Magistratura democratica

Introduzione.
Un percorso che deve coinvolgere l’agire quotidiano dei magistrati per costituire una effettiva svolta culturale

di Vincenza (Ezia) Maccora

Risale al 2008 la spinta del Consiglio superiore della magistratura ad investire sulla comunicazione della giustizia sulla giustizia. In questo ultimo decennio si sono moltiplicate le iniziative in questo settore – Urp, Bilancio sociale, siti internet, attività di sensibilizzazione, attenzione al linguaggio, anche del corpo, con cui il magistrato entra in contatto con le parti – e dalla loro analisi si comprende il tentativo di allineamento delle Istituzioni giudiziarie italiane ai principi espressi a livello europeo. Tanta strada è stata percorsa ed ora spetta ai singoli magistrati il compito di impadronirsi del momento comunicativo, raccogliendo gli stimoli provenienti “dall’alto” e da qualche magistrato antesignano, superando le resistenze culturali che ancora si riscontrano. Questo obiettivo cerca di fare il punto su dove siamo arrivati e sul cammino ancora da percorrere, nella consapevolezza che impegnarsi sul piano della comunicazione/informazione è un dovere di tutti i magistrati e che da questa si alimenta anche la fiducia dei cittadini verso la giustizia.

1. «Parlare di comunicazione istituzionale della Giustizia in questo momento storico, e, addirittura, promuoverne una solida e diffusa cultura tra i magistrati, può sembrare un’idea bizzarra, se non una provocazione».

Così inizia la riflessione introduttiva di Donatella Stasio.

Vorrei proseguire da qui, in un ideale percorso unitario, ripercorrendo le tappe di un cammino avviato da alcuni magistrati, non pochi, che, oltre dieci anni fa, si sono interrogati sulla necessità di aprirsi a questa cultura, promuovendola e diffondendola, consapevoli dell’esigenza di farsi carico del “diritto” della collettività ad essere informata e del dovere dell’istituzione di “dar conto del proprio operare”.

Nella consiliatura 2006/2010, di cui ho fatto parte, il tema della comunicazione è stato centrale e lo testimoniano in particolare due delibere.

Risale al 2008 l’ideazione e l’organizzazione di corsi di formazione rivolti ai magistrati titolari di incarichi direttivi e semidirettivi «Strumenti per i Capi degli Uffici: la comunicazione pubblica, la valutazione delle prestazioni, governare le interdipendenze organizzative». Corsi innovativi per la platea dei destinatari, per le tematiche affrontate e per la metodologia adottate. L’importanza della formazione in tale settore è stata anche sottolineata nella Relazione quadriennale del Consiglio superiore della magistratura 2005/2008 dove si legge «... tale offerta formativa dovrà quanto prima essere estesa al maggior numero possibile di colleghi così da diffondere al meglio la cultura della direzione ed organizzazione e strutturare l’accesso al direttivo come risultato di uno specifico percorso professionale e non come “sbocco avanzato ratione temporis”».

A questo primo significativo passo se ne sono aggiunti molti altri, come ci ricorda Nicoletta Giorgi nella sua riflessione sull’attività formativa svolta dalla Scuola superiore della magistratura in tema di comunicazione giudiziaria, sottolineando come la Scuola ha proseguito il percorso avviato dal Consiglio superiore della magistratura, ampliandone la riflessione, rendendola innanzitutto fruibile a più magistrati e non solo a coloro che rivestono ruoli direttivi. Un settore su cui si dovrà continuare ad investire perché la «formazione deve coinvolgere prima di tutto un cambiamento culturale, valorizzando l’opportunità che già nella formazione dei Mot si parli in modo sempre più compiuto e approfondito del tema della comunicazione, togliendolo dagli argomenti tabù, se mai vi è stato, e inserendolo tra le competenze da acquisire perché non deve essere dimenticato il principio espresso dalla Corte costituzionale poco meno di 40 anni fa e che ha identificato il prestigio dell’ordine giudiziario nella fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità della stessa» (Giorgi).

Infatti, come ci ricorda Franco Ippolito, «se è doveroso rifuggire dalle sirene del consenso, sia di popolo sia di potere, essenziale, per la giurisdizione e per la magistratura, è invece la fiducia dei cittadini, a cominciare da quelle della parti coinvolte nel procedimento giudiziario, “fiducia nell'imparzialità di giudizio dei giudici, fiducia nella loro onestà e nel loro rigore intellettuale e morale, fiducia nella loro competenza tecnica e nella loro capacità di giudizio”.Importante, in questo quadro, è una strategia di comunicazione efficace a tutti i livelli: dalla chiarezza delle motivazione con presa in carico delle ragioni di tutte delle parti, alle informazioni comprensibili sulle più rilevanti decisioni in attesa delle motivazioni, alle deliberazioni degli organi di autogoverno».

