Magistratura democratica

Storicità versus prevedibilità:
sui caratteri di un diritto pos-moderno

di Paolo Grossi

In questa riflessione, l’Autore ragiona sulla storicità e sulla fattualità del diritto, inseparabilmente intriso degli interessi e dei valori che si agitano nella società. In tale prospettiva, la certezza del diritto – e la sua prevedibilità – possono essere strumentalizzate a fini di conservazione di determinati assetti economici e sociali. L’Autore attraversa varie tappe storiche e individua nell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana un passaggio di fase, in cui si riconosce il nesso diritto/società con una impostazione apertamente pluralistica del fenomeno giuridico. Di qui la centralità del ruolo degli interpreti, in approccio continuo coi fatti di vita e di essi percettori

1. Alcune precisazioni liminali

Forse, è bene – liminalmente, sia pure concisamente – fare chiarezza sui due vocaboli che, evidenziati nella intitolazione, sono chiamati a fungere da intelaiatura portante delle prossime pagine.

Storicità. Puntualizza il continuo intridersi del diritto coi valori interessi fatti, di cui è intessuta la società; anzi, di più: la inseparabilità da questi, proprio perché il diritto, solo in astruse e sterili discettazioni, è una nuvola che galleggia alta sul divenire sociale.

Prevedibilità. È nozione inscindibilmente connessa, in astratto, a quella di certezza. Anzi, la certezza è il suo necessario presupposto. Solo che, mentre la certezza si limita a una fase enunciativa, la prevedibilità si connette direttamente anche a una fase applicativa, ossia ai pronosticabili èsiti.

2. Il diritto moderno e la sua perfetta prevedibilità

L’età, nella quale la prevedibilità del diritto, conclamata e realizzata, è assunta – addirittura – a valore fondante dell’ordine giuridico, può individuarsi indubbiamente nella modernità, quella modernità che si esprime appieno con il momento giacobino della Rivoluzione francese e, sempre in Francia, con l’opera legislativa a proiezione amplissima di Napoleone. Ora che il ceto borghese ha finalmente conquistato il potere supremo dello Stato, anche quel diritto civile, prima costantemente generato e rinnovato da consuetudini e ordinato dalla sapienza tecnica dei giuristi, proprio per il suo occuparsi di temi direttamente implicati nel disciplinamento delle ricchezze (proprietà privata, contratto, atti mortis causa, rilevantissimi per quell’assetto socio-politico), non può che essere sottoposto a un rigido controllo statuale e, per la prima volta nella storia del diritto, quel diritto civile perde il carattere che lo rendeva essenzialmente privato e cioè la sua estra-statualità[1].

       Ormai, spettava solo allo Stato di trasformare gli accadimenti sociali in leggi, e al vecchio pluralismo si sostituiva un monismo rigidissimo: un solo produttore di diritto, una sola fonte, la legge, rispetto alla quale, se altre potevano prevedersi, sarebbero sempre state confinate a un livello inferiore, assolutamente ancillari perché prive di autonomia. Si trattò, nella modernità, di un drastico riduzionismo: il paesaggio giuridico era ridotto a una realtà formale estremamente semplice, tanto che si poté avere l’orgogliosa presunzione di racchiudere una intiera branca dell’esperienza entro un sistema di previsioni normative chiamato Codice, una fonte che tende ad essere esclusiva e che è pensata per durare senza limiti di tempo (come, in genere, ogni legge)[2].

Norme sepolte nella immobilità di un testo cartaceo e che trovavano la capacità di proiettarsi in un futuro senza limiti in grazia di un carattere impresso nelle loro trame costruttive: la astrattezza, la separatezza dai fatti sociali ed economici in perpetuo divenire. Ad essi era tenuto a guardare solo il legislatore, che avrebbe continuato per tutta la modernità (ossia per tutto il secolo XIX) a godere della idealizzazione e, insieme, della gigantizzazione voluta nei progetti filosofici e politici dell’illuminismo settecentesco, nei quali si amava proporlo quale personaggio modello, immune da triviali passioni, imparziale e lungimirante. Grazie a un processo decisamente mitizzatorio, egli si vedeva investito di un autentico potere creativo, spettando a lui di manipolare il mondo dei fatti secondo una volontà che ben può dirsi assoluta.

