Magistratura democratica

Cittadinanza attiva/populismo: fare politica con la Costituzione

di Giuseppe Cotturri
Nel 2001 su proposta di forze della cittadinanza attiva è entrato nella Costituzione italiana il riconoscimento dell’autonoma capacità dei cittadini di svolgere attività di interesse generale sulla base del principio di sussidiarietà (articolo 118, comma 4, della Costituzione). Si tratta di un cambiamento del rapporto istituzioni-cittadini, per sbarrare la strada alle tendenze disgreganti del populismo. Il popolo dei populismi è incapace di formare politicamente una “volontà generale”. La sfida dei cittadini attivi per il civismo è contribuire invece all’affermazione della sovranità dei valori attraverso cui una diversa costruzione sovranazionale europea può essere realizzata.

1. Il mondo dei populismi

Il programma di società basate su meccanismi progressivi di welfare attraverso diritti costituzionalizzati, tipicamente europeo, è entrato in urto con le tendenze del neoliberismo e col “pensiero unico” dagli anni Novanta dello scorso secolo, con la globalizzazione. Trump in America è solo l’espressione più clamorosa (e pericolosa) del tipo di politica che, in queste condizioni, si diffonde nei Paesi capitalistico-democratici, con la conquista di larghe basi popolari ovunque la crisi accresce disagio sociale, allarga l’area delle povertà, investe tutti i ceti medi. Nel vecchio continente forze antieuropee avanzano, le classi dirigenti inglesi hanno provato a cavalcare quest’onda con la Brexit, ma ora ne sono travolte. La crisi economica si rovescia in crisi politica e crisi delle democrazie.

Paure per il futuro spingono le persone comuni, ovunque, a ritrarsi dalle prospettive sbandierate dalla globalizzazione. Forze politiche espressive di un nuovo “populismo” cavalcano i timori diffusi e il rancore per “inutili sistemi” di partiti e di Parlamenti che non governano e non difendono. Si comincia infatti a parlare anche di “abolire i Parlamenti”, e in ogni caso si sperimentano improvvisate forme di partito-movimento, che governano non governando per la coesione sociale, e distorcenti manifestazioni di “democrazia diretta”, che non portano allargamento del potere democratico, ma restrizioni tribali.

Enrico Scoditti, riflettendo sul rapporto di tutto ciò col diritto, ha scritto: «C’è un lato oscuro del tema dei diritti da cui i giuristi devono guardarsi: la riduzione del rapporto fra cittadino e autorità a tutela dei diritti e l’integrale giuridificazione dei rapporti di potere è l’altra faccia della società spoliticizzata e ridotta ad una massa di individui titolari di pretese cui rinvia il discorso populista». E ancora: «l’incorporazione del popolo nel diritto […] ha rappresentato uno dei tratti costitutivi di una specifica esperienza storica, il costituzionalismo del Novecento europeo, che vede fra gli esempi più significativi la Costituzione italiana del 1948 e la Legge fondamentale tedesca del 1949»; ma oggi dobbiamo avere «la consapevolezza dell’eccezionalità di un quadro istituzionale che vede il diritto come la polarità di un conflitto e che nella sua normalità dovrebbe invece essere governato da logiche di equilibrio e di moderazione affidate alla politica. Le possibilità di discernimento sono rese complicate dal fatto che il costituzionalismo nazionale, nel quadro peraltro oggi dei vincoli sovranazionali ed internazionali, non è meramente liberale, ma ha incorporato la questione sociale».

2. La formazione politica del popolo

Dobbiamo riflettere sui processi che alimentano spinte disgregative. Un popolo può rialzare la sua testa se si sente unito e a ciascuno dei suoi individui sono riconosciute libertà dal bisogno e dignità della persona. Un popolo sovrano è quello che sa di aver diritti, ma anche poteri e responsabilità per la loro realizzazione. Se non c’è questo, nessuna sovranità popolare potrà emergere. L’attacco e lo smantellamento del sistema di garanzie per il lavoro e la dignità dei lavoratori e delle loro famiglie hanno spezzato il cammino di formazione di un popolo capace di autonomia e dignità politica nell’affermazione di un indirizzo di Governo responsabile verso la comunità. Un mondo di precari e senza lavoro, di donne e uomini che a cinquant’anni ancora non possono emanciparsi dalle case paterne e non possono mettere su una propria famiglia, è folla di figure dipendenti da altri per la pura sussistenza. Mortificate, ricattabili e sottomesse.

