Magistratura democratica

«Salti mentali»
(analogia e interpretazione nel diritto penale)

di Ombretta Di Giovine

L’Autrice affronta il tema dell’interpretazione penalistica in una prospettiva aperta a saperi esterni, ed evidenzia la difficoltà di distinguere l’interpretazione, analogica, dall’analogia in senso stretto. Avvalendosi del richiamo a pronunce della Corte di cassazione a sezioni unite, cerca di dimostrare come i maggiori rischi di arbitrio si annidino peraltro non tanto nel mancato rispetto del testo (dai confini non previamente definibili), quanto nell’omessa o parziale esplicitazione delle premesse valoriali del ragionamento giuridico. Dichiara infine una cauta apertura verso l’intuizione del giudicante nei soli (seppur sempre più numerosi) casi di “dilemma”, non risolvibili attraverso gli strumenti tradizionali della deliberazione e della razionalità di scopo.

1. Guida alla lettura

Il mare dell’interpretazione giuridica è da sempre percorso da correnti che amano rappresentarsi in reciproca opposizione e che, optando per una delle varie definizioni possibili, qui chiameremo “formalismo” e “antiformalismo”[1].

Il formalismo ha lungamente dominato il diritto penale, per motivi riconducibili all’assetto costituzionale della materia e al primato tradizionalmente riconosciuto al Parlamento sui giudici: in radice, alla gravità delle conseguenze che derivano dalla sua applicazione (le quali suggeriscono non solo di demandare l’individuazione dei confini a un organo quanto più rappresentativo, ma pure di fissare in anticipo le regole del gioco).

Secondo l’insegnamento tradizionale, l’interpretazione consiste quindi nell’invenzione di una disciplina già esistente; l’analogia, in una forma di creazione del diritto (basata sull’estensione di una disciplina prevista per un caso singolo ad altro caso non espressamente previsto, ma caratterizzato da identità di ratio). Ragion per cui la seconda, nel diritto penale, è espressamente vietata.

Il tema, un classico della riflessione dottrinale del passato[2], da tempo non viene più affrontato in modo sistematico in trattazioni di ampio respiro. Tuttavia, non di rado la dottrina denuncia la tendenza giurisprudenziale a realizzare analogie occulte (con formula in voga, «cripto-analogie[3]), e ciò dimostra la perdurante attualità dell’argomento, giustificando l’invito a occuparsene in questa sede.

Ovviamente, l’aspirazione generale a distinguere «il normale e il patologico»[4] anche nell’interpretazione penale non può non essere condivisa. Tuttavia, se la sfida consistesse nel tracciare un criterio formale di distinzione, vale a dire un criterio suscettibile di essere tracciato aprioristicamente attraverso formule precise, ebbene, ammettiamo da subito che non l’avremmo raccolta. L’impresa sarebbe infatti apparsa impossibile a chi, come noi, ha sempre sostenuto che alla sua realizzazione ostano, non necessariamente in quest’ordine (anzi, non necessariamente in un ordine): i rudimenti della filosofia linguistica; i fondamenti della logica; le conoscenze basiche di psicologia scientifica.

A tali fattori si sono di recente aggiunti, quantomeno, l’irruzione nel diritto penale del neocostituzionalismo di marca europea, vale a dire di una dottrina normativa dei limiti del potere politico, che attribuisce un ruolo preponderante ai giudici[5], e le riforme processuali che hanno espressamente valorizzato il precedente giurisprudenziale. Come dire: alla distinzione tra analogia e interpretazione penale si frappone ormai anche il diritto medesimo.

Ai citati input dedicheremo riflessioni succinte[6], essenzialmente allo scopo di ribadire che l’impossibilità di tracciare un distinguo netto tra analogia vietata e interpretazione consentita non significa legittimare l’anomia giurisprudenziale e per dimostrare, anzi, come proprio in nome del cd. formalismo interpretativo la giurisprudenza indulga talvolta in arbitrii interpretativi.

Insisteremo sul fatto che, in un’epoca di accentuato pluralismo (qual è quella odierna), il problema maggiore è rappresentato dalla scelta/costruzione (dei contenuti) delle premesse: operazione spesso sommersa, che come tale si sottrae alla possibilità di una verifica discorsiva. In tale prospettiva, continueremo inoltre a difendere la tesi secondo cui l’attenzione andrebbe puntata sui modi e sui vizi della conoscenza più ancora che sulla forma del ragionamento, la cui correttezza è, in certa misura, pur sempre verificabile.

Ciò nondimeno, aggiungeremo che, quando si pone un problema di incommensurabilità dei valori – il che accade, per esempio, in situazioni fortemente connotate sul piano etico –, anche queste “accortezze” possono rilevarsi insufficienti nella soluzione dei casi concreti, il che ci porta a interrogarci su un’ipotesi apparentemente dirompente, perché controintuitiva. Nelle sole ipotesi in cui gli strumenti classici, legati al ragionamento logico-consequenzialistico, falliscono, ci cominciamo a chiedere se l’intuito del giudicante possa per caso garantire (non maggior “giustizia”, bensì) maggior certezza in situazioni di incertezza comunque endemica.

2. Filosofia linguistica: riferimenti capricciosi e sensi “assennati”

Il problema della distinzione tra analogia e interpretazione, nei sistemi di diritto scritto, si è posto muovendo dal testo e dall’idea che il testo – le cui virtù non sono in discussione – avesse un ambito operativo astrattamente delimitabile. È, cioè, sempre stato un problema di semantica.

La storia, seppur recente, della filosofia linguistica (cui il penalista dovrebbe essere debitore) insegna che, a partire dalle riflessioni di Wittgenstein[7], si è sviluppata ed è divenuta dominante l’idea che non esista una semantica “pura”, e che la semantica sia necessariamente “pragmatica”[8]. Ciò, banalmente, significa che parole e testo, che delle prime si compone, non hanno confini precisi. Tutte le parole (quale più, quale meno, con l’eccezione forse di quelle che esprimono dati numerici) sono, per natura, vaghe e ambigue[9]. Ci si è, così, arresi da tempo all’evidenza che il cd. riferimento o «significato» («Bedeutung») delle parole è “capriccioso”[10], mentre più “assennato”, più ricco di informazioni, è il loro «senso» («Sinn»). Il senso è, però, evincibile dall’interprete soltanto guardando all’uso che delle parole si faccia e quindi, in ultima analisi, al contesto in cui queste si calano. Anzi, ai contesti (al plurale) che, quanti più sono, tanto meglio è.

Tali contesti possono essere: legislativo (nel diritto, tradizionalmente si parla di interpretazione sistematica[11]); giurisprudenziale (interno e, entro certa misura, ormai pure europeo-costituzionale); assiologico (altrimenti definito “di sfondo” o “distale”; è l’interpretazione classicamente definita teleologica); fattuale (e questo è, forse, il contesto più importante), etc.

Ricorrendo alla terminologia di Herbert L. A. Hart e molto semplificando, quindi, può dirsi assodato che l’interprete muova sempre dal testo e, nella specie, dal nucleo («core») della parola; a causa della tessitura aperta del testo, poi si avvale, però, dei vari tipi di contesto per schiarire la penumbra. Opera cioè mediante accostamenti e somiglianze. Crea cioè diritto mediante analogie.

3. Logica

Se è così, cade la distinzione netta tra analogia e interpretazione. Essa reggeva finché si ritenesse che l’interpretazione giuridica seguisse uno schema deduttivo (up-down), che ha avuto la sua più famosa rappresentazione nel cd. sillogismo giudiziario. Tuttavia, come si è detto, questa rappresentazione, almeno per i più, è ormai inverosimile: l’interpretazione è per sua natura analogica e l’analogia è una forma di induzione (ragionamento bottom-up), che dal particolare va al generale, o forse di abduzione, che dal particolare va ad altro particolare.

Di certo, non è deduzione.

4. Analogia interna e analogia esterna; cacciaviti e cotton fioc

Veniamo al dunque: in che cosa differisce, allora, l’analogia penalmente vietata dal procedimento interpretativo, per sua natura analogico?

In passato, distinguemmo l’analogia interna da quella esterna (al testo), per concludere che la prima è penalisticamente consentita; la seconda, vietata[12]. Il distinguo discendeva dalle concezioni di Umberto Eco, improntate a un cd. realismo (o pragmatismo) negativo[13].

La tesi di Eco – che ancor oggi prediligiamo – è, cioè, che delle parole si possano fare molteplici usi, ma non qualunque uso.