Ritornando all’attività del Consiglio superiore, l’altra importante delibera si è avuta con l’approvazione il 26 luglio 2010 della risoluzione «Uffici Relazioni con il pubblico e modalità di comunicazione degli Uffici giudiziari e del Consiglio superiore della magistratura» che ha acceso i riflettori sulla esigenza di interagire con i cittadini rendendoli partecipi di un servizio indispensabile che si nutre anche della fiducia di chi ne usufruisce. «La richiamata svolta di ordine culturale, che qualifica la giustizia non già quale potere ma come pubblico servizio e che, conseguentemente, pone al centro dell’attività giudiziaria il cittadino che invoca il riconoscimento dei propri diritti, impone di dare piena attuazione al principio di buon andamento ed imparzialità di cui all’articolo 97 Cost., il quale oltre a richiedere che l’azione degli uffici giudiziari risponda a criteri di efficienza, implica altresì che le modalità di erogazione del servizio siano sempre più attente alle esigenze comunicative proprie di una società moderna. Del resto, la necessità di abbattere la “cortina di incomunicabilità”[1] tra uffici giudiziari e cittadini è un dato già acquisito dalle magistrature dei Paesi gravitanti nell’area europea. L’attivazione di strutture di comunicazione (Urp) presso tutti gli uffici giudiziari potrebbe quindi promuovere un rapporto fiduciario nei confronti della giustizia da parte della collettività, creando l’immagine di un’amministrazione accessibile e comprensibile, non mera fortezza della legge, ma luogo di tutela dei diritti».

Nella delibera vi è anche un riferimento diretto alla comunicazione esterna quale momento centrale di trasparenza e di comprensibilità dell’attività di una Istituzione: «Il rapporto tra Istituzioni e cittadini nelle democrazie mature implica, infatti, forme di comunicazione che rispondano al diritto di informazione dei cittadini, come discendente dall’articolo 21 della Costituzione; un’amministrazione moderna ha l’obbligo di informare adeguatamente gli utenti in ordine al contenuto della propria attività e, conseguentemente, di predisporre strutture e strumenti idonei per adempiere a tale obbligo».

Entrambe le delibere citate sono, a mio giudizio, esemplificative del nuovo sentire dell’organo di Governo autonomo su un tema che almeno fino a dieci anni fa era poco arato. Il vento del cambiamento che soffiava in quella consiliatura è testimoniato anche dalla scelta di partecipare al primo «Salone della Giustizia», svoltosi a Rimini nel dicembre 2009, che è stato un importante punto di incontro e di confronto tra i cittadini e tutte le realtà che compongono il mondo della giustizia e che ha contribuito a far maturare la piena consapevolezza in capo al Consiglio superiore dell’assoluta indispensabilità di avviare nuove e stabili forme di interlocuzione con i cittadini. Ovviamente mi riferisco alle occasioni di consultazione interattiva, diverse da quella, ad esempio, della inaugurazione dell’anno giudiziario in cui la magistratura si limita a fornire dei dati accompagnati da una lettura ragionata, dove non c’è nessuna interlocuzione con chi ascolta, mentre andrebbero favorite occasioni in cui la collettività è attiva, chi ascolta può fare domande, e dunque anche l’informazione diventa più specifica ed efficace.

Da quel 2008, tanta strada è stata percorsa solo se si guarda, restando nell’ambito dell’attività consiliare, a quanto è stato fatto negli ultimi anni: dalla riqualificazione e ristrutturazione del sito ad accesso pubblico www.csm.it fino alle «Linee-guida» sulla comunicazione approvate dal plenum l’11 luglio 2018. In mezzo a questo decennio troviamo molte altre tappe di rilievo, richiamate da Edmondo Bruti Liberati che invita il Consiglio superiore ad approfondire, omogeneizzare ed implementare ulteriormente le prassi positive esistenti in materia di siti internet degli uffici giudiziari, di Urp e di Bilanci di Responsabilità sociale, e sottolinea l’importanza della ävalorizzazione del profilo del “rendere conto” che deve contribuire ad accrescere nella coscienza di tutti i magistrati il profilo del “servizio” da rendere ai cittadini».

L’ultimo decennio si caratterizza quindi per un positivo fermento culturale ed è per questo che la decisione della Rivista di fare il punto su dove siamo arrivati è particolarmente utile e per niente provocatorio, sia perché mette in luce il cammino fin qui percorso, forse poco conosciuto, sia perché è giunta l’ora di mettere a fuoco gli ulteriori e necessari passi da fare al fine di favorire una comunicazione rapida ed efficace, non superficiale e non destinata solo agli addetti ai lavori.

 

2. Il nostro Paese, peraltro, non poteva non essere coinvolto dalla spinta ad abbracciare una nuova cultura della comunicazione che arrivava dall’Europa e dalle riflessioni che si registravano in altri Paesi in tema di comunicazione giudiziaria.

Ne danno conto sia Maria Rosaria Guglielmi, nel suo ampio excursus su quanto avviene a livello di Istituzione europee sia la riflessione approfondita, con indicazione delle criticità ancora esistenti in Romania, della magistrata Daniela Lecca, già portavoce del Consiglio superiore della magistratura rumeno.

Come più in particolare sottolinea Guglielmi «Il punto di vista europeo … manifesta la consapevolezza che, contribuendo ad una corretta e trasparente informazione, i sistemi giudiziari si rendono partecipi delle dinamiche del dibattito democratico, si confrontano con le aspettative di giustizia dei cittadini e alimentano, in un “percorso circolare”, la fiducia che la collettività deve ricevere dalla magistratura e che alla magistratura restituisce attraverso la comprensione e l’accettazione delle sue decisioni».