Questo viene non solo dall’economia, ma dalla politica che a lungo ha tenuto in condizioni di “minorità” i cittadini. Contro il dispiegarsi di piena sovranità popolare in Italia c’è una lunga storia di partiti, che mai l’hanno promossa e sempre l’hanno “sequestrata”, mantenendo nelle proprie mani tutto il potere possibile: che poi questo oggi sia poca cosa è nemesi della storia, che non si ribalta automaticamente in rilancio di sovranità popolare. Nemesi della storia è il fatto che in nome di un popolo che non c’è – perché politicamente non s’è formato, anzi politicamente è ora ancor più diviso e indebolito – forze antidemocratiche possano autoproclamarsi «governo del cambiamento» correndo ciecamente nella medesima direzione di sottomissione al dominio economico-finanziario mondiale sulle società democratiche.

Perché questo è il punto, se si vuol cominciare a contrastare efficacemente le “varianti” di populismo che, non a caso, in Italia corrono insieme. È perfettamente conveniente agli interessi finanziari dominanti che le democrazie siano destrutturate e depotenziate, che i diritti di ciascuno e delle collettività siano vanificati e svaporati. Perché miliardi di individui senza relazioni e poteri collettivi, miliardi di individui “convinti” che questa sia la maggior libertà possibile per essi, e dediti al consumismo individualistico di massa senza alcuna percezione delle enormi responsabilità collettive che abbiamo per la alterazione degli equilibri naturali (risorse esauribili, clima): individui così non sono un popolo, e neppure un insieme di popoli che muovono alla ricerca di un diverso “Governo del mondo”. Le potenze economico-finanziarie vogliono una economia-mondo, ma non vogliono un Governo-mondo.

I populismi contemporanei di varia tendenza sono, più inconsapevolmente che consapevolmente, vettori di questa riduzione del mondo a moltitudine destinata al mercato capitalistico, senza soggettività delle persone, senza capacità di formare nuovi “beni comuni”, senza cura e rispetto delle variazioni culturali e della irriducibilità di ogni singolo individuo alla figura a “una dimensione” del consumatore compulsivo eterodiretto.

Non è possibile però far conto sulla cultura della rappresentanza politico-sociale dei vecchi partiti “di massa”, che a loro modo son stati veicolo di appiattimento e massificazione delle società. La crisi dei sistemi rappresentativi è strutturale, perché la questione della qualità della vita e del valore di ciascuna persona non è entrata nel loro orizzonte quando, in modo prorompente, fu posta da ondate di “contestazione” delle nuove generazioni in tutto il mondo. È proprio lo sviluppo delle società democratiche che ha reso evidente questo limite, a partire dal ‘68. Risposte reazionarie o soltanto conservatrici delle classi dirigenti ovunque hanno impedito che spinte partecipative si componessero in un nuovo sistema. Ma anche i riformismi, che in certi Paesi sono stati tentati per “assorbire” almeno una parte delle spinte di cambiamento, hanno avuto piuttosto intenti divisivi, con pratiche di manipolazione delle domande di cambiamento senza mai mettere veramente in discussione assetti di potere e forme politiche. La “autonomia sociale” nella costruzione di forme nuove è stata bandita, segnando l’impazzimento delle schegge più radicali di essa, fino al terrorismo autodistruttivo. Non si è neppure tentato di coltivare le “capacità istituenti” che le società hanno[1], integrando positivamente la sfera pubblica statualizzata. Le riforme istituzionali di cui si è cominciato ovunque a discutere hanno mirato alla concentrazione di potere, non all’allargamento della partecipazione democratica. La linea di frattura tra crescita di popoli e sistemi politico-parlamentari cristallizzati risale a un “movimento di faglia” nel profondo della comunità umana, il quel fine di anni sessanta.

Il popolo dei populisti non nasce dalla mediazione politica di così gravi lacerazioni sociali, ma realizza una accozzaglia di manifestazioni senza mediazioni e senza temperamenti di civiltà: è a suo modo barbaro, immediato e reattivo, alimenta aggressività verso qualunque supposto nemico, il risentimento anti-partiti è solo un aspetto di un più generale atteggiamento anti-comunitario e anti-sociale – che nasce da una crescente paura del mondo così com’è – e immagina quindi di poter costruire barriere sempre più forti contro chiunque sia sentito come “altro da sé”: il diverso è da escludere dai nostri recinti. Le comunità devono essere “chiuse”, possono abitarle solo i nativi. Che devono essere sempre di meno. Se si leggono le fantasie visionarie di Gianroberto Casaleggio, l’umanità sarà ridotta a un miliardo, e la “liberazione” del potenziale democratico verrà dalla capacità degli individui di comunicare tra loro in Rete. Al confronto di questo catastrofismo salvifico, Salvini è un moderato: si accontenta di dire che intanto i migranti devono essere rimandati indietro, o fermati in mare, si chiudano i porti, poi si vedrà … .