Per illustrarla, siamo soliti citare la polemica tra Umberto Eco e Richard Rorty, il più scettico degli scettici. Questi escludeva che le parole avessero, di per sé, un senso (un’intenzione, una ratio) e pensava che tale senso derivasse esclusivamente dal loro uso. Ritenere il contrario – secondo Rorty – sarebbe equivalso ad affermare che «l’uso che faccio del cacciavite per avvitare viti è “imposto dal cacciavite stesso”, mentre l’uso che ne faccio per forzare dei pacchi di cartone è dovuto alla “caparbia imposizione della mia soggettività”»[14]. Eco[15], pur convenendo in linea di massima sulla multi-valenza dell’arnese, ne sconsigliava l’uso come cotton fioc. Il cacciavite può forse (a talune condizioni) diventare un apri-pacco, ma non può diventare un cotton fioc[16].

Oltre un siffatto criterio di massima è difficile andare: chi pretenda di ravvisare nel discrimen tra analogia interna e analogia esterna una ricetta infallibile per la cucina penalistica, resterebbe deluso (oltre a mostrarsi ingeneroso verso Umberto Eco, prima che – poco male – verso di noi).

Nel paragrafo successivo, cercheremo comunque di fugare la nostalgia per il formalismo, illustrando perché esso non rappresenti un buon ingrediente del piatto giuridico, né sarebbe un grande chef chi si limitasse a seguire pedissequamente un’ipotetica ricetta.

In realtà, approfitteremo della distinzione tra analogia interna ed esterna anche per ri-descrivere l’oggetto dell’intervento, calibrandolo sulla prima, e cioè estendendolo. Crediamo infatti che i casi di cd. analogia esterna siano comparativamente pochi (sebbene, secondo taluni, in crescita) e, soprattutto, poco problematici[17], sicché il maggior problema è rappresentato dall’analogia interna. In proporzione, pochi giudici usano infatti il cacciavite come cotton fioc, mentre davvero molti lo usano come apri-pacco.

5. Salti mentali, reti e appigli

L’analogia è un «salto mentale»[18]

Ora, la distanza tra il salto piccolo, che contribuisce alla fisiologica creazione della norma, e il salto lungo, che dà luogo a un’inammissibile supplenza giurisprudenziale, nel diritto non può essere misurata in centimetri e deve essere, piuttosto, misurata in… Temerarietà.

È temerario il salto senza rete né appigli, ed è questa mancanza – vale a dire la mancanza di giustificazione alla soluzione concreta – a rendere vietata la creazione giurisprudenziale del diritto.

Sviluppando la metafora per precisare il concetto, potremmo identificare nel testo la “rete” e aggiungere che il testo-rete è imprescindibile[19], ma a volte insufficiente e comunque inidoneo ad evitare, da solo, arbitri. Occorre, infatti, che l’interpretazione si aggrappi a degli “appigli”.

Le esemplificazioni di salti giurisprudenziali temerari, vuoi anche non trascendenti in analogie vietate in senso stretto, sarebbero numerosissime[20]. Mi limiterò a citare alcune sentenze celebri, più o meno recenti, della Corte di cassazione a sezioni unite, per ragioni di spazio e perché investono questioni che non richiedono approfondimenti particolari.

Un salto nel vuoto, senza testo-rete, è stato compiuto con la recente sentenza Cass, sez. unite, 21 dicembre 2017 (dep. 22 febbraio 2018), n. 8770. Chiamata a esprimersi sulla recente riforma penale in materia di responsabilità medica, volta a limitare l’ambito di responsabilità colposa dell’operatore sanitario nel caso di osservanza di linee guida o buone pratiche[21], la pronuncia ha introdotto una condizione alla sua operatività non contemplato dal testo: l’esercente una professione sanitaria deve versare in colpa lieve. Incidentalmente, gli argomenti addotti a sostegno di tale conclusione (i presunti appigli) sono tutti, in modo ben più persuasivo, spendibili a contrario, e cioè per escludere tale limitazione[22]. A chi poi, seguendo sul punto le motivazioni della sentenza, replicasse che la delimitazione della responsabilità ai casi di colpa grave potrebbe essere ritenuta un principio generale, seppur implicito (sulla scia di Corte cost., sentenza n. 166 del 1973), si potrebbe obiettare che la Corte di cassazione ha fatto uso di tale principio contra reum, e non in suo favor, producendo quindi anche l’odioso effetto di escludere, per il futuro, l’operatività dell’art. 2236 cc in ambiti diversi da quello medico (seppure la prestazione tecnica implicasse problemi di particolare difficoltà).

Al di là di ipotesi di questo genere, alquanto clamorose (sulla cui criticità la dottrina ha almeno finora convenuto), preme evidenziare che anche la giurisprudenza che salta (interpreta) con la rete di un testo, può sperticarsi in pericolosi numeri di creazione normativa, quando non ha appigli cui aggrapparsi.

Un salto senza appigli nel contesto legislativo è stato quello della sentenza Cass., sez. unite, 26 novembre 2009 (dep. 30 marzo 2000), n. 12433, che ipotizza la configurabilità del dolo eventuale nel delitto di ricettazione. La motivazione, invero, non trascura la contravvenzione di incauto acquisto (art. 712 cp) e il correlato argomento, vecchio ma sempre valido, che la differenza fra le due fattispecie può darsi soltanto sul piano dell’elemento soggettivo, e cioè equiparando il dubbio sulla provenienza delittuosa del bene al «motivo di sospettare la provenienza da reato», di cui parla appunto la fattispecie contravvenzionale. Tuttavia, la Corte “scavalca” tale argomento: per un verso, ritenendo la contravvenzione sia tipizzata non già dal sospetto in sé, ma dai motivi per cui esso sorge; per altro verso, “riesumando” la cd. prima formula di Frank (“se avessi previsto tutto questo”) nel tentativo di dare consistenza al dolo eventuale e di distinguerlo dal mero sospetto.

Un salto (senza rete e) senza appigli nel contesto giurisprudenziale è stato compiuto dalla sentenza Cass., sez unite, 19 aprile 2012 (dep. 12.9.2012), n. 34952, ritenendo configurabile il tentativo di rapina impropria, nei casi in cui la violenza sia stata posta in essere prima della sottrazione della cosa mobile. Per superare il dato testuale del capoverso dell’art. 628 cp (la violenza o minaccia devono essere usate «immediatamente dopo la sottrazione»), le sezioni unite richiamano l’insegnamento della Corte Edu, appellandosi al ruolo creativo della giurisprudenza, ma ciò fanno operando una forzatura. Da una parte, infatti, la fisiologica creatività giurisprudenziale dovrebbe giocare pur sempre all’interno degli spazi semantici del testo, e non fuori. Dall’altra, per quel che qui interessa, le sezioni unite hanno ravvisato un “diritto vivente” che non esisteva in quel momento, negando oltretutto quanto da esse stesse poco prima affermato: e cioè che, a fronte di un orientamento positivo abbastanza consolidato sulla configurabilità del tentativo di rapina impropria, la Corte di cassazione, in tempi più recenti, aveva cominciato a discostarsene (in pronunce addirittura segnalate nominativamente). Impossibile astenersi dal rilevare la contraddittorietà logica dell’argomentazione: scorretta dunque nella forma, oltre che poco condivisibile nel contenuto.

Un salto senza appigli nel contesto fattuale potrebbe essere quello di Cass., sez unite, 22 febbraio 2018 (dep. 24 settembre 2018), n. 40981. Questa la vicenda: il reo aveva rivolto minacce, strattonato e tentato di prendere a pugni due funzionari di PS che cercavano di impedirgli di aggredire una terza persona. Le sezioni unite affermano di derivare dalla lettera della legge e dalla logica la conclusione (in malam partem) che tali condotte configurano un concorso formale di reati, piuttosto che – come invero intuitivo – un’ipotesi unica di resistenza a pubblico ufficiale. All’obiezione che l’interesse tutelato è unico e rappresentato dal regolare funzionamento della pubblica amministrazione (obiezione che, peraltro, se abbiamo ben inteso l’argomentazione degli ermellini, era stata appena destituita di fondamento), i giudici sembrerebbero reagire operandone una sorta di duplicazione, per effetto della “concretizzazione” del bene medesimo nell’interesse alla sicurezza e alla libertà – in ultima analisi, alla protezione – degli organi che la pubblica amministrazione incarnavano nella vicenda di specie (due persone, appunto). A tacer d’altro, in tal modo la Cassazione (pur muovendosi nell’area semantica del testo) deliberatamente oscura le note concrete del fatto storico e, in particolare, la circostanza che il comportamento ai danni dei due pubblici ufficiali era stato realizzato in un contesto temporale e logico sostanzialmente unitario, come indiziato tra l’altro dallo stato di concitazione in cui versava il reo. Contesto che, a nostro avviso, avrebbe più proficuamente orientato la lettura della fattispecie di cui all’art. 337 cp, conducendo a ipotizzare, nel caso di specie, un solo reato.