Le conseguenze dell’assenza di questo “percorso circolare” le evidenzia Francesco Petrelli quando, guardando al ruolo dell’avvocatura nel nostro Paese, sottolinea «il limite evidente creato … dalla nostra incapacità di comunicare il processo, non solo alla comunità nella quale viviamo, ma anche di utilizzare una lingua comune fra noi operatori». Con la conseguenza che «una società spaventata, resa insicura ed incerta dalla crisi e dalla globalizzazione, ha cessato del tutto di vedere nel diritto uno strumento di realizzazione della persona. Ciò che viene chiesto dal cittadino non sono più diritti ma sono in realtà tutele e protezioni, non nuovi spazi di libertà, ma più benefici e più assistenza, non diritti civili e garanzie della persona per poter sviluppare e veder maturare le proprie aspettative individuali, politiche e sociali».

E d’altra parte, come sottolinea Patrizia Giunti, «la partita per una comunicazione giuridica autenticamente inclusiva sul piano sociale si giocherà … alzando l’asticella, accogliendo la sfida per una professionalità che sappia coniugare la più alta qualificazione tecnica con la più ampia riconoscibilità e credibilità del proprio messaggio, vuoi nel dibattito tra giuristi, vuoi nel circuito sociale delle idee. E la partita sarà persa se, nel costruirne la strategia, ci si dovesse fermare al livello delle pur imprescindibili questioni morfologico-lessicali senza aggredire il livello della dimensione etica rispetto a quella funzione di servizio che il giurista assolve nei confronti del corpo sociale».

 

3. Ritornando al contesto europeo ritengo opportuno richiamare brevemente, anche se sono stati citati dai più autori in varie parti dell’obiettivo, alcuni principi espressi dalle Istituzioni europee perché delineano con nettezza il campo su cui oggi occorre muoversi.

Mi riferisco innanzitutto al parere n. 7 del 2015 del Consiglio consultivo dei giudici europei (Ccje) laddove invita a migliorare i contatti tra uffici giudiziari e mezzi di informazione al fine di rafforzare la comprensione delle funzioni giudiziarie, informare sulla natura, portata e complessità dell’attività giudiziaria, correggere eventuali errori nella comunicazione di singoli casi giudiziari.

Ed ancora al parere n. 8 del Consiglio consultivo dei procuratori europei (Ccpe) che evidenzia come il pubblico ministero, al fine di assolvere le sue funzioni in modo equo, imparziale, obiettivo ed efficace, può considerare opportuno rilasciare ai media un comunicato stampa, una sessione informativa, oppure rilasciare altre comunicazioni, ad esempio tenendo conferenze stampa, rilasciando interviste e/o partecipando a seminari e tavole rotonde ... le nuove tecnologie dell’informazione possono essere largamente utilizzate per informare il pubblico, in modo appropriato e puntuale, sulle attività del pubblico ministero ed altre attività che servono a mantenere la legge e l’ordine dello Stato (42); … ciò può contribuire a dimostrare il coordinamento degli sforzi tra le diverse forze ed evitare e prevenire la diffusione di false informazioni e le conseguenze negative per la società a seguito di reati particolarmente gravi (43).

Al parere congiunto Ccje-Ccpe (Dichiarazione di Bordeaux 2009)laddove specifica cheè interesse della società che i mezzi di comunicazione possano informare il pubblico sul funzionamento del sistema giudiziario ed auspica che siano redatti codici di buone prassi o linee-guida in ordine ai rapporti dei magistrati con i mezzi di comunicazione .

Così anche il Rapporto justice, society and the media – Report 2011.2012 dell’Encj che sottolinea come la trasparenza e comprensibilità dell’azione giudiziaria sono valori indispensabili di una società democratica e rimandano ad una concezione nuova della responsabilità dei magistrati e del dovere del riserbo.

Con riferimento specifico alla comunicazione sulla giustizia penale troviamo poi la raccomandazione Rec 2003 -13 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa adottata il 10 luglio 2003 ed in particolare il Principio 6[2].

Da tutte queste fonti europee possiamo ricavare alcuni importati principi in tema di comunicazione dei procedimenti penali così sintetizzati:

  • quando i procuratori compaiono d’innanzi ai mass media, in qualsiasi veste essi lo facciano, vale a dire sia come rappresentanti dell’ufficio sia a titolo personale, è raccomandato che prestino attenzione ai rischi che possono sorgere per l’immagine d’imparzialità ed integrità del Pm;
  • il Pm nella sua comunicazione deve assicurarsi di non influenzare in nessun modo il processo; ne consegue l’esigenza che le tesi vengano sempre presentate come ipotesi di accusa, soprattutto nel contesto italiano dove non è patrimonio culturale dell’opinione pubblica la distinzione tra avvio di un’indagine, rinvio a giudizio, giudizio dibattimentale e giudicato;
  • occorre salvaguardare la verginità cognitiva del giudice che viene citata dalla raccomandazione Rec 2003(13) del Consiglio d’Europa con riferimento ai giudici popolari;
  • occorre rispettare la presunzione innocenza dell’imputato fino a sentenza definitiva;
  • occorre prestare attenzione alla tutela della vittima, che non deve essere esposta senza necessità alla curiosità del pubblico.