Occorre indagare la possibilità che in qualche altra forma si possa combattere la battaglia della democrazia. Affiancando e forse riportando le istituzioni di Governo a una utilità collettiva, per la presenza di manifestazioni popolari ben temperate. Espressioni piene di sovranità dal basso, con partecipazione di tutti i cittadini, in forme articolate e diversificate, ma coordinate tra loro in un nuovo sistema di pesi e contrappesi. Certo che la rete può servire per questo, ma deve cominciare a essere alfabetizzata alla democrazia. La lotta per la Costituzione comincia da qui. E un sistema più articolato e equilibrato contiene una politica: la diversificazione degli attori non passa necessariamente da un processo di spoliticizzazione sociale, ma può avvenire con la formazione politica di un popolo secondo un diverso modello organizzativo.

3. La responsabilità delle culture del diritto

Credo che questo sia sostanzialmente il problema posto da Scoditti. E il suo interrogativo, circa i rischi di una combinazione “cieca” tra pretese giuridico-sociali e spoliticizzazione politica, si rivolge opportunamente non ai cittadini e neppure ai giudici, ma ai giuristi. Ai cittadini infatti non si può chiedere di “moderare” le proprie pretese giuridiche, se il clima politico è quello denunciato, e se le leggi – come ad es. quella cosiddetta per la sicurezza – sono palesemente di dubbia costituzionalità. Per soggetti esposti all’arbitrio politico di maggioranze sempre meno rispettose dei diritti, infatti, non c’è altra via che attestarsi nelle trincee predisposte dalle Costituzioni. La domanda non riguarda neppure propriamente i giudici, poiché essi sono tenuti all’applicazione delle leggi e al controllo di costituzionalità.

I giuristi dunque: cioè coloro che concorrono a formare il pensiero e la cultura del diritto, e che proprio con ciò concorrono alla civilizzazione. In questo la cultura del diritto è già una cultura politica. E la politica del costituzionalismo è particolarmente progressiva. Ma i giuristi – in assenza di indirizzi di governo politico che sappiano affermarsi come espressione di “volontà generale” – non possono certo assumere direttamente su di sé il problema della mediazione tra diritti sociali e unità politica sostanziale, nel perseguimento di un fine comune. Per i giuristi si apre però, come scrive Scoditti, un tempo nuovo, in cui dovrebbero «essere guidati, per dirla con Max Weber, non solo dall’etica della convinzione, ma anche da quella della responsabilità. […] Gli uomini del diritto ⦋devono affrontare con⦌ nuove responsabilità i propri compiti»[2].

Al cuore del pensiero giuridico e costituzionale deve cioè giungere la consapevolezza critica che ormai orienta la riflessione sulle culture politiche, in particolare su quella storica delle sinistre italiane. Franco Cassano[3] è intervenuto su questo, criticando l’egualitarismo astratto di molta parte del rivendicazionismo delle sinistre politiche. I diritti non sono tutti uguali, e anche le disuguaglianze non sono tutte sullo stesso piano. Diritti confliggono tra loro, ad es. diritto alla salute e diritto al lavoro, protezione dell’ambiente e protezione dell’occupazione. E anche condizioni di disuguaglianza sociale registrano spaccature interne, cosicché ai deboli si contrappongono altri più deboli ancora: la lotta per la protezione del lavoro subordinato tutela la condizione degli occupati, ma la disoccupazione dilaga tra le nuove generazioni. Gli anziani che difendono le conquiste previdenziali a seguito di una vita di lavoro, sanno bene che di fatto ora grava su loro soli – finché hanno vita –  il peso di figli e nipoti con lavoro precario e senza futuro pensionistico.

Le lacerazioni sono devastanti: la sinistra che difende il suo insediamento sociale storico tra i lavoratori (e i pensionati) perde contatto con le urgenze drammatiche della vita collettiva. Trascurare le ragioni dell’impresa, o l’importanza di valorizzare i meriti, non allarga il “bene comune” ma lo riduce: ormai i conflitti sociali mostrano in campo nuovi “ceti popolari”, che le sinistre non hanno nel loro orizzonte. L’egualitarismo astratto non giova alla costruzione di società e non ha contribuito alla formazione di un popolo politicamente maturo.

Dare concretezza al pensiero politico, sociale e giuridico è una responsabilità civile che incombe su tutte le forze intellettuali. Per quel che riguarda specificamente il pensiero del diritto, io credo che si debba cominciare a gettare uno sguardo più attento sulle forme diffuse di assunzione di responsabilità politica per interessi generali, anche fuori dal sistema in crisi della rappresentanza, e valutare come questo possa concorrere al ripristino di un disegno di civilizzazione via costituzionalismo. Infatti una risposta all’altezza di questi interrogativi deve essere anzitutto capace di proporre una visione culturale e politica nuova del costituzionalismo. La concretezza in tale ambito consiste nel rispondere a domande come queste: quale politica del diritto può accompagnare una ripresa della politica democratica e quindi dell’opera di civilizzazione? Quale politica del diritto insomma può evitare che l’empowerment dei cittadini si risolva in boomerang per le società?