Insistendo nello svolgimento della metafora, sia infine consentito richiamare un caso in cui la suprema Corte, sempre nella sua più autorevole composizione, non ha saltato, e cioè si è astenuta dal proporre interpretazioni. Alludiamo all’anch’essa celebre sentenza del 24 ottobre 2013 (dep. 14 marzo 2014), n. 12228, in cui, dopo aver individuato un criterio di massima per distinguere la concussione (art. 317 cp) dall’induzione indebita (art. 319-quater cp), gli ermellini hanno riconosciuto (§§ 16 ss.) che tale criterio non funziona in un copioso ed esemplificato novero di situazioni, in rapporto alle quali i giudici sono stati invitati a decidere caso per caso. Per quanto tale precedente possa apparire strano (per auto-ammissione, non propone principi di diritto derogabili e non si proietta verso la vincolatività; sul punto, si veda il § successivo), la suprema Corte, a nostro avviso, non aveva forse tutti i torti: in questo caso, una eccessiva frammentazione dei tipi legislativi (quantomeno: concussione, corruzioni varie, induzione indebita) in rapporto a un fenomeno – la corruzione – invece criminologicamente unitario, ha impedito alla Corte di trovare nei testi una rete e, pure, meri appigli nei contesti.

6. Uova e precedenti giurisprudenziali

Come si accennava, un ulteriore fattore di complicazione per il nostro sistema di legalità legislativa è stato determinato dall’irruzione, nel diritto penale, del costituzionalismo europeo. Le celeberrime sentenze “gemelle” della Consulta (nn. 248 e 249 del 2007), forse anche perché scoperte con qualche ritardo dal penalista, nel mettere bruscamente quest’ultimo di fronte alla consacrazione costituzionale del ruolo di fonte della giurisprudenza (costituzionale europea e, di riflesso, anche interna), hanno provocato un iniziale, piccolo (?) maremoto. In una prima fase, è parso a taluni che la giurisprudenza fosse divenuta una fonte del diritto addirittura in senso formale[23], con tutto ciò che ne sarebbe derivato: sul piano ideale, in termini di decostruzione e sostanziale annientamento della riserva di legge; soprattutto sul piano pratico, quanto, per esempio, alla successione di “diritto” nel tempo[24] e, più in generale, all’incertezza e all’ingestibilità del sistema[25].

Sul piano squisitamente interpretativo, infatti, ancora pochissimo tempo fa, sembrava si stesse affermando la tendenza a leggere le sentenze della Corte Edu quasi fossero delle leggi, nel rispetto rigoroso del canone letterale (prima ancora che di quello teleologico) e nell’intento dichiarato di estenderne l’applicazione a casi uguali o anche solo simili – con l’effetto di sovvertire il sistema del sindacato accentrato di costituzionalità in favore di un inedito sindacato diffuso.

Ora, le acque si sono – forse – acquietate e alcuni fraintendimenti parrebbero superati[26].

Dovrebbe essersi compreso che non ogni (qualunque) sentenza crea un precedente vincolante[27] e che, anche a considerare le sole pronunce astrattamente suscettibili di essere ritenute tali (per lo più, in ragione della composizione dell’organo che le pronuncia), è difficile sottrarsi all’impressione che sia un errore, oltre che un ossimoro concettuale, riproporre, con riferimento al precedente, quella “teoria dichiarativa” che tante difficoltà ha incontrato già rispetto al diritto positivo.

Quanto poi, specificamente, alle pronunce del nostro giudice di legittimità, sappiamo che la legge le vorrebbe nella sostanza vincolate[28] e che, nell’intento di perseguire l’agognata stabilizzazione giurisprudenziale, ha disposto che la sezione semplice della Cassazione, qualora ritenga di «non condividere» il principio di diritto formulato in una sentenza delle Sezioni Unite, «rimette» a queste ultime la decisione del ricorso.

Il giudizio sulla riforma, recente e ispirata – si è detto – a una concezione «procedurale» e «discorsiva» della nomofilachia[29], è aperto e tutto in fieri, non disponendosi allo stato di dati sufficienti. Ciò nondimeno, è lecito supporre che, anche qui, si confronteranno approcci formalistici e antiformalistici, e che, anche qui, prevarranno i primi già nel medio periodo.

Non è affatto detto, cioè, che la riforma riesca nell’intento di irrorare le distese penalistiche dell’agognata stabilizzazione giurisprudenziale e, tantomeno, di piallare l’insostenibile carico giudiziario della Cassazione (incidentalmente, una delle maggiori fonti di incertezza). Lungi dall’imbalsamare i giudizi pro futuro, si prospetta piuttosto il pericolo che la novella, complice la nota inventiva della giurisprudenza (soprattutto) italiana, finisca con lo stimolare la fantasia dei giudici verso nuove frontiere di distinguishing. E, si sa, il confine tra distinguishing e overruling è (anch’esso, come il confine delle parole) tutt’altro che chiaro[30].

La diremo con Frederick Schauer[31], per allontanare da noi la responsabilità di un paragone irriverente. Una volta che un giudice (delle sezioni unite) abbia sancito che il tempo ideale di cottura di un uovo è di sei minuti, potrebbe darsi che gli altri giudici si attengano scrupolosamente a tale numero, assoggettandosi all’autorità della regola. Ma questi giudici potrebbero, invece, rispettare la regola (non per la sua autorità, ma) per la sua autorevolezza, e cioè perché riconoscono che i sei minuti rappresentano l’esito di un processo di esperimenti e prove che ha portato a presumere il carattere ottimale di questo tempo di cottura. In tale seconda ipotesi, codesti giudici incontreranno, tuttavia, maggiori difficoltà nell’assumere questa come una presunzione assoluta: a resistere, cioè, alla tentazione di operare distinzioni in ragione della specificità dei casi, come quando, per fare un esempio, sia estate e la temperatura esterna sfiori i quaranta gradi.

In realtà, la tendenza al distinguo non è soltanto una forma mentis (o, peggio, un vezzo narcisistico) su cui si ritenga di poter incidere imponendo riforme di sistema. Essa è, soprattutto, la conseguenza del fatto che la realtà da regolare cambia sempre più velocemente, e in direzione di una crescente complessità, mentre le regole del diritto penale (siano esse scritte o giurisprudenziali) resteranno sempre poche, rozze e, come tali, inadeguate.

D’altronde, di tali difficoltà già si colgono tracce pensando al fatto che addirittura le sezioni unite hanno difficoltà nell’adeguarsi a se stesse, e cioè alla propria giurisprudenza pronunciata su casi analoghi, e anche in rapporto ad aspetti diversi.

Porterò come esempio una recente pronuncia della Cassazione, ancora a sezioni unite, sulla produzione di materiale pedopornografico (art. 600-ter cp), pronuncia pure affatto condivisibile nel merito.

Va premesso che il testo originario della legge parlava di «sfruttamento» del minore e che, sotto il suo vigore, la giurisprudenza di legittimità si era lasciata suggestionare dall’omonimia con lo «sfruttamento» della prostituzione di adulti (che, peraltro, è fenomeno criminologicamente e giuridicamente diverso, essendo in sé consentita, a differenza di quella minorile[32]), richiedendo dunque che la condotta dello “sfruttatore” fosse permeata da un fine di lucro. Le sezioni unite del 2000 (sentenza del 31 maggio, n. 13) avevano invero superato quest’orientamento, ritenendo punibile anche la produzione «artigianale» di materiale pedopornografico, ma avevano svolto fino in fondo il discorso e avevano, quindi, confermato la struttura della fattispecie in chiave di pericolo concreto, imponendo la prova di elementi sintomatici della potenzialità diffusiva del comportamento, quali «l’esistenza di una struttura organizzativa anche rudimentale atta a corrispondere alle esigenze di mercato dei pedofili, il collegamento dell’agente con soggetti pedofili potenziali destinatari del materiale pornografico, la disponibilità materiale di strumenti tecnici di riproduzione e/o trasmissione, anche telematica, idonei a diffondere il materiale pornografico in cerchie più o meno vaste di destinatari, l’utilizzo contemporaneo nel tempo o differito di più minori per la produzione di materiale pornografico (…) i precedenti penali, la condotta antecedente e le qualità soggettive del reo, quando siano connotati dalla diffusione commerciale di pornografia minorile, nonché gli altri indizi significativi suggeriti dall’esperienza» (indici sintomatici ulteriormente specificati in successive pronunce giurisprudenziali).