Il risultato non era soltanto un paesaggio estremamente semplicizzato, ma ridotto in una geometria di categorie, suadenti perché composte in un sistema logicamente coerente. Il Codice, che era la fonte esemplare di questo momento storico, si presentava quale intelaiatura astratta, formale, però vincolatissima – nella sostanza – alla forza politica che lo aveva voluto, e pertanto coerente all’assolutismo giuridico messo in atto con durezza durante la modernità[3].

3. Il riduzionismo giuridico moderno e le sue salde risultanze: semplicità, chiarezza, certezza

Al fondo di tale imponente operazione di politica del diritto si avevano delle conseguenze vistose: si raggiungeva pienamente l’ideale illuministico di un diritto chiaro e certo, al contrario del caotico pluralismo giuridico di ogni società di antico regime (a cominciare da quella francese prima del 1789). E questo interessava assai all’imperante assolutismo giuridico, perché certezza e chiarezza rendevano inammissibile l’ignoranza e ineludibile l’obbedienza. Infatti, l’esercizio delle libertà economiche, vero perno portante di una civiltà borghese (libertà di gestione del patrimonio, libera circolazione dei beni, libera loro trasmissione per via ereditaria), esigeva la protezione efficace di uno Stato tanto forte da poter garantire la impietosa disuguaglianza fra ricchi e poveri. Sia ribadito che, a questo fine, accanto a un diritto semplice e quindi ben prevedibile, giovava parecchio il culto osservatissimo della astrattezza delle regole; giovava che la égalité scritta su ogni vessillo rivoluzionario, il vanto più orgogliosamente ostentato fra le novazioni rivoluzionarie, si riducesse a una mera possibilità della uguaglianza di fatto.

Un simile assetto, che poco aveva di autenticamente democratico, poteva funzionare fino a quando l’apparato statuale borghese fosse riuscito a comprimere il magma ribollente della “sottostante” società, mantenendola al rango infimo di piattaforma inerte impunemente calpestabile. Tutto diventa problematico quando in essa, negli ultimi decenni dell’Ottocento, comincia a diffondersi una coscienza tutta nuova capace di tradursi in assetti organizzativi di rilievo sempre maggiore; quando in essa, di conseguenza, comincia una dinamica interiore che bandisce la vecchia inerzia e avanza pretese turbative per la quiete dell’ordine stabilito. In quei decenni è, per il giurista, il segno che un tempo storico – il moderno – si sta esaurendo, mentre ne compare uno profondamente nuovo e diverso, un tempo che chiameremo pos-moderno per puntualizzare che si stanno preparando, in Italia e in tutta l’Europa continentale, novità cospicue con l’emersione di valori nuovi[4].

4. Complessità e fattualità di un diritto pos-moderno

La dinamica, che percorre indubbiamente la piattaforma sociale, dà a questa un ruolo ormai sempre più protagonistico. Il che significa che il paesaggio socio-giuridico, da semplicissimo che era (o, meglio, che si era forzosamente ottenuto), sta diventando complesso, ed è proprio con questa complessità che si deve fare i conti: dapprima vivacizzatrice della dimensione sociale, non può che aspirare alla pretesa di un ordinamento giuridico a se stessa coerente, un ordinamento che registri puntualmente la svolta avvenuta e prenda atto che tutto il “sociale” è componente del nuovo paesaggio giuridico come ineliminabile e condizionante presenza.

La vera novità – e pesante, e incisiva – sta proprio nelle conseguenze che questa nuova presenza comporta, consistenti soprattutto nel coinvolgimento dei fatti. Sì, perché di fatti – strutturali, economici, culturali – la società si nutre e si intride, sicché protagonismo della società significa protagonismo anche di questa grezza fattualità[5], che il diritto moderno aveva respinto nella irrilevanza, lasciando all’arbitrio del Sovrano di selezionare con un filtraggio rigorosissimo guidato soltanto dal suo progetto politico.