4. La sfida della cittadinanza attiva: un altro modo di pensare politica

Dopo l’artificio moderno della rappresentanza politica, quella del costituzionalismo del Novecento è la più straordinaria invenzione politico-giuridica: un potente meccanismo “autopoietico” di civilizzazione, una super-legge contenente un “programma sociale” progressivo e vincolante, diretta a limitare gli arbitri legislativi e affidata a “custodi” dotati di autonomia e indipendenza dal potere politico. E non solo di una Corte suprema come negli Usa: con l’allargamento a tutta la magistratura del compito di vagliare la questione di costituzionalità, l’appello alla Costituzione è alla portata di qualunque cittadino che accede alla giustizia ordinaria. Questo è un primo significato di cittadini attivi rispetto alla realizzazione della Costituzione. Ma dal 2001 in Italia c’è un secondo innovativo significato: si è riconosciuto che, con autonoma iniziativa, cittadini anche singoli possano realizzare “interessi generali” (articolo 118.4 Cost.it.). Enormi sono gli sforzi per dare corpo a questa possibilità, ma è sicuro che questo implichi l’allargamento dei significati di “politica costituzionale”. Non solo della giurisdizione si tratta, e dunque protagonisti non ne sono soltanto i giudici, e neppure i cittadini soltanto attraverso il ricorso ai giudici.

La “autonomia” di azioni civiche riconosce a individui e minoranze attive un potere di “trascinamento” dell’indirizzo politico, purché si muovano per interessi generali con riferimento preciso a beni costituzionali. Non è tutto il popolo sovrano in astratto (e per deleghe) che può agire questo potere, e neppure una rappresentanza maggioritaria di esso. In questa disposizione dell’articolo 118 in realtà ha trovato per la prima volta traduzione concreta il diritto di tutti i cittadini di concorrere alla direzione politica nazionale (articolo 49 della Costituzione).  Che si tratti esattamente di questo – influire sulla direzione politica del Paese – è dimostrato dal dispositivo contenuto nell’articolo 118: Stato, Regioni e ogni altra istituzione di Governo nel territorio devono favorire le attività autonome di questo tipo. Questo significa che non possono mettersi contro di esse, che devono accoglierle e accompagnarle, devono sostenerle e devono prolungarne la politica, perché lì appunto si sono manifestate istanze di interesse generale. Io credo che si possa dire che, coll’articolo 118 della revisione costituzionale del 2001, è entrata in Costituzione la “sovranità pratica” del cittadino. Di qualunque cittadino: tutti infatti hanno diritto di esercitare tale autonomia.

Il civismo così è assurto a ruolo di forza di indirizzo del Governo. E non è una forza di poco conto, se guardiamo allo sviluppo reale di forme del civismo nella crisi, in tutti i Paesi, e in Italia appunto con una prima conquista di riconoscimento costituzionale. Nel Censimento Istat del 2011 il 34% di oltre 300mila organizzazioni di “terzo settore” perseguono interessi generali secondo Costituzione: tutelare diritti, sostenere soggetti deboli, curare beni comuni. In pratica sono milioni di persone. Con azioni concrete, orientate a obiettivi costituzionali, esse contribuiscono a definire veri indirizzi popolari per politiche di Governo. E c’è di più: intervenendo nel dibattito sulla riforma istituzionale – di cui le forze politiche discutono inutilmente da quarant’anni! – alcune espressioni della cittadinanza attiva italiana sospingono la Costituzione a sviluppi impensati. È quanto ho cercato di mostrare in un recente libro, sul tema del ruolo che la cittadinanza attiva sta assumendo per riforme costituzionali. E per questo mi si è richiesto il presente intervento su Questione Giustizia. Nella sua postfazione al libro, infatti, Scoditti[4] dopo aver ribadito che i diritti sociali e di partecipazione soffrono di una strutturale ambivalenza nel mondo di oggi, ammonisce che un crinale molto stretto e pericoloso divide populismo e cittadinanza attiva: «alla consapevolezza circa le virtù democratiche del civismo deve quindi accompagnarsi lo sguardo vigile e costante sull’incombente lato oscuro della luna».

5. Sul modo di pensare

Per restare alla metafora del crinale, si possono evitare errori di percorso e passi falsi se il tracciato è stato definito con cura e attenzione ai pericoli insiti in ogni punto di restringimento della pista. Fuor di metafora, si deve considerare che un’idea semplicistica delle cose non aiuta. Immaginare che basti una “resistenza costituzionale” in un solo Paese, per influenzare i processi di costruzione sovranazionale dell’Europa e la integrazione nel sistema di relazioni internazionali, non porta lontano. Alla sua base ci sarebbe una visione semplificata e lineare di processi che invece sono molto complessi e si sviluppano con “moto circolare”, piuttosto che nella logica di movimenti alto-basso e viceversa.