Ora, Cass., sez. unite, 31 maggio 2018 (dep. 15 novembre 2018), n. 51815 afferma che il pericolo di diffusione è superato dalle modifiche normative «e comunque anacronistico», «a causa della pervasiva influenza delle moderne tecnologie della comunicazione, che hanno portato alla diffusione di cellulari smartphone, tablet, computer dotati di fotocamera incorporate, e ha reso normali il collegamento Internet e l’utilizzazione di programmi di condivisione e reti sociali». D’altro canto – nota – già il suo precedente del 2000 richiedeva «la disponibilità materiale di strumenti tecnici di riproduzione e/o trasmissione, anche telematica, idonei a diffondere il materiale pornografico in cerchie più o meno vaste di destinatari» in via alternativa rispetto agli altri indici, e tuttavia «una tale disponibilità, che all’epoca della pronuncia era tutt’altro che scontata e doveva essere oggetto di specifico accertamento, è oggi assolutamente generalizzata».

Siamo al cospetto di un overruling o di un distinguishing?

Le sezioni unite escludono espressamente la prima opzione, sostenendo che la produzione domestica di materiale pedopornografico continua a non essere punita e che l’area del penalmente rilevante non esce ampliata per effetto del decisum. Tuttavia, al di là della “peculiarità” della soluzione teorica (un pericolo concreto nel contempo presunto?), è difficile allontanare la sensazione che tale precisazione sia motivata dal timore – dai giudici stessi espressamente evocato – che si possano invocare gli stessi effetti (in chiave di retroattività in mitius) della successione di legge nel tempo, come prospettato da un altro precedente a sezioni unite, e cioè dalla nota e già citata sentenza n. 18288 del 2010. Pronuncia, quest’ultima, che peraltro gli stessi giudici cercano di disinnescare/rinnegare attraverso il richiamo alla sentenza della Corte cost. n. 230 del 2012, la quale – come noto – stemperò il problema, escludendo l’equiparazione tra giurisprudenza e legge e promuovendo un “rilancio” della riserva di legge.

Il dubbio che non si tratti di un mero distinguishing, ciò nondimeno, resta.

In ogni caso, nell’«interpretazione del precedente», sia che, nel medio termine, prevalga il formalismo (cioè la propensione a un’analisi letterale del testo), sia che prevalga l’antiformalismo (vale a dire, l’attenzione alla ratio decidendi), una cosa è certa: il fallimento della pretesa trincerante del sistema per regole scritte ha già spostato il piano di osservazione dal testo alla sua applicazione. Penalisticamente parlando: dalla riserva di legge, alla tassatività, come conoscibilità dell’esito giudiziario.

Inoltre, richiamando l’attenzione sulla «comunità degli interpreti» (come appena detto, verosimilmente destinata a restare alquanto disomogenea al suo interno), ha valorizzato il ruolo del precedente giurisprudenziale.

È auspicabile che questa metamorfosi incida sulle tecniche di scrittura delle sentenze, rendendole più omogenee, più sintetiche e più “precise” sul piano linguistico[33], ma non può prevedersi se questo risultato sarà conseguito. Ciò che può, invece, fondatamente supporsi sin d’ora è che essa modifichi gli schemi mentali (ritenuti) tradizionalmente sottesi al ragionamento giudiziario e giuridico di civil law (che è un ragionamento per regole), sancendo il passaggio da un ragionamento di stampo analitico a un tipo di ragionamento di stampo sintetico o olistico[34]. Segnando un altro punto a favore dell’interpretazione come analogia.

7. Dall’ermeneutica ...

Veniamo così all’aspetto più delicato e rilevante dell’interpretazione.

Se l’analogia è un “salto”, e se il ragionamento giudiziario procede non per grandi salti, bensì mediante “saltelli” (o, per dirla con Schauer, tramite «progressi incrementali»), allora il vero “problema” potrebbe non essere quello che si annida nella cattiva scrittura della legge o nel grado di ottemperanza che ad essa mostra il giudice-burocrate. Potrebbe, nemmeno, concernere la forma del ragionamento o la mancanza di argomentazione.

Il “problema” potrebbe invece allignare, più subdolamente, nelle premesse non scritte del discorso giuridico. Premesse permeabili alle più varie infiltrazioni ideologiche, tuttavia difficili da stanare perché tacite, tante volte nemmeno consapevoli, spesso nascoste proprio nelle pieghe di significato di un testo.

Sembra, dunque, difficile negare il perdurante rilievo di monito morale della tanto deprecata corrente «ermeneutica»[35], la quale richiamò l’attenzione sulla precomprensione dell’interprete e sul fatto che tale pregiudizio inevitabilmente condiziona la scelta e, quindi, la ricostruzione del contenuto della disposizione rilevante, così come la ricostruzione del fatto[36].

8. ... alla psicologia cognitiva...

L’ermeneutica, lungi dall’essere smentita, sembra aver trovato conferme nella psicologia cognitiva, la prima fase del cui sviluppo è stata proprio tesa a denunciare le distorsioni sistematiche della conoscenza (biases) prodotte dall’inconsapevole operatività di cd. euristiche, e cioè da sistemi di ragionamenti veloci, economici ed intuitivi[37], e che peraltro ha evidenziato – questo il lato positivo – il carattere regolare di tali distorsioni, suggerendo la possibilità che gli errori siano emendati.

Così, si fa sempre più strada nel diritto penale la tendenza a riconoscere l’incidenza dell’hindsight bias nell’accertamento della colpa[38]. Insistiamo da qualche tempo sul fatto che causalità attiva e causalità omissiva, nel diritto penale, non soltanto sono identiche quanto a schema logico, ma andrebbero equiparate quanto a standard probatorio[39]. La diversa tesi potrebbe essere, infatti, condizionata dalle euristiche della disponibilità e della rappresentatività, le quali ci portano a ragionare partendo da esempi famosi, e a generalizzare impropriamente conclusioni che dovrebbero valere solo per essi[40]. Nota e discussa è l’ipotesi che, nella commisurazione giudiziale della pena, i giudici si lascino trascinare dall’effetto cd. “ancora”[41]. Sono stati segnalati gli effetti, nel diritto, del priming (che denota il fenomeno dell’associazione di idee e gli effetti a cascata prodotti in modo spesso inconsapevole dall’evocazione di una idea), del framing ristretto (la tendenza a scomporre i problemi contenendo le opzioni), del WYSIATI (acronimo di «What You See Is All There Is», per cui di fronte a una impressione iniziale, tendiamo a essere insensibili alla qualità e alla quantità di informazioni disponibili)[42]. Si tratta di tendenze, tutte, alla cui luce si spiega come mai un interprete, una volta che si sia fatto un’idea di quel che è successo o – aggiungiamo noi – di quello che dice un testo, rimanga solitamente legato a quella ipotesi, sottovalutando evidenze e argomenti contrari e sovra-interpretando quelli favorevoli, a scapito di ogni oggettività[43]. Un altro interessante filone di analisi ha a che fare con l’illusione della conoscenza[44], e cioè con il fenomeno per cui, quanto meno si sa di un dato argomento, tanto più ci illudiamo di conoscerlo, fenomeno anch’esso riferibile a tematiche penalistiche.

Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, ma il concetto è, banalmente, che tante volte cadiamo inconsapevolmente in trappole conoscitive le quali per parte sono innate, ma per parte sembrano determinate dal ruolo che, ripetutamente, giochiamo nella partita del processo e che modifica la nostra percezione. Rappresentandoci tale eventualità, diviene più facile evitare queste trappole.

La psicologia cognitiva ha la pretesa di insegnarci a pensare; ha una vocazione pedagogica, ammettiamolo pure, spesso irritante. Ci consente, però, di emendare piccole e grandi pecche[45] nei tanti casi in cui, in alternativa al ragionamento condotto, ve ne fosse uno suscettibile di essere giocato sul piano meramente consequenzialistico, casomai mediante l’ausilio della “controprove” logico-matematiche.

A questo devono la loro fortuna esempi come quello del cellulare e della sua custodia e quello di “Linda”.

 

Un cellulare e la sua custodia costano insieme 110 euro.

Il telefono costa 100 euro in più della custodia.

Quanto costa la custodia?[46]

 

Linda ha 31 anni, è single, estroversa e brillante; è laureata in filosofia; da studentessa, si interessava dei problemi di discriminazione e giustizia sociale ed è stata impegnata contro il nucleare. Che cosa è più probabile: che faccia la cassiera in banca oppure che faccia la cassiera in banca e che sia femminista?[47]

 

Nel primo caso, la risposta istintiva della gran parte degli intervistati è: 10 euro. Essa è tuttavia sbagliata, come dimostrato dal fatto che, se la custodia costasse 10 euro, la somma del valore della custodia e del cellulare sarebbe 120, e non 110 euro (la risposta esatta è: 5 euro).