Il giurista, che, a mio avviso, più d’ogni altro ha intuito e denunciato in Italia il mutamento in corso tra fine-Ottocento e primi-Novecento, è Santi Romano. Dopo avere, in parecchie lezioni solenni, valutato in modo decisamente riduttivo le universalmente osannate “carte dei diritti” sette/ottocentesche perché troppo astratte e incapaci di offrire al comune cittadino strumenti concreti per migliorare la propria esistenza[6], scegliendo nel 1909 quale tema di un paludato discorso accademico «Lo Stato moderno e la sua crisi»[7], lo assume come occasione propizia per diffondere tra i giuristi italiani la sua veridica diagnosi della realtà circostante, da lui osservata con attenzione e coraggiosamente constatata nella sua cruda effettività: lo Stato moderno, voluto come compatto e unitario, impassibile di fronte alle richieste provenienti dal basso, trova i fattori della sua crisi precisamente in una piattaforma sociale che rivendica un proprio ruolo, organizzandosi e articolandosi in coagulazioni collettive, ora sindacali, ora corporative, ora assistenziali, ora cooperative, tutte lesioni della vecchia compattezza, tutte testimoni di una complessità prima soffocata e ora capace di esprimersi fronteggiando l’apparato di potere dello Stato borghese.

5. Ancora sulla fattualità del diritto pos-moderno

Il diritto civile è il segno più tangibile di quanto sia logorante per le architetture giuridiche moderne (guglie gotiche svettanti ben al di sopra della esperienza storica) l’impatto con la fattualità. Assunto come ratio scripta nella tradizione romanistica, ammantato nella sua astrattezza e nella conseguente unitarietà, aveva trovato nel Codice la sua perfetta intelaiatura in categorie formali praticamente de-storicizzate. Ora - primi anni del secolo pos-moderno - deve fare i conti con l’incalzare di fatti sociali ed economici non più eludibili nella nuova società italiana, che va finalmente fornendosi di un assetto, via via, autenticamente democratico (dopo un lungo, faticoso itinerario si ha nel 1913 la conquista di un quasi perfetto suffragio universale maschile!); che vivrà nel 1948 l’evento fondamentale di una Costituzione estremamente incisiva su tutta la realtà giuridica (a cominciare dal diritto privato)[8].

Due esempi sono illuminanti, e concernono un fatto sociale, il lavoro, e un fatto strutturale ed economico insieme, la cosa/terra quale fattore produttivo.

Nella civiltà moderna il lavoro, valutato in modo simile agli antichi romani immersi in una società inflessibilmente proprietaria, è nulla più di quella cosa, l’unica di cui il lavoratore subordinato ha il dominio, che egli offre non gratuitamente a chi voglia fruirne. È completamente estraneo a una civiltà borghese individualista e anch’essa rigidamente proprietaria che il lavoro sia, come lo percepiamo noi, una dimensione della persona, inerente alla sua dignità ma anche contributo a una migliore esistenza nella concretezza della vita. Qui si ha invece la più sorda mercificazione, come è dimostrato dalla assenza nel Code Civil (1804) e nel primo Codice civile unitario italiano (1865) di un contratto di lavoro con caratteri di autonomia, nonché dalla imperturbabile[9] qualificazione tecnica della prestazione lavorativa come “locazione d’opere”, in tutto tecnicamente identica alla locazione di cose, l’una e l’altra ricomprese entro il genus unitario “locazione”. Ancora nel 1900 il troppo apologizzato Lodovico Barassi, nella sua ampia trattazione che pure si intitolava «Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano», non riusciva ad affrancarsi da questa pesante eredità risalente al diritto romano e risolveva il lavoro subordinato quale «rapporto locativo di lavoro». Qualcosa – si potrebbe anche dire molto – cominciò a cambiare con il secolo pos-moderno, quando, sulla scorta delle ineludibili spinte sociali e delle conquiste della scienza giuridica tedesca, una coraggiosa dottrina italiana invertì decisamente la rotta recuperando due dimensioni totalmente discare alla chiusa visione dei moderni, quella sociale e quella collettiva; e si affaccia, per la prima volta in Italia, il profilo di un contratto collettivo di lavoro, profilo che ferisce a morte l’imperante individualismo giuridico[10].