La concezione tradizionale del rapporto politica-diritto immagina due movimenti paralleli, uno ascendente (quello della politica democratica che dà legittimazione dal basso e consente accentramento e verticalizzazione del potere) e uno discendente (quello della regolazione giuridica dei comportamenti individuali e collettivi, a seguito dell’esercizio di autorità riconosciuta a quei poteri). Questa costruzione concettuale realizza al vertice una “commutazione” della politica in diritto attraverso istituzioni legislative, ma in basso non riesce a chiudere il cerchio, perché disconosce ruolo costituente alla autonomia sociale e quindi nega che possa aversi una politica costituzionale dei cittadini. Il processo generativo di “altra politica” quindi non trova spiegazioni: o essa resta cristallizzata e immobile nelle forme costituite, quindi è diretta dall’alto, o appare solo drammatica rivolta senza “abilitazione politica” a riforma del sistema dei poteri. Il movimento dal basso della democrazia allora è in gran parte ridotto a retorica (non può ”agire” cambiamenti sostanziali), e  il costituzionalismo diventa formalismo giuridico che non opera per il cambiamento, vi fa anzi resistenza.

Un’idea circolare è invece contenuta nel potere sussidiario riconosciuto alla cittadinanza attiva nella Costituzione italiana, idea che valorizza la creatività e la comune responsabilità di tutti i soggetti posti nella “catena di legittimazione” all’agire, quelli posti nella base sociale e quelli posti nelle gerarchie del potere. Per questo Cittadinanza attiva si apparenta con un’idea di processo costituente: c’è interattività e scambio permanente tra tutti i soggetti della relazione società-istituzioni. È la circolazione culturale il motore del movimento, non la corrente alternata deleghe/regole. (Questo aiuta a capire perché oggi la comunicazione in rete prenda, per fare politica, il sopravvento sulla comunicazione alto-basso del sistema rappresentativo e dei media tradizionali).

Nella costruzione europea a un certo punto si è fatto ricorso all’idea di sussidiarietà, ma era sempre rapporto verticale, dall’alto al basso dell’Unione verso gli Stati membri. Non ha funzionato, perché gli Stati hanno difeso la propria autonomia (rinvio a un mio saggio del 2001). Più in generale tutta la costruzione europea soffre di questa visione “lineare” dei problemi: l’idea di sovranità su cui si vuol modellare una nuova governance, e l’idea stessa di cittadinanza europea pensata come spinta diretta e lineare dal basso per dare volto (embrionale) a un unico popolo europeo. E per quel che riguarda la globalizzazione, intesa come costruzione multilivello ricondotta a un unico potere “imperiale” non ha funzionato. Ritornano con effetto dirompente rivendicazioni “sovraniste” di tipo medioevale. Diceva infatti un antico broccardo (della scuola dei glossatori di Bologna): quisque in regno suo imperator est. Significa che poteri delimitati territorialmente non escludono che ci possa essere dipendenza da poteri più ampi e superiori, ma rifiutano interferenze nell’esercizio del dominio domestico. E invece oggi è proprio questa logica che non è più praticabile: la comunicazione globale crea circolazione continua di “interferenze” di poteri posti fuori dal nostro controllo nazionale (economia, immaginario, scienza e tecnologia, saperi e culture del mondo).

Se lo schema dell’autorità e della gerarchizzazione per linee verticali non funziona, né per la costruzione sovranazionale né per il Governo della globalizzazione, dobbiamo trarne conseguenze per quel che può una politica del diritto e dei diritti. Partire dal significato della Cittadinanza attiva non vuol dire che in Italia ci sia già un “movimento della Costituzione” e neppure una soggettività consapevole di questo ruolo politico-costituzionale del civismo. Ma si tratta di capire che siamo oltre l’orizzonte indicato qualche anno fa da Jürgen Habermas, quando parlava dell’importanza del “patriottismo costituzionale” come base identitaria dell’Europa. Il potere sussidiario dei cittadini italiani va aldilà del semplice richiamo a valori fondativi di una comune identità, poiché introduce nel costituzionalismo una innovazione che ancora non è comune ad altre esperienze costituzionali europee.