Ma soprattutto occorre richiamare il parere del Ccje 18(2015), che rappresenta il momento più completo della riflessione europea, dove accanto alla legittimazione “costituzionale o formale” del potere giudiziario si pone la legittimazione “funzionale”, che discende dal rapporto di fiducia con i cittadini e dal dover rendere conto alla collettività dell’esercizio dei propri poteri e delle prerogative di indipendenza; … quindi non solo “responsabilità giudiziaria” rispetto al merito delle decisioni assunte (che devono essere pubbliche, motivate e appellabili), ma accesso al più ampio significato di accountability: «i giudici sono tenuti a rendere un servizio trasparente e decisioni motivate interagendo con il pubblico e con gli altri poteri pubblici»(Guglielmi).  

In questa ottica anche l’investimento nella cd giustizia procedurale[3], oggi all’attenzione della Scuola della magistratura, è rilevante. Particolarmente significative sono, infatti, le esperienze degli altri Paesi europei come ad esempio quella svedese. Marie B. Hagsgård, già giudice della Corte d’appello della Svezia orientale[4], ha evidenziato come «le informazioni trasmesse dal giudice e il modo in cui tratta le parti (compreso il linguaggio del corpo) sono risultate essere particolarmente importanti per avere fiducia nella giustizia».

Ed infine l’ulteriore frontiera della comunicazione a cui ci richiama Elvio Fassone, «la comunicazione non è solo svelamento di notizie, ma anche manifestazione del proprio essere attraverso i modi del proprio agire… . Non si comunica un fatto od un'opinione o un messaggio, ma una moralità di fondo, un'interpretazione del ruolo ispirata alla consapevolezza che il rapporto tra il magistrato e il cittadino è inteso come un rapporto tra persone di pari dignità. Questa diversa espressività non fa ancora parte di nessun codice deontologico, ma segnala l'aspirazione a che anche il modo di rappresentare l'istituzione sia orientato da una qualche etica della relazione».  

Un’etica che proprio la magistratura può far propria quando «nell’esprimere le proprie ragioni e nel darsi carico delle ragioni degli altri e dell’interesse generale, reca quel contributo di razionalità e di equilibrio che la collettività si aspetta da chi è investito di delicate funzioni istituzionali» (Ippolito).

 

4. L’invito delle Istituzioni europee a percorrere la strada dell’accountability impone ai magistrati la massima attenzione nei contatti con i media. Armando Spataro chiarisce in modo incisivo le regole a cui occorrerebbe attenersi esemplificando ciò che all’evidenza non deve essere fatto, ed in tal senso significativo appare il richiamo negativo a quei magistrati che parlano solo per rafforzare la propria immagine senza che vi sia alcuna effettiva esigenza di comunicazione, così come all’immagine, da respingere, «del magistrato unico (o quasi) depositario della morale collettiva». Ricorda che anche nei comunicati stampa è indispensabile attenersi «al senso del limite e all’etica del dubbio cui devono conformarsi le parole di un pubblico ministero prima della decisione del giudice». Nella consapevolezza più profonda che «la percezione sociale del magistrato e della giustizia – e dunque la maggiore o minore fiducia, il maggiore o minore rispetto, la maggiore o minore credibilità – si nutre sempre di più anche del “costume giudiziario”, ovvero di come i magistrati si pongono, parlano, scrivono, si comportano, e si relazionano con le parti del processo e con il pubblico …» conseguentemente «l’enfasi con cui certe indagini vengono rappresentate dalla stampa rischia di favorire il diffondersi di una “febbre giustizialista” nell’opinione pubblica, anche al di là degli effetti reali sullo svolgimento dei processi».

Su questa linea di pensiero richiamo da un lato le riflessioni di Giuseppe Pignatone quando sottolinea «la necessita di evitare di rincorrere il consenso popolare, di perseguire un’immagine mediatica a fini di promozione personale o di creare assi privilegiati tra uffici o singoli magistrati e una o più testate giornalistiche», dall’altro quelle di Elisabetta Cesqui che invita a rifuggire dai cd processi mediatici che rappresentano «l’esasperazione dell’interesse della pubblica opinione al processo, dove non è l’informazione che parla del processo, ma il processo che viene celebrato direttamente nell’universo parallelo dei media, con regole, rappresentazioni, protagonisti propri e con pene assai più rapide e non meno afflittive di quelle previste dalla giustizia reale, senza appello, cassazione o corte costituzionale».

 

5. L’esperienza italiana delle prassi comunicative positive rimanda ad alcune significative direttive dei procuratori della Repubblica. Penso alla circolare del procuratore di Napoli Giovanni Melillo del 19.12.2017 laddove sottolinea «la doverosa cura e l’efficace tutela della dignità delle persone sottoposte ad indagini qualora la persona versi in condizione di particolare vulnerabilità, come nel caso in cui sia privata della libertà personale ... in conformità alle precise indicazioni normative le SS.ll. vorranno assicurare-impartendo ogni opportuna disposizione agli uffici e ai comandi dipendenti- la più scrupolosa osservanza del divieto di indebita diffusione di fotografie o immagini di persone arrestate o sottoposte ad indagine nell’ambito di procedimenti la cura dei quali compete a quest’ufficio, segnalando preventivamente le specifiche istanze investigative o di polizia di prevenzione ritenute idonee a giustificare eventuali, motivate deroghe al principio sopra richiamato».

Una circolare ancora più importante se si considera l’attuale contesto storico dove ministri scelgono di sottoporre alla “gogna mediatica” soggetti privati della libertà, trasformando in spot propagandistico l‘arrivo nel nostro Paese e la traduzione in carcere di un latitante, pur di catturare consenso all’azione di governo, in evidente violazione di norme di legge (art. 114 cpp e 42 bis ordinamento penitenziario) ed in spregio agli stessi principi costituzionali ed europei.