Anche il secondo esempio, che propongo al lettore, è parimente eloquente. Civiltà esasperatamente proprietaria, la modernità giuridica ebbe una assoluta sordità verso le specifiche qualità della grande cosa/madre, la terra, che si presentava ancora quale fonte prevalente di ricchezza, mentre l’attenzione era tutta per l’individuo proprietario, fornito dall’ordinamento di una gamma amplissima di poteri. La cosa era passibile dello sfruttamento più massiccio, con una sola funzione, quella di procurare il massimo reddito al proprietario. Fu, però, soprattutto durante la prima guerra mondiale, che il bisogno di una maggiore produttività congiunto a una carenza di prodotti vitali per la sopravvivenza obbligò gli Stati a una legislazione eccezionale di guerra che, bandendo l’infecondo culto della astrattezza, si dette a valorizzare apertamente la concretezza di scelte agronomiche ed economiche. Emergeva il rispetto per le strutture della terra, per le sue regole interne, per la sua vita, per le sue diverse vocazioni a seconda della diversità dei terreni[11]. Accanto ai soggetti, un altro protagonismo si venne a giustapporre, quello delle cose, che, dagli anni Venti, una coraggiosa scienza civilistica comincia a studiare inaugurando una visione più complessa, non più unicamente antropo-centrica ma altresì rei-centrica[12]. Insomma, accanto al nascente “diritto del lavoro”, si profila il nascente “diritto agrario”[13].

La accanitamente difesa unità del diritto civile codicistico si incrina e prendono forma assetti disciplinari che ricavano la propria autonomia dal loro intridersi di carnalità, dal loro caratterizzarsi per una intrinseca fattualità.

6. Certezza e prevedibilità alle prese con la fattualità

Quello che al lettore impaziente è parsa una di-versione rispetto alla tematica che ci interessa – il richiamo, cioè, alle due emersioni novecentesche or ora delineate – mi sembra, al contrario, un appropriato avvio a percepire come la tanto esaltata prevedibilità del diritto – forse, addirittura, il carattere di cui la modernità giuridica era più orgogliosa – sia destinata ad attenuarsi parecchio con il riaffiorare durante il Novecento di valori diversi caratterizzanti un nuovo vólto del diritto.

La ritrovata fattualità, segno certo che si è deposto il vecchio dispregio illuministico verso i fatti, è il primo grosso contributo a dare dei tratti nuovi a quel vólto. Sì, perché i fatti sono riottosi a farsi ridurre e soffocare in geometrie; perché i fatti sono sempre gremiti di storicità, tutti, in modo particolare quelli sociali ed economici, ma non ne sono immuni neanche quelli naturali anche se entro la lentezza che sovraintende all’evolversi della rerum natura.

E storicità significa plasticità, disponibilità a farsi modellare dal costante divenire, senza aver la pretesa di interromperlo fissandolo in una sorta di modello a-temporale e quindi antistorico. Storicità significa, in fondo, umiltà di fronte alla complessità riscoperta, umiltà di fronte al mutamento e al nuovo che questo comporta; storicità significa consapevolezza che, se si vuole conseguire il risultato di un diritto autenticamente umano, non lo si può ridurre a una volontà potestativa imposta dall’alto, bensì ricondurlo alla umile ricerca delle molte risorse che il flusso storico porta con sé seppellendo, variando, confermando.

Se il diritto è, come io fermamente credo, frutto di invenzione[14], allora il canone della storicità del diritto, quale approccio indiscutibilmente congeniale alla dimensione giuridica, rappresenta la bussola orientativa per il legislatore e per la comunità dei giuristi/interpreti, nonché il salvataggio di un diritto che è sempre e soltanto esperienza, cioè dimensione della vita.

È ovvio, però, che, se fattualità significa storicità, significa anche presupporre che movimento e mutamento sono scansioni naturali, intrinseche al “giuridico”, con tutta una buona dose di imprevedibilità per ogni manifestazione di quello. Significa che si pongono come prevalenti altri valori rispetto a quelli – esaltati nella modernità – della certezza e della prevedibilità.

7. Il profondamente “nuovo” della Costituzione repubblicana

È opportuno, ora, riprendere un mero accenno fatto più sopra a un evento del 1913, che incide a fondo sul secolo nuovo e sui caratteri di un diritto pos-moderno: si ha, nel Regno d’Italia, un quasi perfetto suffragio universale maschile. Caduti gli arginamenti censitari voluti e difesi dallo Stato borghese, il clima è sostanzialmente democratico (a parte, ovviamente, l’esclusione dell’elettorato femminile, che durerà fino al 1946), perché si attua un effettivo pluralismo sociale. Purtroppo, il coinvolgimento italiano nella guerra mondiale, le turbolenze e le impotenze dominanti nel momento immediatamente pos-bellico, il ventennio (dal 1922 in poi) della dittatura fascista, rinviarono al secondo dopoguerra, sia la conquista di un suffragio universale per tutta la popolazione, sia la coerente traduzione del pluralismo dal piano socio-politico a quello giuridico.