Nel secondo caso, per l’assoluta maggioranza degli intervistati è più probabile che Linda sia “una impiegata di banca e femminista”. Ma anche questo è un errore, noto come fallacia della congiunzione, che consiste nel non tener conto della banale verità – obnubilata dalla citata euristica della rappresentatività – che un insieme formato da un oggetto (impiegata) è per forza di cose più esteso di un insieme formato da due oggetti (impiegata e femminista).

9. ... e ritorno. Deliberazione e intuizione

Vero ciò, per quanto ormai di moda anche nell’ambito giuridico[48], è dubbio che i caveat della psicologia cognitiva risolveranno ogni problema interpretativo.

Il mondo del diritto è spesso più chiaroscurale che negli esempi riportati alla fine del paragrafo precedente. Particolarmente sfumato, poi, è quello penalistico, che ruota attorno alla tutela di beni giuridici l’emersione e consistenza dei quali non rappresenta un dato della realtà, oltretutto numericamente misurabile (in euro, come per le custodie e i cellulari, o attraverso percentuali statistiche, come per Linda), ma risponde alle dinamiche proprie della deliberazione; vale a dire, è assoggettato a un potenzialmente infinito confronto tra argomentazioni. Qui il ragionamento logico-consequenziale, su cui fa affidamento la psicologia cognitiva, vacilla.

Per fare un esempio ancora poco tempo fa di moda nel dibattito sull’interpretazione, le euristiche della disponibilità e della rappresentatività spiegano perché, quando si prospettò la possibilità di vendere prestazioni sessuali via internet, la dottrina penalistica dominante escluse la configurabilità del reato di sfruttamento della prostituzione in capo al terzo che ne traesse un lucro, assumendo (nel silenzio legislativo sul punto) che la prostituzione non potesse prescindere dal contatto fisico tra corpi. Invero, questa forma di mercificazione del corpo non esisteva in passato e quindi non poteva essere richiamata mentalmente per riempire il contenutodell’incriminazione; dal che, la conclusione che si trattasse di un’analogia in malam partem, vietata. Oggi, alla luce di una maggiore consuetudine con i mezzi telematici, tale soluzione non appare forse più così scontata, ma resta il fatto che soltanto nel confronto tra contrapposte ragioni sarebbe possibile fornire una risposta (quale essa sia) al quesito interpretativo[49].

Se poi, all’esito di un processo deliberativo (potenzialmente infinito, ove dottrinale, ma costretto in tempi precisi, quando l’interpretazione deve contenersi nello spazio di un processo), i valori dovessero restare – come suol dirsi – incommensurabili, perché nel corso della partita (secondo la nota metafora di Robert Brandom, il teorico del «chiedere e dare ragioni») un’argomentazione non riesce ad avere la meglio su un’altra, allora, anche la «razionalità di scopo» avrebbe fallito il suo obiettivo.

È questo il caso delle materie eticamente orientate (innanzitutto, quelle del biodiritto), dove, se si astrae dalle preferenze ideologiche soggettive, è ancora dubbio che un’interpretazione possa dirsi migliore di un’altra.

«Disaccordi interpretativi profondi»[50] si registrano, ovviamente, anche al di fuori della bioetica.

Per stare all’area classica del diritto penale, ci si potrebbe interrogare, ad esempio, sulla natura polivalente dello stato di necessità la cui qualificazione in dottrina è stata, come noto, alterna nel tempo (in alcune fasi, nell’art. 54 cp si è visto una causa di giustificazione; in altre, una scusante). Su queste vicende interpretative hanno ovviamente giocato, per un verso, i casi concreti (e quindi, forse, le euristiche della rappresentatività e della disponibilità); per altro verso, quelle che noi pensiamo debbano essere le priorità dello Stato in un dato momento. Così, ad esempio, finché il terrorismo interno è stato la straziante emergenza che fu, si predilesse anche a livello dottrinale una lettura della disposizione codicistica come causa di giustificazione. Si negò, cioè, l’antigiuridicità di condotte di tortura nei confronti di prigionieri sospettati, volte a estorcere notizie utili alla salvezza di un numero indeterminato di potenziali vittime: condotte che integravano la tipicità di reati anche gravi. Terminata l’emergenza, si è “ri-espanso” lo Stato di diritto e, proprio a partire dall’inammissibilità di siffatte condotte, si è preferita la ricostruzione dell’art. 54 cp in chiave di (causa di) esclusione della colpevolezza, affermando la perfetta “esigibilità” delle condotte conformi a dovere[51]. Tuttavia, ferma la preferenza per tale ultima interpretazione (oltretutto costituzionalmente più orientata), siamo davvero sicuri che, a un nuovo brutale mutamento in peggio delle condizioni di sicurezza dei cittadini, nonostante tutte le sue buone ragioni, la tesi scusante dello stato di necessità non cederebbe nuovamente il passo a quella giustificante?

Ancora più provocatoriamente, quanti sostenitori dello stato di necessità come causa di esclusione della colpevolezza sarebbero disposti a rinunciare alla tutela penale del propriodomicilio per “scusare” la necessità abitativa dell’immigrato clandestino nullatenente che, non potendosi avvalere di alcun servizio sociale e dovendo far fronte a un lungo e rigido inverno, abbia deciso di scegliere tale domicilio come dimora per sé e la sua famiglia (incidentalmente, si tratta di situazioni non rare in alcune zone del Paese)?

Con questo non stiamo soltanto richiamando l’attenzione sull’ineliminabile ruolo del solito “pregiudizio interpretativo”. Più radicalmente, stiamo affermando che anche nel diritto penale esistono «dilemmi» insuscettibili di essere risolti con gli strumenti classici (a volte, ipocriti) della deliberazione, perché in relazione a essi non si danno interpretazioni migliori e peggiori, aprioristicamente e in assoluto. In questi casi, non essendo possibile definire in termini oggettivi che cosa è bene e che cosa è male, dovremmo forse predisporci ad ammettere che qualunque lettura è “carica di teoria” e che la cosa migliore è confidare dichiaratamente in decisioni «caso per caso». E forse ci stupiremmo anche favorevolmente nello scoprire che, quando incontrano il fatto bruto, le intuizioni si rivelano spesso più razionali… della ragione.

Ma questa sarebbe un’altra storia, che con i “salti” ha poco a che fare[52].

10. Conclusione: tutti i casi son difficili

Concludendo, vero è che anche nel diritto penale si percepisce, in questo momento, la risonanza di moti culturali che (ri-)simpatizzano per il realismo e mostrano insofferenza per le strettoie delle impostazioni costruttivistiche che avevano dominato la seconda metà del secolo scorso (il movimento è, invero, poco nuovo e molto pendolare).

Il giurista che cedesse alla facile conclusione che sia possibile recuperare l’aspirazione a “Verità” e “Certezza” nel diritto, anche penale, dimenticherebbe però che questo è – non può non essere – “costruzione” e che, quindi, dalle paludi (?) del costruttivismo non riuscirebbe comunque a riemergere, per un impedimento, per così dire, ontologico.

D’altronde – si obietterà – una cosa è affermare che il diritto può aspirare a “Verità” e “Certezza”, tesi nella sua assolutezza ormai generalmente abbandonata; altra è ammettere che nel discorso giuridico stia penetrando il nuovo realismo.

In quest’ultima ipotesi, che incidentalmente sposiamo, andrebbe tuttavia precisato che tale realismo s’incentra pur sempre sull’uomo, ed è veicolato dall’enorme sviluppo che hanno avuto in tempi recenti le neuroscienze e, in genere, tutte le scienze cognitive. L’affinamento di tali conoscenze ha fornito strumenti di osservazione (microscopi o lenti di ingrandimento, che dir si voglia) più potenti di quelli usati nel passato. Complessivamente, ciò sta spingendo verso l’individualizzazione, l’esaltazione delle differenze e la concretizzazione, piuttosto che verso la generalizzazione, la valorizzazione delle somiglianze e l’astrazione. Sarebbe ben strano se questo trend risparmiasse proprio il diritto, che dell’uomo (legislatore e interprete) – si ripete – è un mero prodotto.

Ciò premesso, la distanza tra la nostra posizione e quella della dottrina penalistica dominante potrebbe non essere così profonda come pure sembra a prima vista. Quantomeno, non è raro che un approccio (moderatamente) antiformalistico conduca a conclusioni più garantiste di chi argomenta a favore del cieco rispetto della littera legis, posto che, come abbiamo cercato di spiegare, la garanzia è negli occhi di chi legge il testo, piuttosto che nel testo in sé. Lo iato tra formalismo e antiformalismo è, almeno nella nostra percezione, più apparente che reale[53], anche perché dipende dal punto di osservazione prescelto: noi abbiamo sempre dichiaratamente optato per un approccio descrittivo piuttosto che per quello, classico, di stampo prescrittivo[54].

