque, il quadro emerso nel 2015 dall’Indagine svolta, per conto della Scuola superiore della magistratura, da Nadio Delai e Stefano Rolando, citata da Calandra: all’epoca solo il 13% dei magistrati avvertiva la necessità di incrementare una formazione nella comunicazione.

Eppure, la fiducia, il rispetto, la credibilità dipendono anche da come il magistrato rende comprensibile le proprie decisioni alle parti e ai cittadini. Anche perché se non lo fa lui, osserva Ferrarella con la sua esperienza di cronista giudiziario, ci pensa qualcun altro, al posto suo: forze di polizia, avvocati, persino staff di pubbliche relazioni, che nel silenzio delle toghe, occupano lo spazio tra l’attività giudiziaria e la sua rappresentazione, manipolandole e influenzandone l’opinione pubblica.

Secondo Ferrarella, però, c’è il rischio che la comunicazione giudiziaria, per com’è concepita nelle «Linee guida» del Csm, si riduca alla costituzione di Uffici stampa presso Procure, Tribunali e Corti che puntino a indirizzare la comunicazione mediatica. Il timore, insomma, è che il dovere di comunicare sia finalizzato più a una determinata “strategia comunicativa” dell’Ufficio che a rendere conto dell’operato di quell’Ufficio. E che, quindi, gli Uffici giudiziari, e chi li dirige, possano interpretare in questi termini la comunicazione, esaurendola in una sorta di informativa ed escludendo qualunque interlocuzione con terzi, siano giornalisti o cittadini comuni.

Una ragione di più per coltivare la “cultura” della comunicazione intesa anzitutto come etica della relazione.

Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica di Roma, è stato tra i primi interpreti di questa cultura, tanto che considera persino inutile dotarsi di Uffici stampa, i quali potrebbero dare notizie «del tutto insufficienti (per i giornalisti)». Ma quel che più conta – rispetto al “come” comunicare – è la sua affermazione che «il diritto dell’accusato, e anche il principio di non colpevolezza, si rispetta garantendo un processo equo e corretto anche sotto il profilo dell’informazione fornita». Il che implica, appunto, una profonda consapevolezza della funzione della comunicazione giudiziaria e delle responsabilità che ne derivano. Ma questo è un terreno ancora da arare perché, purtroppo, talvolta i pubblici ministeri perdono questa bussola e, quando comunicano, si preoccupano più dell’immagine che della giustizia.

 

4. Antoine Garapon scriveva, nel 2007, che «essere un buon giudice, in una democrazia, esige la permanente elaborazione del lutto di una giustizia perfetta». E forse è proprio da qui – dalla consapevolezza dell’imperfezione della giustizia – che bisognerebbe partire per avviare un percorso culturale e formativo – dunque pre-giuridico – sul dovere della comunicazione giudiziaria.

Imperfezione non come alibi comunemente usato per giustificare i buchi neri della giustizia, e dunque per aggirarne le responsabilità, poiché questa strada porta solo all’immobilismo. D’altro canto, però, chiunque cercasse nella giustizia la perfezione, ora e sempre, sarebbe condannato a una frustrazione foriera di rabbia e di risentimento. E, dunque, a quel cattivismo che si sta impossessando – nell’analisi del Censis – del nostro Paese. È lì che stiamo andando, per mancanza di conoscenza e di consapevolezza della realtà.

Non a caso, il 52mo Rapporto non solo conferma la sfiducia dei cittadini nella giustizia ma, attraverso numeri e percentuali, la fa risalire soprattutto all’incapacità del sistema di garantire pienamente la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo: lo pensano 7 italiani su 10 e, a quanto pare, il 30,7% della popolazione adulta (cioè 15,6 milioni di persone) nell’ultimo biennio ha rinunciato a intraprendere un’azione giudiziaria volta a far valere un proprio diritto. I costi, i tempi, la sfiducia nella magistratura e nel funzionamento del sistema, e sullo sfondo il pessimismo sul futuro … .

Ecco, di questo sentimento occorre certamente farsi carico – ad ogni livello – soprattutto là dove segnala l’incapacità di garantire pienamente i diritti fondamentali della persona. Tuttavia, se questo è – e lo è – il “minimo sindacale” che va garantito, bisogna anche guardarsi dalle «proiezioni idealizzanti» sulla giustizia che sono – ha spiegato la psicoanalista Simona Argentieri in un corso alla Scuola della magistratura – «le più pericolose» perché riflettono «enormi aspettative sull’idea di giustizia e di chi la somministra: aspettative infantili di vendetta o di risarcimento totale per ogni torto o danno subito». Queste aspettative, ha aggiunto Argentieri, sono «le più pericolose anche perché lusingano, a loro volta, le fantasie di onnipotenza del giudice, e conducono inesorabilmente alla delusione».

Pertanto, senza quella «elaborazione del lutto di una giustizia perfetta», la comunicazione giudiziaria rischia di veicolare messaggi distorti e persino nocivi. Al contrario, la consapevolezza dell’imperfezione della giustizia non solo è la leva per migliorarla ma è anche il necessario presupposto di una comunicazione giudiziaria responsabile: forse, non l’antidoto alla deriva cattivista del sentimento collettivo ma certamente, come suggerisce Lingiardi, «l’antidoto alla banalizzazione twitter e all’esibizionismo dialettico, in favore di una comunicazione che porti conoscenza e pensiero nel dibattito pubblico, che faciliti la convivenza tra cittadini e istituzioni, promuovendo una mentalità in grado di muoversi tra idee complesse e spiegazioni semplici e non, come sempre più spesso accade, idee confuse e spiegazioni semplificate».

Una grande occasione, insomma, anche per tentare di uscire dal pantano della paura, del rifiuto della complessità, di un linguaggio impoverito, sgangherato e deresponsabilizzante, che può inghiottire lentamente la democrazia.