Il che si attua con l’evento rivoluzionario della Costituzione entrata in vigore il 1 gennaio 1948. “Rivoluzionario” potrebbe sembrare aggettivazione eccessiva e, pertanto, enfatica, ma non lo è affatto se si considera che la nostra Carta non è un secondo momento nella storia del costituzionalismo italiano continuando la tradizione instaurata cento anni prima dal Re Carlo Alberto con il suo Statuto. Infatti, novissima è la realtà repubblicana, novissima è la Carta del 1948, e un profondo fossato segna di una insopprimibile discontinuità l’una e l’altra rispetto alla nostra storia prossima e remota.

Restando su un piano rigorosamente costituzionale, il quid novi, che provoca insanabilmente la rottura anche con la tradizione nostra prefascista e risorgimentale, è la svolta pluralistica che mette definitivamente in crisi statalismo e legalismo, baluardi dell’assetto politico borghese.

Sia chiaro: il messaggio dei Costituenti non è affatto anarcoide e si occupa diffusamente nella seconda parte della Costituzione di quell’apparato di poteri necessario alla sicurezza interna e internazionale del popolo italiano; lo Stato, però, non esaurisce né la dimensione socio-politica, né quella giuridica; risultato che è messo bene in evidenza dalla dialettica “Repubblica/Stato” che arricchisce tutto il tessuto della Costituzione (dove Repubblica rappresenta quella realtà ampia e complessa, che è proiezione di un popolo articolato in una pluralità di coagulazioni ordinamentali). Insomma, positività del diritto, oggi, in Italia non può coincidere con statualità.

Né è un messaggio anti-legalistico, giacché nella Carta si dà un rilievo grande alla legge e alla sua produzione, ma ci si guarda bene dal ridurre il diritto a un insieme di leggi, essendo – al contrario – sommamente chiaro il nesso diritto/società con una impostazione apertamente pluralistica: la Repubblica custodisce, per di più, nel suo seno una pluralità di ordinamenti giuridici, il primo dei quali, ovviamente immancabile e prevalente, è lo Stato.

Dove, purtroppo, Stato e legge mantengono la loro monocrazia è in quegli articoli delle “Preleggi” al Codice civile del 1942 laddove trattano della gerarchia delle fonti di diritto e della interpretazione della legge, ultima reliquia del regime autoritario allora imperante, e di dubbia costituzionalità, ma dei quali nessun legislatore ha tentato una modifica ufficiale e nessun giurista ha promosso la rimozione. Segno, quest’ultimo, del consueto vizio della pigrizia, ma – forse, peggio! – di un atteggiamento di fondo dei giuristi di civil law, che reca ben calato nel loro subconscio quel culto della legge ad ogni costo (malgrado le aberrazioni in essa contenute) di cui parlava Piero Calamandrei ancora nel 1942, ancora conquistato dalle sirene legalistiche del giacobinismo di fine Settecento[15].

Ma sia ribadito con forza: molto poco ha da spartire la nostra Costituzione con lo Statuto albertino, una Carta di diritti concessa graziosamente da un Sovrano assoluto, dove non si va al di là di un catalogo di libertà galleggiante sradicato ben al di sopra della quotidianità dei cittadini. La Costituzione italiana, frutto genuino del costituzionalismo democratico del Novecento, nasce in un momento di profonda rigenerazione per il popolo italiano finalmente artefice della sua vicenda storica, con una proiezione per l’innanzi, nei tempi lunghi e lunghissimi. Né è questo un gesto temerario, perché si origina dalla lettura attenta da parte dei Costituenti dei valori e interessi ben inscritti alle radici del nostro popolo e universalmente condivisi, pertanto atti a costituire un complesso di principii basilare per l’intiero edificio giuridico, certamente non eterni, ma altrettanto certamente destinati a durare, come è consolante verificare, per quanto attiene ai “principii fondamentali” e alla “prima parte”, in questo settantesimo anno di vita della Costituzione.