Per di più, nel prediligere la prospettiva del «Sein» a quella di un «Sollen» (sempre dal nostro punto di vista, difficilmente realizzabile), ci siamo concentrati sui soli casi (ancora hartianamente) “difficili”, come dimostrato anche dal fatto che abbiamo addotto esempi tratti dalle sezioni unite della Cassazione, le quali notoriamente intervengono in presenza di un dissidio interpretativo (oltre che quando la questione è di particolare rilevanza).

Rappresenta questo un errore di metodo?

Sia consentito dubitarne.

All’obiezione che i casi “difficili” sono in statistica minoranza rispetto ai tantissimi “facili”[55], è possibile rispondere che questo è fortunatamente vero, ma che sono i casi “difficili” – e non gli altri – a imprimere la spinta propulsiva al diritto (come a qualunque altro dominio di conoscenza).

Questa è, d’altronde, la ragione per cui vale la pena pensare e scrivere. Che è poi una ragione condivisa da tutti, proprio tutti. Non siamo mai incorsi in una nota o in un saggio che spieghi perché, quando Tizio ruba dalla borsa di Caia un portafogli colmo di denaro, commette un furto. Per contro, capita di imbattersi in complesse ricostruzioni di teoria del reato, che muovono sovente dalla discussione di casi concreti. Che altro sono, quelle interpretazioni, se non ragionamenti analogici a partire da premesse assiologicamente connotate?

Inoltre, è verosimile e forse, nel lungo termine, inevitabile che casi nati “facili” diventino, al modificarsi della realtà fattuale, (più o meno) chiaroscurali e quindi (più o meno) “difficili”, per poi eventualmente tornare a essere (sempre “a tempo”) “facili”.

Si è già citata la recente sentenza a sezioni unite sulla produzione di materiale pedopornografico, che, proprio in ragione del mutamento della realtà, ha ritenuto sufficiente all’integrazione del reato il solo fatto che il soggetto attivo (un parroco) avesse ripreso con il cellulare alcuni minori intenti a compiere o a subire atti sessuali, prescindendo dalla messe di “elementi indizianti” che la giurisprudenza precedente riteneva necessari a provare il pericolo concreto di diffusione delle immagini. Sempre per stare a tematiche già lambite, si potrebbe citare la qualificazione in chiave di sfruttamento della prostituzione che la giurisprudenza fa della condotta di chi trae un lucro dagli atti sessuali realizzati a pagamento tramite internet[56]. Oppure, si potrebbero richiamare le disposizioni di omicidio un tempo cosiddette “minori” (e di piana interpretazione), nel rapporto con il fine-vita, e le vicende in fieri della (tragica) casistica umana interessata. Più in generale, basta sfogliare un vecchio commentario per comprendere quanto diverso sia il diritto oggi vivente da quello che viveva solo qualche anno fa, anche in rapporto a fattispecie legislative meno problematiche.

Se così non fosse – se, cioè, non ci rappresentassimo l’eventualità che la soluzione giuridica si modifichi al mutare della realtà (che, incidentalmente, evolve con velocità esponenziale) –, il giurista plaudirebbe all’irruzione nel diritto penale dell’intelligenza artificiale (AI), quanto meno nei casi “nunc-facili”. L’AI è il tema del momento[57]; si prospetta effettivamente come un modo efficace di gestire, forse addirittura di smaltire, l’enorme contenzioso giudiziario dei “casi facili” (uno dei maggiori ostacoli alla calcolabilità del diritto) e rinverdisce il mito del giudice “bocca della legge”. Il giudice-bocca-della-legge-algoritmo sarebbe infatti più preciso, veloce e economico del giudice-bocca-della-legge-uomo. Ovviamente, almeno sinché non saranno elaborati programmi che consentano l’auto-emenda del sistema, come contropartita dovremmo essere moralmente disposti a sacrificare la giustizia del caso singolo alla certezza del diritto: non solo sempre (che è quanto facciamo: la possibilità che la regola si riveli talvolta subottimale è ancora compensata dalle note argomentazioni a favore dell’eguaglianza e della tenuta di sistema[58])… ma anche per sempre.

E quale giurista sarebbe davvero disposto a tanto concedere?

[1] In realtà, come preciserò anche in conclusione, queste etichette rischiano di divenire fuorvianti poiché formalismo e antiformalismo, nel diritto, a differenza che in altri domini di conoscenza, sono entrambi moderati.

[2] Limitando le citazioni alle monografie italiane, si vedano: G. Bellavista, L’interpretazione della legge penale, Giuffrè, Milano, 1936 (ristampa inalterata: 1975); G. Vassalli, Limiti del divieto d’analogia in materia penale, Giuffrè, Milano, 1942; N. Bobbio, L’analogia nella logica del diritto, Tipografia Collegio degli artigianelli, Torino, 1938; M. Boscarelli, Analogia e interpretazione estensiva nel diritto penale, Priulla, Palermo, 1955; L. Caiani, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Cedam, Padova, 1954.

[3] Si veda, da ultimo, V. Manes, Dalla “fattispecie” al “precedente”: appunti di deontologia “ermeneutica”,in Dir. pen. cont., 17 gennaio 2018, p. 6 (disponibile online: www.penalecontemporaneo.it/d/5817-dalla-fattispecie-al-precedente-appunti-di-deontologia-ermeneutica). Tra i più recenti e autorevoli interventi sul punto, si vedano, inoltre: G. Fiandaca, Prima lezione di diritto penale, Laterza, Bari, 2018, pp. 114 ss.; M. Donini, Il diritto giurisprudenziale penale. Collisioni vere e apparenti con la legalità e sanzioni dell’illecito interpretativo, in Dir. pen cont., n. 3/2016, pp. 13 ss.; D. Pulitanò, Crisi della legalità e confronto con la giurisprudenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, pp. 29 ss. (ma l’elenco sarebbe lungo).

[4] La terminologia (solo quella) è di G. Canguilhem, Le normal et le pathologique, 1966, traduzione italiana: Il normale e il patologico, Einaudi, Torino, 1998.

[5] Fondamentale, sul tema: M. Barberis, Etica per giuristi, Laterza, Bari, 2006.

[6] Si tratta di tesi sviluppate in O. Di Giovine, L’interpretazione nel diritto penale. Tra creatività e vincolo alla legge, Giuffrè, Milano, 2006; Ead., Considerazioni su interpretazione, retorica e deontologia in diritto penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, pp. 93 ss.; Ead., Dal costruttivismo al naturalismo interpretativo? Spunti di riflessione in materia penale, in AA.VV., Criminalia 2012, ETS, Pisa, 2013, pp. 267-284 (www.edizioniets.com/Priv_File_Libro/2507.pdf); Ead., Il ruolo costitutivo (con particolare riferimento al precedente europeo) della giurisprudenza, in La crisi della legalità. Il «sistema vivente» delle fonti penali, ESI, Napoli, 2016, pp. 145 ss.

[7] L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, 1953, traduzione italiana: Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1999.

[8]  Per una godibile introduzione, nella filosofia linguistica, si veda C. Bianchi, Pragmatica del linguaggio, Laterza, Bari, 2003. Nella gius-filosofia, per tutti, si veda il recente A. Capone - F. Poggi (a cura di), Pragmatics and Law. Philosophical Perspectives, Springer, Dordrecht, 2016.

[9] Una discussione è in S. Moruzzi, Vaghezza. Confini, cumuli e paradossi, Laterza, Bari, 2012.

[10] Mutatis mutandis, W.O. Quine, Parola e oggetto, il Saggiatore, Milano, 2008 (edizione originale:  1960), p. 157.

[11] Vd. ora l’ampio saggio di G.P. Demuro, L’interpretazione sistematica nel diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, pp. 1088 ss., che peraltro ne propone una nozione molto restrittiva (in part., pp. 1104 ss.).

[12] O. Di Giovine, L’interpretazione nel diritto penale. Tra creatività e vincolo alla legge, Giuffrè, Milano, 2006, pp. 274 ss.

[13] Limito le citazioni a U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano, 1990; Id., Interpretation and overinterpretation, 1992, traduzione italiana: Interpretazione e sovrainterpretazione, Bompiani, Milano, 2002.

[14] U. Eco, Interpretazione, op. cit., p. 126.

[15] U. Eco, Interpretazione, op. cit., pp. 173 ss.