I magistrati comunicano poi anche attraverso l’interpretazione delle norme processuali. Il riferimento va alla circolare del 2.10.2017 del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone in tema di modalità e tempi di iscrizione degli indagati nel registro ex art. 335 cpp «Se invero è evidente la funzione di garanzia che riveste l’iscrizione all’interno del procedimento, non può essere trascurato che la “condizione di indagato” è connotata altresì da aspetti innegabilmente negativi, tanto da giustificare –secondo la Corte costituzionale, sent. 174/1992- la previsione di un termine delle indagini preliminari. Non può essere infatti trascurato che dall’iscrizione si dispiegano, per la persona indagata, effetti pregiudizievoli non indifferenti sia sotto il profilo professionale sia in termini di reputazione … in definitiva: l’iscrizione ha, molto spesso, un “costo” significativo anche per colui nel cui (astratto) interesse viene effettuata ed è inoltre soggetta ad essere sollecitata per ragioni di carattere strumentale del tutto estranee alle fisiologiche dinamiche processuali. Queste considerazioni impongono di abbandonare una concezione formalistica imperniata sull’approccio ispirato ad una sorta di “favor iscritionis”, criterio non formalizzato ed estraneo al sistema. Al contrario: procedere ad iscrizioni non necessarie è tanto inappropriato quanto omettere le iscrizioni dovute». Tutti siamo consapevoli dell’attenzione mediatica riservata a tale provvedimento (iscrizione) e delle conseguenze distorte che ne possono derivare dato che nella opinione pubblica lo status di indagato è ormai equiparato a quello di imputato o addirittura condannato. Le direttive contenute nella circolare citata rappresentano un’assunzione di responsabilità in capo al pubblico ministero perché consentono di prevenire gli effetti mediatici distorti che potrebbero discendere da tale atto.

Esempi concreti di magistratiche «parlano anche con i loro comportamenti, con il modo in cui organizzano gli uffici, con il modo in cui si pongono nei confronti di chi … incrocia il loro cammino nei luoghi della giustizia e non possono sottrarsi al dovere di rendere comprensibile il loro agire» (Cesqui).

Il pensiero corre alla riflessione di Luigi Ferrajoli, che sono solita richiamare negli incontri nelle scuole sulla legalità, «Ogni giudice, nella sua lunga carriera, incontra migliaia di cittadini: come imputati, come parte offese, come testimoni, come attori o come convenuti. Naturalmente non ricorderà quasi nessuna di queste persone. Ma ciascuna di queste migliaia, di questi milioni di persone, indipendentemente dal fatto che abbia avuto torto o ragione, ricorderà e giudicherà il suo giudice, ne valuterà l’equilibrio o l’arroganza, il rispetto oppure il disprezzo per la persona, la capacità di ascoltare le sue ragioni oppure l’ottusità burocratica, l’imparzialità o il pre-giudizio. Ricorderà, soprattutto se quel giudice gli ha fatto paura o gli ha suscitato fiducia».

 

6. Lontani appaiono i tempi descritti da Deidda se si guarda all’attività di sensibilizzazione che negli ultimi anni sta svolgendo la Corte costituzionale. Un’esperienza esemplificativa è il «Viaggio in Italia della Corte», con i giudici costituzionali che visitano le scuole secondarie per parlare con gli studenti, per interloquire con loro con un linguaggio inclusivo, rendendoli partecipi del patrimonio costituzionale. In questo modo – come scrive il presidente Grossi nella relazione annuale –«la Corte, con tutte le donne e tutti gli uomini del suo apparato, è “protagonista” di un itinerario etico e giuridico che viene da molto lontano e che riguarda la nostra storia comune e quella che stiamo costruendo».

Un esempio concreto ed attuale di quella attività di sensibilizzazione che costituisce un aspetto della più ampia comunicazione giudiziaria a cui ci richiamano le Istituzioni europee.

Così come più che significativa è la scelta di entrare in contatto con i detenuti reclusi nelle carceri italiani, il secondo fronte del «Viaggio nel Paese reale, dove è stata inverata la più avanzata idea di comunicazione, spiegandosi e spiegando la Costituzione ad un uditorio difficile, che peraltro si è rivelato per nulla ostile e molto interessato ad un’interlocuzione effettiva e limpida; e anche ai contenuti che questa interlocuzione offriva»[5].

Ed anche qui significative sono le parole del presidente Giorgio Lattanzi nel motivare questa scelta «Credo sia utile dialogare anche con queste persone, non per discettare della “Costituzione più bella del mondo” bensì per ribadire che secondo quella Costituzione la legittima privazione della libertà personale non cancella la tutela dei diritti. Il messaggio è: la Costituzione e la Corte ci sono per tutti, anche per voi»[6].

Anche la magistratura ordinaria si muove nell’area della sensibilizzazione. Molteplici sono le iniziative organizzate dall’Associazione nazionale magistrati con le scuole in attuazione della Carta d’Intenti siglata il 27.11.2018 tra Csm, Anm, Dna, Anac e Miur[7].

 

7. Mi soffermo infine su una questione cruciale in tema di comunicazione giudiziaria, affrontata nelle Nuove «Linee Guida» approvate dal Consiglio e che merita a mio giudizio un particolare apprezzamento: le modalità di comunicazione all’opinione pubblica della sentenza penale.