8. Della nuova posizione dello Stato entro il pluralismo giuridico della Repubblica

Dunque, pluralità di ordinamenti giuridici, con il pluralizzarsi delle fonti del diritto e, conseguentemente, del loro de-tipicizzarsi. Con questa significativa appendice: lo stesso legislatore statale, ora che gli è sfuggito di mano il vecchio monopolio, consapevole delle proprie incapacità, si arrende all’onda pluralistica attraverso il riconoscimento di molteplici realtà. Due esempi, uno recente e l’altro recentissimo, ne dànno eloquente testimonianza.

Il primo risale al 2010 ed è il cosiddetto Codice del processo amministrativo, che ho ritenuto di qualificare riduttivamente con l’aggettivo “cosiddetto” unicamente perché ha poco da spartire con le realizzazioni codicistiche della modernità e di cui, in Italia, l’ultimo campione è il Codice civile del 1942. Infatti, consiste soprattutto in una sorta di grande cornice, un disegno di principi, che, in quanto principi e non regole vincolanti nel loro dettagliato contenuto, vengono implicitamente a concedere ampio spazio all’interprete, in particolare al giudice chiamato a fornire contenuti specifici in relazione alla concretezza del caso.

Il secondo risale al novembre del 2017, ed è la legge 168, che affronta e risolve – una volta per tutte – il plurisecolare difficile problema della cospicua presenza nell’intiera penisola italiana di assetti fondiari collettivi. Dopo quasi due secoli di atti legislativi che ne hanno sancito la “liquidazione”, testimoni di una valutazione pienamente negativa per queste forme peculiarissime di appartenenza, la legge 168 – che vede attore protagonista in Senato un egregio uomo di scienza, l’amministrativista Giorgio Pagliari – per la prima volta li riconosce quali ordinamenti giuridici primari; in essa è da sottolineare l’intento preciso di proporsi come attuazione del dettato costituzionale bene espresso negli articoli 2, 9, 42, 43.

Gli esempi potrebbero davvero moltiplicarsi e mostrerebbero l’odierno recupero della complessità dell’ordine giuridico, mentre l’azione dello Stato si fa sostanzialmente abdicativa, riconoscendo che il diritto italiano, nel seno ampio della Repubblica, è realtà che non può ricomprendersi nella sola dimensione legislativa. Si deve aggiungere (e ribadire) l’accenno fatto più sopra, e cioè che il momento transitorio, che abbiamo vissuto e stiamo tuttora vivendo, pone in evidenza l’incapacità dello Stato a tener dietro al movimento/mutamento di straordinarie rapidità e intensità, accentuandosi la tendenza a spostare l’asse portante dell’ordinamento dal legislatore agli interpreti, calati nell’esperienza quotidiana e chiamati a una necessaria supplenza.

9. Il pos-moderno quale tempo di “crisi”: crisi di modelli (in particolare della “crisi della fattispecie”

E se si parla frequentemente di “crisi, non è un farfugliare a vuoto; ma si sbaglia – e di grosso, e proprio su un piano epistemologico – se si parla di crisi del diritto, ripetendo oggi la frusta e respingibile rappresentazione del monopolio della produzione giuridica nelle mani del legislatore.

La crisi c’è, ed è crisi, appunto, dello statalismo legalista; ed è la riscoperta della complessità giuridica a investire e travolgere il modello legale. E sono proprio i caratteri di questo modello a dimostrarsi inadatti a disciplinare giuridicamente il tempo pos-moderno tuttora contrassegnato dalla instabilità di una transizione. Astrattezza, generalità, rigidità, che fino a oggi hanno identificato il vólto virtuoso della legge, appaiono, proprio oggi, quali cagioni prime della sua condanna. Ogni legalismo si concreta sempre in una proposta di modelli, modelli rigidi, che garantiscono i beni della certezza e della prevedibilità, ma che sono intrinsecamente inidonei all’attuale instabile tempo.

Tutto ciò è espresso con veridica efficacia dalla “crisi della fattispecie”, di cui – quattro anni fa – ha scritto con grande probità intellettuale (sia pure con sincera mestizia) Natalino Irti, cui mi lega una fraterna amicizia che la profonda diversità di approccio al diritto non è mai riuscita a incrinare. Se è vero, come ci insegna Irti, che la fattispecie è «uno strumento di precisione che permette di “disporre” per il futuro e di convertire innumerevoli fatti in caso di applicazione normativa»[16]; se è vero, dunque, che la fattispecie è un modello che vìncola, irrigidisce, stabilizza in quanto «strumento di precision»”, nulla di più inadatto per l’odierno – tormentato, complesso, mutevole – itinerario dei nostri giorni. E do ragione a un acuto e cólto civilista, Umberto Breccia (con cui la sintonia è totale), quando si lascia volentieri alle spalle quella che lui chiama «la logica monistica della fattispecie»[17].