[16] Similmente, tornando ad Hart e citando il celeberrimo esempio del «divieto di ingresso per i veicoli nel parco» (H.L.A. Hart, The Concept of Law, 1961, traduzione italiana: Il concetto di diritto, Einaudi, Torino, 2002, 148), è stato di recente chiosato che difficile è intendersi sul concetto di “veicolo” e sulla ratio della norma (ci rientrano biciclette, skateboard o passeggini?); tuttavia, una volta identificata tale ratio nell’opportunità di preservare un ambiente silenzioso che consenta il riposo delle persone, comunque il divieto non potrebbe estendersi a un concerto rock, nonostante l’indiscussa rumorosità di questo. F. Schauer, Thinking Like a Lawyer. A New Introduction to Legal Reasoning, 2009, traduzione italiana: Il ragionamento giuridico. Una nuova introduzione, Carocci, Roma, 2016, p. 221.

[17] Quantomeno, nel senso che sono ben identificabili e che la dottrina non incontra soverchie difficoltà dell’identificarli (e stigmatizzarli).

[18] K.J. Holyoak e P. Thagard, Mental Leaps. Analogy in Creative Thought, MIT Press, Cambridge (MA), USA, 1995.

[19] Invero, a rigore, come sono solita ricordare, non mancano nemmeno situazioni in cui il testo non c’è o dice qualcosa di contrario a quello che, pure, pacificamente si ritiene. L’esempio più significativo è rappresentato dalla configurabilità, in generale, del dolo eventuale.

[20] Un interessante e lungo elenco è in D. Micheletti, Jus contra lex. Un campionario dell’incontenibile avversione del giudice penale per la legalità, in Aa. Vv. Criminalia 2016, ETS, Pisa, 2017, pp. 161-192 (www.edizioniets.com/Priv_File_Libro/3639.pdf).

[21] Invero, forse si sarebbe potuto sostenere che, più che alimentare la responsabilità del medico, la riforma mirasse a ri-orientare in un senso costituzionalmente conforme le categorie giurisprudenziali in tema di colpa. Amplius, O. Di Giovine, Mondi Veri e Mondi immaginari di Sanità, Modelli epistemologici di medicina e sistemi penali, in Cass. pen., 2017, pp. 2151 ss.

[22] Analiticamente, su questo punto, A. Roiati, Il compromesso interpretativo praeter legem delle Sezioni unite in soccorso del nuovo art. 590-sexies c.p., in  Arch. pen., n. 2/2018, pp. 423 ss.

[23] È stata questa, nella sostanza, la lettura autorevolmente sostenuta da F. Viganò, quantomeno a partire da Una prima pronuncia delle Sezioni Unite sui “fratelli minori” di Scoppola: resta fermo l’ergastolo per chi abbia chiesto il rito abbreviato dopo il 24 novembre 2000, in Dir. pen. cont., 10 settembre 2012, disponibile online (www.penalecontemporaneo.it/d/1699-le-sezioni-unite-rimettono-alla-corte-costituzionale-l-adeguamento-del-nostro-ordinamento-ai-princi)

[24] Si veda Cass., sez. unite, 21 gennaio 2010 (dep. 13 maggio 2010), n. 18288.

[25] Sul punto, il bel contributo di T.E. Epidendio, Riflessioni teorico-pratiche sull’interpretazione conforme, in Dir. pen. cont., nn. 3-4/2012, pp. 26 ss.

[26] A tale scopo si è senza dubbio prodigata la Corte costituzionale.

Sul punto, è solitamente citata (e celebrata) la sentenza n. 230 del 2012, che ha speso una difesa accorata e frontale della «riserva di legge», evidenziando come il diritto giurisprudenziale non possa essere messo sullo stesso piano di quello legislativo (per una rassegna delle conseguenze che la pronuncia ha inteso scongiurare, si veda T.E. Epidendio, Brevi impressioni e spunti a margine del dibattito sul mutamento giurisprudenziale, in Dir. pen. cont, 14 dicembre 2012, disponibile online (www.penalecontemporaneo.it/d/1913-brevi-impressioni-e-spunti-a-margine-del-dibattito-sul-mutamento-giurisprudenziale).

Dal nostro punto di vista, più proficua è risultata tuttavia la strategia, in certo senso opposta, che la Corte costituzionale ha attivato nella partita sul “caso Taricco” (ord. n. 24 del 2017; sent. n. 115 del 2018). Qui, la Consulta ha camuffato il «pugno di ferro» in un «guanto di velluto», allo scopo (inveratosi) di consentire alla Cgue di riprendere un dialogo che minacciava di interrompersi. Ciò ha fatto ricorrendo a un linguaggio meno legato alla specificità nazionale della riserva di legge, e come tale condiviso – oltre che comprensibile – anche dalle altre corti europee. Pensiamo, in particolare, all’ord. n. 24 del 2017 dove il termine «legalità» ricorre ben tredici volte, a fronte della locuzione «riserva di legge», usata una sola volta (sull’ordinanza in oggetto, vds. i contributi, dei più disparati segni, contenuti in A. Bernardi e C. Cupelli (a cura di), Il caso Taricco e il dialogo tra le Corti. L’ordinanza 24/2017 della Corte Costituzionale, Jovene, Napoli, 2017. Quanto alla successiva pronuncia, si veda M. Donini, Lettura critica di Corte Costituzionale n. 115/2018, in Dir. pen. cont., 18 luglio 2018, dove l’Autore ritiene che la Consulta abbia di fatto attivato lo strumento dei controlimiti (disponibile online: www.penalecontemporaneo.it/d/6160-lettura-critica-di-corte-costituzionale-n-1152018).

A vincere la suggestione della “giurisprudenza europea come fonte formale dell’ordinamento interno” hanno, però, contribuito innanzitutto le stesse Corti europee: la Cgue, portatrice di una giurisprudenza poco condivisibile, perché persistentemente sbilanciata verso la tutela di interessi (propri e) di natura economica; la Corte Edu, che ha cominciato a smentire nella sostanza i suoi precedenti, macchiando la sua immagine – fino ad allora abbastanza immacolata – di giudice coerente e, nei contenuti, progressista. Alludo, ovviamente, a Corte Edu, sez. II, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia,(ricc. nn. 18640/10 e altri quattro) in tema di bis in idem, e alla successiva Corte Edu, Grande Camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia (ricc. nn. 24130/11 e 29758/11).

[27] Si veda anche la sentenza della Corte cost. n. 49 del 2015.

[28] Art. 618 cpp, come modificato dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, che ha così uniformato la disciplina del rapporto tra sezioni semplici e sezioni unite penali a quanto già previsto per la Corte di cassazione civile dall’art. 374, comma 3, cpc, come modificato dall’art. 8, d.lgs 2 febbraio 2006, n. 40.

[29] G. Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale in Dir. pen. cont., 6 febbraio 2017, p. 5 disponibile online (www.penalecontemporaneo.it/d/5204-nomofilachia-e-diritto-giurisprudenziale).

[30] Evocativo, sin dal titolo, J. Marshall, Trentatré cose che si possono fare con i precedenti. Un dizionario di common law, in Ragion pratica, n. 6/1996, pp. 29 ss.

[31] F. Schauer, Il ragionamento giuridico, op. cit., p. 78.

[32] Sul tema, v. ora F. Parisi, Prostituzione. Aporie e tabù di un nuovo diritto penale tutorio, Giappichelli, Torino, 2018.

[33] Su questo tema, per niente secondario, si vedano le considerazioni di F. Schauer, Il ragionamento giuridico, op. cit., Capitolo 10 (pp. 245 ss.).

[34] Non necessariamente ciò rappresenterebbe, in sé, un danno. Sulla dottrina del precedente giudiziale, ora, per tutti, le considerazioni di M. Barberis, Contro il creazionismo giuridico. Il precedente giudiziale tra storia e teoria, in Quaderni fiorentini, vol. XLIV, 2015, pp. 67-101, disponibile online (www.centropgm.unifi.it/cache/quaderni/44/0072.pdf).

[35] H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, 1960, traduzione italiana: Verità e metodo, Bompiani, Milano, 2001; J. Esser, Vorverständnis und Methode in der Rechtsfindung, 1970, traduzione italiana: Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, ESI, Napoli, 1983.

[36] Fondamentali, nel diritto penale, A. Kaufmann, Analogie und «Natur der Sache». Zugleich ein Beitrag zur Lehre vom Typus, 1982, traduzione italiana: Analogia e «natura della cosa». Un contributo alla dottrina del tipo, Vivarium, Napoli, 2004; W. Hassemer, Tatbestand und Typus. Untersuchungen zur strafrechtlichen Hermeneutik, 1968, traduzione italiana: Fattispecie e tipo. Indagini sull'ermeneutica penalistica, ESI, Napoli, 2007; J. Hurschka, Die Konstitution des Rechtsfalles. Studien zum Verhältnis von Tatsachenfestsellung, 1965, traduzione italiana: La costituzione del caso giuridico. Il rapporto tra accertamento fattuale e applicazione giuridica, il Mulino, Bologna, 2009. Tutte e tre le traduzioni sono state curate da G. Carlizzi.