La questione si pone per i procedimenti molto complessi e sensibili, dove quasi mai la motivazione viene depositata contestualmente alla lettura del dispositivo.

In questi ultimi anni i media, dopo la lettura di alcuni dispositivi di particolare interesse pubblico, si sono sbizzarrirsi sul perché i giudici sono giunti a determinate decisioni, anche solo diversamente interpretando la formula assolutoria adottata. I giornalisti non conoscono il percorso motivazionale sotteso al dispositivo, dato che trattandosi di decisioni complesse, la sentenza non viene mai depositata prima di 90 giorni dalla lettura del dispositivo. Con la conseguenza che nelle more tra la lettura del dispositivo e il deposito della motivazione, ogni giornalista “racconta” la decisione secondo la propria chiave di lettura. Pensiamo al processo Ruby, celebrato presso la Corte d’appello di Milano che ha assolto Silvio Berlusconi riformando la sentenza di condanna in primo grado, e a ciò che abbiamo letto ed ascoltato dai mezzi di comunicazione che, nella settimana seguente alla lettura del dispositivo, avvenuta il 18.7.2014, hanno prospettato all’opinione pubblica la propria interpretazione delle argomentazioni tecniche/giuridiche che avevano portato la Corte a ribaltare il giudizio di condanna di primo grado[8]. In quel contesto una opinione pubblica disorientata si è formata il proprio convincimento sulla base delle possibili diverse “letture, tutte legittime ma anche contrastanti tra di loro, che di quella decisione sono state date dai principali mezzi di informazione. Convincimento che potrebbe anche essersi dimostrato errato dopo il deposito delle motivazioni, ma che difficilmente sarà stato rimosso a distanza di tre mesi da quando si è formato. 

Gli esempi potrebbero moltiplicarsi e richiedono una soluzione perché la comprensione corretta delle decisioni è strumento indispensabile per mantenere quel rapporto di fiducia tra magistratura e cittadino che è il sale di ogni democrazia.

Fermo restando che ci sarà sempre un divario tra i tempi dell’informazione e quelli del processo, occorre trovare, laddove possibile, le modalità più idonee a rendere comprensibili all’opinione pubblica le decisioni più rilevanti, sapendo che si tratta di agire su un piano diverso da quello più tecnico che rimanda al controllo della decisione nei gradi successivi di giudizio.

A livello europeo vi è un’indicazione specifica nel parere sopra citato del Consiglio consultivo dei giudici europei, che evidenzia l’opportunità, per una maggiore comprensione delle sentenze, di comunicare agli organi d’informazione la sintesi delle decisioni da parte dell’ufficio giudiziario.

In passato, i giudici che si sono assunti il compito di spiegare alle parti la decisione che avevano assunto sono apparsi a dir poco stravaganti ed alcuni sono stati sottoposti anche a procedimenti disciplinari. Ricordo il comportamento del presidente del collegio nel maxi-processo per il Petrolchimico di Porto Marghera, quando nel 2001, dopo dieci giorni di Camera di consiglio nell'aula bunker di Mestre, è stata letta la sentenza di primo grado che ha assolto tutti gli imputati, accusati di strage, omicidio e lesioni plurime per aver causato 157 morti per tumore tra gli operai del Petrolchimico, e disastro colposo per aver inquinato con gli scarichi aria, suolo, sottosuolo e acque lagunari. In quel contesto, allo sconcerto dei presenti che contestavano la decisione e dopo che anche i difensori era stati colti da pianto di commozione, il presidente del collegio, Nelson Salvarani, registrata la fortissima tensione fuori e dentro l'aula, si è assunto il compito di spiegare ai cronisti per sommi capi i motivi che avevano portato alle assoluzioni, dato che la motivazione della sentenza sarebbe stata depositata solo dopo 90 giorni dalla lettura del dispositivo.

«Il processo – ha detto Nelson Salvarani – ha consentito di accertare che tutte le malattie causate dal Cvm (Cloruro di vinile monomero) sono riconducibili alle molto elevate esposizioni risalenti agli anni '50 e '60 e ai primi anni '70, quando se ne ignorava la tossicità che fu evidenziata dalla comunità scientifica solo nel 1973». Il magistrato, riportano gli articoli di stampa di quell’epoca, pur specificando che «non si spiegano le sentenze appena emesse», vista l'attenzione su questa vicenda, ha sottolineato: «Solo una parte delle malattie possono dirsi causate dall'esposizione a cvm, cloruro di vinile monomero. Successivamente al 1973 per prima Montedison e poi Enichem realizzarono tempestivamente gli interventi sugli impianti necessari a ridurre l'esposizione dei lavoratori a livelli compatibili con quelle norme di protezione che il legislatore solo allora emanò». Per quanto riguarda il capo d'accusa relativo ai reati ambientali, Salvarani ha sottolineato che «il processo ha consentito di accertare che lo stato di inquinamento dei canali industriali, pur sussistente, è tuttavia risalente a epoche in cui non esistevano norme di protezione ambientale».

Un esempio di comunicazione assunta dal presidente del collegio alla luce della fortissima tensione registrata dopo la lettura del dispositivo che ha consentito una corretta informazione sui motivi della decisione che diversamente si sarebbero conosciuti solo dopo tre mesi. Ed in quell’arco di tempo tutto sarebbe stato lasciato all’interpretazione/mediazione dei giornalisti.