6. Il problema della sovranità popolare

Se la Cittadinanza attiva è una manifestazione della sovranità pratica del cittadino il tema politico della sovranità muta profondamente. Le difficoltà della costruzione sovranazionale europea risalgono proprio all’incapacità di andare oltre certe linee tradizionali del pensiero della sovranità. Che si debba trovare un modo di concepire una sovranità condivisa è la sola soluzione[5]. Ma ogni sforzo di costituzionalizzare l’Unione s’è arenato sulla difficoltà di fare l’unità del molteplice (identità nazionali, lingue, culture e tradizioni politiche). L’ossimoro unità-molteplice non può essere sciolto. La riduzione a unico Stato, o a federazione di Stati, si è rivelata impervia. Alla prova di pronunciamenti su base nazionale, l’idea di unificazione sovranazionale finora è stata bloccata (bocciatura del Trattato che istituiva una Costituzione europea, Brexit). Tutte le popolazioni però, dopo due guerre mondiali scatenate in Europa, sanno che il fatto dell’Unione reca in sé uno straordinario valore di pacificazione: come ha detto Paul Magnette[6], si è trattato di addomesticamento delle pulsioni aggressive e violente delle politiche nazionalistiche. La resistenza a ulteriori passi di costruzione unitaria sovranazionale indica probabilmente un problema politico rilevante. C’è qualcosa di più profondo che le attuali classi politiche nazionali sembrano non comprendere, e riguarda invece proprio il loro ruolo nella faccenda. Negli ultimi trent’anni le guerre cui hanno partecipato, a cominciare da quella in Iraq, e lo smantellamento dei sistemi di welfare le rendono inaffidabili.

È dal lato della sovranità popolare che può essere concepito un significato concreto dell’unità nel molteplice. A cominciare dal superamento dell’idea, ancora una volta ideologicamente politica, di costruire un unico démos europeo. Si deve usare il plurale: sovranità dei popoli, non di un popolo unificato. È qui il passaggio stretto per dare forma a una “sovranità condivisa”. Per ripartirla occorre cominciare a dare effettività a sovranità popolari distinte. Tra le quali si stabilisce il patto fondamentale di salvezza comune da guerre e di tutela di diritti sociali. Soltanto un patto tra questo tipo di soggettività politico-culturale, quella dei popoli sovrani, può volgersi sicuramente a obiettivi di pace e sviluppo comune. I popoli, non i Governi, chiamati a una espressione generale di volontà assicurano le ragioni della vita. Echeggia qui l’idea di Rousseau che nella “volontà generale” dei popoli si esprima “l’istinto di sopravvivenza dell’umanità”[7].

Una nuova teoria della sovranità, abbandonando la visione classica di una pluralità di soggetti unificati nel potere, può accedere alla idea di sovranità dei valori. Ha scritto Gaetano Silvestri[8]: la sovranità non è più «roccaforte dell’autorità ma presidio della intangibilità dei valori fondamentali». La effettività dei valori «diventa punto archimedico dell’ordinamento, la sovranità ideale di una teoria dello Stato interamente sciolta dal principio soggettivo di autorità». Uno Stato sciolto dal principio di autorità è concepibile solo come Stato di pace tra popoli che si riconoscono e si rispettano.

È per questo che politiche di Cittadinanza che portino alla effettività del principio di sovranità popolare in ciascun Paese non sono espressione di ingenua speranza, ma di realismo politico. Si tratta dei tasselli fondamentali della più ampia costruzione di popoli capaci di vincolare l’indirizzo politico dei propri Governi.

Del resto, nonostante le contradizioni, i ritardi e gli errori dei governanti europei, almeno per ragioni retoriche essi hanno continuato a parlare di Costituzione europea. Oltre i tentativi non riusciti ce n’è uno che ha messo in moto processi giuridici di costituzionalizzazione del diritto europeo, che sfuggono alle mani dei politici e trovano nei giudici convinti agenti. La Carta dei diritti fondamentali dei cittadini europei scritta a Nizza nel 2000, benché non sia conclusa la formazione costituzionale dell’Europa, è riferimento vigente per il controllo di costituzionalità di leggi nazionali e anche del diritto europeo. Una parte importante della costruzione europea quindi è stata messa in moto dall’embrione di una Costituzione. Questo accresce l’interesse a definire una politica costituzionale dei cittadini.

7. Cittadini in Europa e costruzione del “popolo” tra Stato e Unione

È possibile concepire una pratica civica in ciascun Paese che possa assumere ruolo di politica costituzionale nazionale influente sulla costruzione sovranazionale? Se teniamo fermo il punto che riguarda la necessità di un pensiero sulla sovranità dei popoli – non sulla riduzione a una sovranità superiore, né sulla riduzione alla retorica di un solo popolo europeo – questa è infatti la questione da porre. Come ciascun popolo può percorrere quella strada? E come risolve ciascun popolo il conflitto tra diritti sociali e limiti della Costituzione europea[9]?

Faccio notare che diversa è la domanda relativa ai modi in cui una cittadinanza europea, finalmente formalmente riconosciuta, riesca ad animarsi fino a contribuire essa alla costruzione europea. Seguendo questa diversa prospettiva si è guardato con attenzione ad alcune pratiche di cittadinanza europea intese proprio sotto il profilo del loro concorrere alla costruzione. Rinvio a un eccellente saggio di Giovanni Moro[10] che, dopo aver discusso i modi di pensare relativi al ruolo dei cittadini rispetto all’esperimento democratico europeo, ha analizzato le politiche con cui “cittadini fanno l’Europa”. Queste si sono concretate nella Carta europea dei diritti del malato, presentata a Bruxelles nel 2002; nell’Agenda dei cittadini definita a Varsavia nel 2003; nella Carta europea della Cittadinanza attiva, presentata a compimento del progetto di Active Citizenship Network, i cui risultati sono stati presentati nella conferenza finale di Vienna nel 2006; fino alle esperienze di dialogo tra cittadini e imprese per definire il ruolo di “una cittadinanza d’impresa” per la governance europea.