È proficuo ritornare ancora al testo di Irti, che è prezioso laddove, con penetrante diagnosi, con sostanziale adesione a quello che da tempo vo sostenendo[18], coglie nella nostra Costituzione del 1948 (nel suo essere – dico io – espressione di un tempo pos-moderno) il fattore determinante della “crisi. Infatti, quelle che egli chiama «norme costituzionali» «enunciano principi» e «appartengono bensì al diritto positivo, il quale tuttavia mostra, proprio nella sua cima più alta, di indebolire o abbandonare il concetto di fattispecie»[19]. Sì, perché «non c’è più bisogno di fattispecie normativa o di stampelle sussuntive e sillogistiche: l’argomentazione giuridica batte ormai altre strade»[20]. La Costituzione è un breviario di principi generato dalla identificazione di valori, e «il valore (ad esempio, di solidarietà o della salute e del paesaggio, o di dignità sociale, e via seguitando) non ha bisogno di fattispecie», poiché «la fattispecie serve a ricondurre il fatto entro il modello tipico»[21].

Parole, queste, assai veritiere, che collegano il concetto di fattispecie, «proprio di società stabili»[22], a un mondo che può essere disciplinato da modelli, da tipi predeterminati, dove la tipicità è l’assetto sicuro delle diverse manifestazioni giuridiche, sicuro perché espressione di una stabilità retrostante e, quindi, in grado di dare sicurezza. Connessa a questa sicurezza è anche la certezza e la prevedibilità.

Ovviamente, all’amico Irti è penoso «spogliarsi di un vecchio utensile, che ci era caro per educazione mentale e tradizione di studi» (come segna nelle ultime parole del saggio), avvertendo, però, che si tratta di una «necessità storica»[23]. Chi, come me, ha coltivato e insegnato per decenni la storia del diritto, ed è avvezzo all’usura del tempo e alla storicità delle invenzioni giuridiche, non ne è turbato. Prende atto di un itinerario che si sta distanziando dalle certezze moderne, ordinando la società e i suoi bisogni con approcci e soluzioni profondamente nuovi. Il costo da pagare sono una diffusa incertezza e scarsa, difficile prevedibilità. Però, è anche la strada che permette al diritto di avvicinarsi alla giustizia.

Se sono in crisi i modelli, è necessariamente in crisi il primo artefice di modelli, e cioè il legislatore. «A fronte di questo logorarsi della dimensione legislativa, il salvataggio si incarna nella interpretazione, ed è naturale che l’esperienza affidi ad essa un adeguamento efficace dell’ordine giuridico», come ho scritto di recente puntualizzando l’odierno rilievo della funzione notarile[24]. Al di là della politica giudici, notai, avvocati e scienziati attenti alla dinamica socio-economica, precisamente perché in approccio continuo coi fatti di vita e di essi percettori, assumono anche da noi quel ruolo protagonistico che hanno sempre avuto in assetti giuridici pluralistici.

[1] È il tema di una famosa conferenza pronunciata da Filippo Vassalli nel 1951 (cfr. F. Vassalli,  Estrastatualità del diritto civile, ora in Studi giuridici, Giuffrè, Milano, 1960, vol. III, t.II.

[2] Si pensi, per esempio, alla vicenda davvero esemplare del Code Civil napoleonico, che solo di recente ha avuto un sostanzioso (peraltro, non felice) rinnovamento.

[3] Un assolutismo giuridico funzionale a conservare e tutelare un assoluto liberismo economico.

[4] Maggiori precisazione ho offerto in: P. Grossi, Novecento giuridico: un secolo pos-moderno (2010), ora in Introduzione al Novecento giuridico, Laterza, Roma/Bari, 2012.

[5] Per maggiori precisazioni cfr. P. Grossi, Sulla odierna fattualità del diritto (2013), ora in Ritorno al diritto, Laterza, Roma/Bari, 2015.