Altro esempio significativo lo ricorda, in questo numero, Beniamino Deidda per esserne stato il protagonista in anni ancora precedenti al 2001, cioè nel 1971, descrivendo nel contempo un’epoca in cui «nessuno di noi parlava dei processi nei quali era impegnato (neanche di quelli che non erano più coperti dal segreto), nella convinzione che la personalizzazione degli atti giudiziari nuocesse a quella idea di distacco imparziale dalle vicende sottoposte al nostro giudizio, che costituiva uno dei pilastri della deontologia del giudice e del magistrato più in generale. Parlare (o anche solo spiegare dal punto vista tecnico-giuridico) del processo o di un singolo atto processuale sarebbe sembrato un deplorevole episodio di esibizionismo o, peggio, di gratuita personalizzazione di una pronunzia che invece doveva essere riferita in astratto al Tribunale o alla giustizia».

Era l’epoca in cuisi riteneva,per dirla con le parole di Elvio Fassone, che «il magistrato non ha nulla da comunicare». Sempre Deidda ricorda come proprio intorno alla rivista Quale giustizia, un gruppo di magistrati cominciò ad interrogarsi sul tema «della comprensione dei provvedimenti giudiziari da parte dei cittadini e, prima di tutto, di coloro che partecipavano al processo nella diverse vesti di imputato, parte offesa o testimone».

Tutto ciò oggi può apparire superato, se si pensa che sia la Corte di cassazione sia la Corte costituzionale si sono attrezzate per rendere immediatamente comprensibili le loro decisioni attraverso la tecnica delle informative provvisorie (Corte di cassazione) e con veri e propri comunicati stampa (Corte costituzionale).

In questo contesto culturale si inseriscono le «Linee Guida» emanate dal Consiglio superiore che provano a fare un passo avanti prevedendo, per quanto attiene alla comunicazione da parte degli uffici giudicanti, che «il magistrato decidente curerà la predisposizione della notizia di decisione (abstract), contestuale o immediatamente successiva alla deliberazione/decisione, consistente nell'illustrazione sintetica, con linguaggio semplice, chiaro e comprensibile, delle statuizioni decisorie e delle ragioni delle stesse». Sarà poi «il responsabile per la comunicazione (figura di nuova istituzione) che si occuperà della selezione e rielaborazione tecnica della notizia di decisione e che successivamente curerà la trasmissione della comunicazione agli organi d'informazione e ai media».

Un salto di qualità importante, da tempo atteso, come giustamente sottolinea Luigi Ferrarella nella sua riflessione. Una comunicazione plurale e diretta a tutti gli organi di comunicazione da parte del giudiziario, ovviamente di chi sa e conosce quello che occorre comunicare, che faciliterà la comprensione della decisione e ridurrà certamente il rischio di una sua possibile artificiosa distorsione.

 

8. Tocca ora alla magistratura fare proprio e rendere effettivo questo “dovere di comunicare”. Perché, come giustamente osserva Nello Rossi, «la rivoluzione comunicativa è ancora una rivoluzione promossa principalmente dall’alto e fatta propria da volenterose avanguardie. Che si sia dinanzi ad una “rivoluzione dall’alto” è provato dalla molteplicità degli impulsi che promanano dai vertici delle istituzioni che si occupano di giustizia. Dal Ministero della giustizia, dal Csm, dalla Scuola della magistratura e dai dirigenti degli uffici, giungono infatti con insistenza al corpo della magistratura diversi stimoli».

La scommessa è che gli stimoli siano recepiti, condivisi ed applicati correttamente.

Il tema della comunicazione della giustizia sulla giustizia è un tema ineludibile, finora troppo sottovalutato o temuto, con il quale ogni magistrato – giudice o pm – deve misurarsi, non solo con gli strumenti “ordinari”, a cominciare dal rendere sempre comprensibile la motivazione dei propri provvedimenti, ma anche attraverso altre forme di comunicazione che, a prescindere da quella veicolata dai media, raggiungano in modo corretto l’opinione pubblica.

Come ha ricordato, di recente, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ai magistrati ordinari in tirocinio «Quel che è doverosa è la trasparenza dell’agire. Questa può essere assicuratada un’adeguata comunicazione istituzionale che risponde in modo equilibrato alle esigenze di informazione e conoscenza –legittima e doverosa- da parte della società. Come il Csm ha recentemente affermato in una importante delibera assunta proprio sul tema “la trasparenza e la comprensibilità dell’azione giudiziaria sono valori che discendono dal carattere democratico dell’ordinamento e sono correlati ai principi d’indipendenza e autonomia della magistratura nonché a una moderna concezione della responsabilità dei magistrati”. È, pertanto, auspicabile che si prosegua in questa direzione, utile ad evitare rischiose sovraesposizioni che rischiano, anche per una comunicazione frettolosa e superficiale, di minare il prestigio della funzione giudiziaria»[9].

Ne sono già consapevoli i magistrati più giovani, «chi è appena entrato in magistratura sente con forza l’importanza di poter spiegare», intervistati da Raffaella Calandra, «troppo spesso non si capiscono le ragioni dei nostri provvedimenti e ciò provoca una sensazione di scarsa affidabilità».