Basato su molta ricerca empirica, questo studio ha mostrato che i vari “modelli” di governance ipotizzati per l’Europa, così come le ambiguità delle teorie partecipative, nel concreto laboratorio della cittadinanza europea non aiutano a cogliere i punti critici di tutto l’esperimento, che consistono soprattutto nel formarsi di “una società civile di Bruxelles”, composta di professionisti e burocrati della rappresentanza di questi interessi civici; cui consegue un impedimento al dispiegarsi della sussidiarietà cittadini-istituzioni come principio generale di una Costituzione europea vivente.

Questa analisi aiuta a guardare con altri occhi al problema. Partendo dall’idea che il civismo consiste in interventi concreti di persone determinate in situazioni e territori determinati, senza passare da rappresentanze, si deve valutare quale capacità di “trascinamento” possano avere queste attività rispetto all’indirizzo che si afferma in situazioni lontane dall’ambito di immediata loro operatività. Questo risulta dalla combinazione di azioni politiche e conquiste giuridiche in una dinamica che non guarda l’alto o il basso, ma l’obiettivo di spostare progressivamente la tutela verso esiti migliorativi. Nell’articolo 53 della Carta di Nizza è chiaramente detto che il criterio interpretativo della Carta non è dato dalla gerarchia delle fonti normative, ma dalla capacità di trascinamento che ha la tutela più avanzata, tra quelle predisposte ai vari livelli istituzionali. Vedremo un esempio di questa logica della interpretazione giuridica più favorevole a proposito del diritto alla salute. È proprio una dinamica circolare che costruisce questo risultato.   

Tale impostazione consente di cogliere il nesso tra “formazione di popoli” – non di un popolo europeo – a dialettiche concrete di cittadinanza che collegandosi a livello sovranazionale diano sostanza al formarsi di un’Europa fondata sulla “sovranità di valori”. Tali valori non risultano da una tavola astratta, ma da concrete battaglie della cittadinanza, tradotte in nuovi dispositivi normativi. Quel che hanno fatto le iniziative civiche analizzate da Moro è esattamente questo.

8. Formazione di un popolo e vincoli sovranazionali

Qui possiamo solo cominciare il discorso, esemplificando sul diritto alla salute, che è quello in cui maggiormente si vedono spiragli nell’indirizzo europeo e allo stesso tempo forte contraddizione con le pretese di rigore “in astratto”, cioè a prescindere dalle concrete materie su cui si discute. L’approvazione sostanzialmente unanime in Parlamento della revisione dell’articolo 81 della Costituzione (legge cost.1/2012), che ha introdotto il vincolo di equilibrio di bilancio, ha suscitato enorme dibattito, critiche al legislatore italiano per “eccesso di zelo” rispetto a forti pressioni dell’Unione europea[11]. Per il Trattato europeo che assunse questo obiettivo non era obbligatorio ma soltanto preferibile che si provvedesse con modifica costituzionale. La questione è infatti interamente politica, e la trasformazione in legge costituzionale ha posto non pochi problemi non ancora risolti. Sul piano giuridico c’era e c’è una discussione non conclusa sui limiti che possono essere imposti alla compressione dei diritti sociali fondamentali.

Ora, che i diritti sociali siano condizionati alla disponibilità di risorse è pacifico – la Corte costituzionale l’ha più volte affermato – ma la manovra su quelle messe in bilancio dipende dalla prevalenza di un criterio numerico astratto, o richiede ancor più una assunzione di responsabilità politica per la scelta tra cosa sacrificare e cosa difendere strenuamente? Eluso questo nodo dalla politica, ai giuristi non è restato altro che discutere di una eventuale “soglia” di non comprimibilità. Ma quali sarebbero i diritti per cui si può variare la soglia di tutela? E poi: a queste condizioni, come si può continuare a discutere di bilanci in cui le voci più pesanti sono fisse e indisponibili per il Governo nazionale? È qui che scatta la questione politica, qui hanno spazio le spinte antieuropee.