[6] Le occasioni furono molteplici, ma si veda soprattutto: Santi Romano, Le prime carte costituzionali (1907), ora in Lo Stato moderno e la sua crisi. Saggi di diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 1969.

[7] È il famoso discorso per l’inaugurazione dell’anno accademico nella Università di Pisa. Per un più approfondito esame del problematico testo romaniano mi permetto di rinviare a quanto dissi in occasione della celebrazione pisana del centenario: P. Grossi, «Lo Stato moderno e la sua crisi» (a cento anni dalla prolusione pisana di Santi Romano) (2010), ora in Introduzione al Novecento giuridico, cit..

[8] Sinceramente, non riesco a capire come tutto ciò sia identificato da qualche civilista ne L’eclissi del diritto civile (così si intitola un recente volume di Carlo Castronovo, Giuffrè, Milano, 2015).

[9] È il giovane Francesco Carnelutti, che, nella felicissima raccolta di sue indagini sul tema – tutto nuovo per le teorizzazioni del civilista – degli infortuni sul lavoro, parla coraggiosamente di quel carattere “imperturbabilmente borghese” che rende la scienza giuridica italiana tanto sorda ai problemi del lavoro e della nuova organizzazione industriale (cfr. F. Carnelutti, Infortuni sul lavoro (Studi), vol. I, Athenaeum, Roma, 1913, Introduzione, p. XII).

[10] Ne ho discorso ampiamente in: P. Grossi, Scienza giuridica italiana-Un profilo storico, 1860/1950, Giuffrè, Milano, 2000, pp. 97 ss..

[11] Anche per questo tema storicamente di grande rilievo mi si permetta di rinviare a: P. Grossi, Scienza giuridica italiana, cit., pp. 130 ss..

[12] Pioniere assoluto e coraggioso di questa osservazione più complessa della dimensione proprietaria è, in Italia, Enrico Finzi, la cui voce solitaria negli anni Venti e Trenta del XX secolo apparve sostanzialmente ereticale (cfr. P. Grossi, Enrico Finzi: un innovatore solitario, in E. Finzi, «L’officina delle cose» - Scritti minori, Giuffrè, Milano, 2013, p. XXXII.

[13] È nel 1922 che, per merito di Giangastone Bolla, nasce in Firenze la Rivista di diritto agrario.

[14] “Invenire”, “invenzione” secondo l’etimo latino, nel significato di cercare e trovare. Io volli pubblicamente sottolineare questa caratterizzazione del diritto pos-moderno, e di quello straordinario modello operativo che è la Corte costituzionale, nella Relazione introduttiva al Convegno per il sessantennio della stessa Corte tenuta nel palazzo del Quirinale il 19 maggio del 2016 (oggi è leggibile, oltre che negli Atti congressuali, in P. Grossi, L’invenzione dell’ordine costituzionale: a proposito del ruolo della Corte, ora in L’invenzione del diritto, Laterza, Roma/Bari, 2017.

[15] Il riferimento è alla nota recensione di Calamandrei al libro del filosofo Lopez de Oñate su La certezza del diritto. Nel secondo dopoguerra e soprattutto grazie al diretto coinvolgimento del grande processualista nella officina fervida della Assemblea costituente c’è un significativo ripensamento del vecchio legalismo post-illuminista. Ho tentato di sottolineare questa conversione pluralista in: P. Grossi, Lungo l’itinerario di Piero Calamandrei (2008), ora in Nobiltà del diritto-profili di giuristi, II, Giuffrè, Milano, 2014.

[16] N. Irti, La crisi della fattispecie, in Rivista di diritto processuale, 2014, p. 41.

[17] U. Breccia, Il pensiero di Salvatore Romano, in Salvatore Romano, a cura di G. Furgiuele, ESI., Napoli, 2015, p. 5.

[18] P. Grossi, La Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno, 2013, ora in L’invenzione del diritto, cit..

[19] N. Irti, loc. ult. cit..

[20] N. Irti, La crisi della fattispecie, cit., p. 42.

[21] N. Irti, La crisi della fattispecie, cit., pp. 42 e 43.

[22] N. Irti, La crisi della fattispecie, cit., p. 44.

[23] N. Irti, loc. ult. cit.

[24] Sull’esperienza giuridica pos-moderna (a proposito dell’odierno ruolo del notaio), in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 47, 2018, p. 337.