Come tutti i percorsi culturali più impegnativi si tratta ora di far vivere il dovere della comunicazione e di dargli corpo, superando le resistenze culturali che ancora vi sono, accompagnando tutti i magistrati ad acquisire una effettiva consapevolezza dell’importanza di questa sfida. Solo così si approderà ad una vera e propria svolta culturale che per essere tale deve coinvolgere tutta la magistratura e non soli i suoi “vertici”.

Questo obiettivo è stato ideato e strutturato anche con questa funzione.

Così come per il fermento culturale di un gruppo di magistrati che si sono ritrovati intorno a Quale Giustizia, come ci ricorda Deidda, ancora oggi nell’ambito di questa Rivista si sono ritrovate le idee e le considerazioni di magistrati, di giuristi e di giornalisti che abbiamo ritenuto utile sottoporre all’attenzione dei lettori con l’aspirazione di poter contribuire a dare gambe a questa necessaria svolta culturale, perché l’informazione non è un diritto di libertà del magistrato ma è un dovere, corrispondente al diritto della collettività ad essere informata (Ccpe n. 8 del 2013).

[1] L’espressione è riportata nei “Principi di Bangalore”, elaborati dal Gruppo giudiziario per il rafforzamento dell’integrità dei giudici (Jgsji), operante in seno alle Nazioni Unite. I Principi di Bangalore, benché elaborati in un ambiente di common law, risultano generalmente condivisi nelle moderne democrazie basate sulla separazione dei poteri statuali.

[2] La Raccomandazione è reperibile anche in lingua inglese sul sito del Consiglio d’Europa. «Information régulière pendant les procédures pénales. Dans le cadre des procédures pénales d’intérêt public ou d’autres procédures pénales attirant particulièrement l’attention du public, les autorités judiciaires et les services de police devraient informer les médias de leurs actes essentiels, sous réserve que cela ne porte pas atteinte au secret de l’instruction et aux enquêtes de police et que cela ne retarde pas ou ne gêne pas les résultats des procédures. Dans le cas des procédures pénales qui se poursuivent pendant une longue période, l’information devrait être fournie régulièrement».

[3] Nel marzo 2018 l’American Judges Association in collaborazione con il Centre for Court Innovation, il National Centre for State Courts e il National Judicial College hanno pubblicato un documento di “referenza rapida” che delinea i principi della giustizia procedurale, precisando come la loro adozione migliori l'accettazione delle decisioni giudiziarie e la fiducia pubblica nella giustizia. La versione originale del documento è disponibile al link: www.courtinnovation.org/publications/procedural-justice-bench-card. La giustizia procedurale consiste in un approccio di origine socio-psicologica che esplicita l’idea di giusto processo sulla base delle relazioni tra i soggetti coinvolti nel procedimento. Si è sviluppato nei paesi anglosassoni, e si sta rapidamente diffondendo anche in Europa, anzitutto nei paesi scandinavi e in Olanda, con l’obiettivo di migliorare il trattamento degli utenti, l’effettività del giudizio e la fiducia nel sistema. I dati statistici dimostrano che la giustizia procedurale comporta una maggiore accettazione delle decisioni e nel contempo un giudizio positivo degli utenti sul singolo magistrato, sull’ufficio giudiziario e sull’intero sistema giudiziario.

[4] Qualità e legittimità della giustizia in Svezia, relazione tenuta a Scandicci il 12-14 novembre 2018, nel corso organizzato dalla Scuola superiore della magistratura, La qualità ed i tempi del processo e della decisione.

[5] Così lo definisce Marco Patarnello in questa Rivista on line, Un Viaggio Avventuroso. http://www.questionegiustizia.it/articolo/un-viaggio-avventuroso-_08-10-2018.php.

[6] Intervista di Giovanni Bianconi al presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi, Corriere della Sera 13.6.2018.

[7] Si pensi alle notti bianche sulle legalità organizzate a Roma e in altre città italiane ed alle altre diverse esperienze raccontate in questa Rivista On line: www.questionegiustizia.it/articolo/parole-che-smuovono-le-pietre_17-03-2018.php, www.questionegiustizia.it/articolo/il-carcere-negli-occhi-degli-studenti_25-11-2016.php; http://www.questionegiustizia.it/articolo/la-parola-ai_giovani_giurati_25-01-2015.php.

[8] I maggiori quotidiani hanno dato risalto, qualche giorno dopo la lettura del dispositivo, alle opinioni di giuristi, commentatori, giornalisti esperti, molto diversificate tra loro proprio perché rese al buio e solo sulla base del dispositivo. In molti articoli si è posto l’interrogativo sulla influenza che la legge Severino (che nel 2012, a processo iniziato, aveva riformato la fattispecie della concussione) potesse avere avuto sulle imputazioni. Si veda al riguardo l’articolo pubblicato il 22.7.2014 su Il Sole 24Ore da Donatella Stasio, Cassazione. Il chiarimento sulle novità della legge Severino. Per induzione il nodo dell’Indebito vantaggio. e quello pubblicato il 19 .7.2014 sul Corriere della Sera da Luigi Ferrarella, Non ci fu la concussione, ecco perché Berlusconi è stato assolto.

[9] Intervento del Presidente della Repubblica in occasione dell’incontro con i magistrati ordinari in tirocinio nominati con dm 7 febbraio 2018 in www.quirinale.it/elementi/11799.