[37] D. Kakneman, Thinking, Fast and Slow, 2011, traduzione italiana: Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano, 2012. Si tratta di un cult ormai penetrato anche in materia giuspenalistica. Sempre nella psicologia cognitiva, ma con un differente approccio, si veda tuttavia la (parziale) rivalutazione delle «euristiche dell’affetto» di Paul Slovic: per tutti, P. Slovic (a cura di), The feeling of Risk. New Perspectives on Risk Perception, Earthscan, Londra, 2010.

[38] Da ultimo, ampiamente, M. Caputo, Colpa penale del medico e sicurezza delle cure, Giappichelli, Torino, 2017, per es., pp. 173 ss.

[39] O. Di Giovine, La responsabilità penale del medico: dalle regole ai casi, in Riv. it. med. leg., 2013, pp. 61 ss.

[40] Per esempio, poiché non è possibile prevedere l’andamento di un tumore, si ritiene impossibile mettere in relazione causale con l’evento finale l’omessa diagnosi di una qualunque malattia, laddove, per contro, è ben possibile che una morte da peritonite dipenda con elevatissima probabilità logica dall’omessa diagnosi di una appendicite. Per converso, non è possibile ravvisare con ragionevole certezza il nesso causale tra il trattamento chirurgico di un aneurisma cerebrale e un danno al paziente, nonostante l’operazione sia senz’altro un’azione.

[41] Di recente, G. Cevolani e V. Crupi, Come ragionano i giudici: razionalità, euristiche e illusioni cognitive, in Discrimen, 22 ottobre 2018, pp. 8 ss., disponibile online (https://discrimen.it/wp-content/uploads/Cevolani-Crupi-Come-ragionano-i-giudici.pdf).

[42] Il sistema riflessivo, oltre che narciso e pigro, è anche accomodante, poiché tende a fidarsi delle intuizioni di quello automatico. Si veda D. Kahneman, Pensieri lenti, op. cit., pp.96 ss.

[43] Con specifico riferimento al ragionamento giudiziario, P. Cherubini, Processi cognitivi e ragionamento giudiziario, in AA.VV., Diritto, Giunti, Firenze-Milano, 2011, pp. 74 ss. L’Autore parla, ad esempio, di pseudodiagnosticità, e cioè della sistematica tendenza a sottovalutare la probabilità di osservare l'indizio nei casi negativi a favore della probabilità di osservarlo nei casi positivi, che cioè rispondono all’ipotesi. Evidenzia, inoltre, la propensione automatica e inconscia ad accettare il Modus Ponens (modo di ragionamento in cui, affermando qualcosa, si afferma qualcos’altro) piuttosto che il Modus Tollens (modo di ragionamento in cui, negando qualcosa, si nega qualcos’altro) e pone l'accento sulla sottovalutazione delle assenze: poiché è difficile percepire a livello sensoriale un’assenza (la mancanza di impronte, di macchie di sangue, di una traccia bancaria), tale assenza viene spiegata in termini di irrilevanza o di ipotesi alternative, piuttosto che indiziare l’innocenza dell'indagato.

[44]S. Sloman - P. Fernbach, The Knowledge Illusion. Why We Never Think Alone, 2017, traduzione italiana: L’illusione della conoscenza. Perché non pensiamo mai da soli, Cortina, 2018.

[45] Il primo importante studio sui biases dei giudici è il famoso C. Guthrie - J.J. Rachlinskit - A.J. Wistrich, Blinking on the bench: how judges decide cases, Cornell Law Faculty Publications (Paper 917), Ithaca (NY), USA, 2007 (disponibile online: https://scholarship.law.cornell.edu/facpub/917). Gli Autori, al rimedio già in sé insito nel fatto di sapere che è possibile sbagliare, aggiungono i seguenti: concedere ai giudici più tempo per decidere; scrivere più spesso le opinioni; training in statistica; ricorrere a checklist.

[46] G. Cevolani e V. Crupi, Come ragionano, op. cit., pp. 6 ss. La versione originale di questo test è in S. Frederick, Cognitive reflection test and decision making, in Journal of Economic Perspectives, 19 (4), 2005, pp. 25 ss. Gli esempi sono stati ripresi, tra gli altri, da S. Sloman - ­P. Fernbach, L’illusione della conoscenza cit., p. 95 ss.

[47] L’esempio fu proposto per la prima volta da A. Tversky e D. Kahneman, Extensional versus Intuitive Reasoning: The Conjunction Fallacy in Probability Judgment, in Psychological review, vol. 90, n. 4/1983, pp. 547 ss. (disponibile online: http://psy2.ucsd.edu/~mckenzie/TverskyKahneman1983PsychRev.pdf); Id., Availability: A Heuristic for Judging Frequency and Probability, in Cognitive psychology, n. 4/1973, pp. 207 ss.; Id., Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases, in Science, vol. 185, 1974, pp. 1124 ss.; D. Kahneman, Pensieri lenti, op. cit., 172 ss. Io stessa l’ho mutuato più volte (la prima, in O. Di Giovine, Un diritto penale empatico?, Giappichelli, Torino, 2009, pp. 90 ss.).

[48] Si pensi alla produzione di C. Sunstein e, ad esempio, a Laws of Fear. Beyond the Precautionary Principle, 2005, traduzione italiana: Il diritto della paura. Oltre il principio di precauzione, il Mulino, Bologna, 2010.

[49] Il primo ad aver richiamato l’attenzione su questa casistica fu F. Palazzo, Testo, contesto e sistema nell’interpretazione penalistica, in Studi in onore di G. Marinucci - I, Giuffrè, Milano, 2006, pp. 530 ss. La prostituzione online ha rappresentato inoltre uno dei campi su cui Fausto Giunta sollecitò la discussione di G. Carcaterra, O. Di Giovine, N. Mazzacuva e V. Velluzzi nella sezione Opinioni a confronto - Tra analogia e interpretazione estensiva. A proposito di alcuni casi problematici tratti dalla recente giurisprudenza, in Aa. Vv., Criminalia 2010, ETS, Pisa, 2011, pp. 347-382(www.edizioniets.com/criminalia/2010/012-OPINIONI-ANALOGIA.PDF).

[50] V. Villa, Disaccordi interpretativi profondi. Saggio di metagiurisprudenza ricostruttiva, Giappichelli, Torino, 2017.

[51] Impossibile non citare F. Viganò, Stato di necessità e conflitti di doveri. Contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti, Giuffrè, Milano, 2000, cui si rinvia altresì per la ricostruzione della precedente dottrina.

[52] Ha più a che fare con il ruolo che alcune emozioni potrebbero, moderatamente, giocare nella comprensione di alcuni fatti penalmente rilevanti. Per la “narrazione” di questa diversa storia rinvio a O. Di Giovine, Un diritto penale empatico?, op. cit.

[53] Precisazioni in O. Di Giovine, A proposito di un recente dibattito su “verità e diritto penale”, in AA.VV., Criminalia 2014, ETS, Pisa, 2015, pp. 539-559 (www.edizioniets.com/criminalia/2014/pdf/10-2-DiGiovine.pdf).

[54] Più esplicitamente, riteniamo che valga a poco continuare a indignarsi per le (innegabili) distorsioni interpretative della giurisprudenza agitando il vessillo della legalità. Se il problema consiste in una perdita di cultura delle garanzie nella giurisdizione, è sul piano della formazione all’ingresso dei magistrati che si dovrebbe agire. E – come si trova ormai spesso sottolineato – in tale direzione, l’università (istituzione a ciò deputata) potrebbe e dovrebbe svolgere un ruolo più incisivo.

[55] M. Donini, Disposizione e norma nell'ermeneutica contemporanea, in Id., Europeismo giudiziario e scienza penale, Giuffrè, Milano, 2011, in particolare 72 ss. Si vedano anche: Id., Il diritto giurisprudenziale penale, op. cit., in particolare pp. 33 ss.; F. Schauer, Il ragionamento giuridico, op. cit., p. 59.

[56]  Ad esempio, Cass. pen., sez. III, 9 aprile 2015 (dep. 27/4/2015), n. 17394, in Ced, 263358.

[57] … oltre che realtà. Del 3-4 dicembre 2018 è l’approvazione della Carta etica europea per l’uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari (Commissione europea per l’efficienza della giustizia - Cepej), ai cui caveat rinviamo (www.coe.int/it/web/portal/-/council-of-europe-adopts-first-european-ethical-charter-on-the-use-of-artificial-intelligence-in-judicial-systems).

[58] Per una rinvigorita esposizione delle ragioni a favore del trinceramento per regole, ancora F. Schauer, Il ragionamento giuridico, op. cit.