Restando agli aspetti di diritto, si dice che i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie, richiamati in più leggi, segnino il limite ai tagli. Ma anche la specificazione dei criteri di tali livelli è oggetto di controversia.  Si è sostenuto che i tagli di bilancio in materia di diritto alla salute raggiungano «un punto di rottura, quando riguardano cure indifferibili e urgenti»[12]. Anche questo si presta a una elasticità di applicazione, perché in definitiva il criterio in concreto lo fisserebbero i medici (la cui autonomia e professionalità non si vuole qui discutere, ma si tratta pur sempre di dipendenti del Sistema sanitario nazionale, che funziona in base alle risorse ricevute). Ma come si è detto non tutti i diritti sono uguali e quello della salute richiede una particolare considerazione: è in gioco la vita delle persone non solo quando si raggiungono situazioni estreme, ma anche quando stabilmente si riducono le cure “ordinarie” e le politiche per la prevenzione. È documentato che ci sia stata in Italia una riduzione di 4 anni nella aspettativa di vita di donne e uomini, da quando il Sistema sanitario nazionale è stato sottoposto a “cura dimagrante” (dati Istat 2018). A questo punto non è astratto egualitarismo ricordare che l’articolo 32 della Costituzione parla di «tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo», che non consente di aspettare che la situazione individuale diventi grave, o addirittura estrema.

La Corte costituzionale italiana si è affannata a trovare limitazioni al prevalere del principio di bilancio con l’impiego dei suoi tradizionali criteri (gradualità dei sacrifici, ragionevolezza, ecc.), ma poi non ha potuto esimersi dal dire che la compressione dei diritti sociali non può essere che «eccezionale, transeunte, non arbitraria, consentanea allo scopo fissato, nonché temporalmente limitata» (sentenze 310/2012, 304/2013). Belle parole. Ma chi decide quanto può durare la “transitorietà” dei tagli? Il Trattato, che ha impegnato gli Stati a assumere il vincolo di bilancio, all’articolo 16 stabilisce che la norma, per ora applicabile solo dagli Stati firmatari, entro 5 anni debba passare a integrare stabilmente il diritto europeo.

A questo punto lo spazio per una lotta che proceda dalla difesa del diritto alla salute dei cittadini col sostegno della cultura del diritto si trova nella dimensione europea. La Carta europea dei diritti fondamentali proclamata a Nizza nel 2000 indica all’articolo 35 che «l’Unione deve garantire un alto livello di protezione della salute umana»: la contraddizione con il criterio dei livelli minimi, che si applica in Italia, è evidente. Come abbiamo detto la Carta è in vigore e fanno riferimento ad essa i giudici dei vari Paesi per allineare le legislazioni nazionali a un diritto costituzionale europeo. Aprendo questo percorso, tra Costituzione nazionale e dimensione costituzionale europea, si avrebbe non solo espansione della tutela della salute ma “politicizzazione” del movimento relativo di tutela dei malati, poiché emergerebbe la natura tutta politica dello scontro su questo punto nella gestione dell’equilibrio di bilancio. È chiaro che sto pensando ad alternative di reperimento delle risorse (equità fiscale, lotta alle evasioni, progressività della tassazione, taglio nelle spese per armamenti e partecipazione a guerre e missioni militari che la nostra Costituzione dovrebbe impedire, ecc.). La linea e gli argomenti di politicizzazione sono suggeriti dalle Costituzioni, costruire movimento politico su queste linee è costruire un diverso popolo, costruire i popoli d’Europa.

9. Le “Costituzioni civili” nella globalizzazione

Un cenno alle tendenze di costituzionalizzazione che emergono nel diritto internazionale nella globalizzazione. Secondo Gunther Teubner[13] «la Costituzione della società-mondo sta emergendo né solo all’interno delle istituzioni rappresentative della politica internazionale, né come Costituzione globale unitaria capace di ricomprendere tutte le aree della società; essa emerge invece sempre più dalla costituzionalizzazione di una molteplicità di sottosistemi autonomi della società-mondo». Non si tratta solo degli usi mercatori: «il diritto del lavoro, la regolazione delle professioni e delle tecnologie, il discorso dei diritti umani, il mondo delle telecomunicazioni e di Internet, quello dei problemi ecologici, lo sport, la famiglia, la bioetica diventano generatori di nuovi “regimi privati” di diritto e si connettono imprevedibilmente nell’arena pubblica globale cercando una istituzionalizzazione sui generis, non mediata dall’ordine legale dello Stato nazionale»[14]. Si parla di società civili, al plurale, aldilà degli orizzonti statali, non per dire di una pluralità di società civili statal-nazionali, ma della articolazione mondiale di forze civili che si collegano a dimensione transnazionale per realizzare possibilità di costituzionalizzazione della propria autonomia. La prospettiva concettuale, per quanto riguarda il diritto, si potrebbe trovare nella teoria della pluralità di ordinamenti del giurista italiano Santi Romano: lo nota con interesse de Giovanni[15].

Quel che si è voluto indicare con questi accenni è che la complessità della costruzione di un mondo articolato e non ridotto a modelli d’impero procede non da affermazioni di potere sempre più in alto, ma dalla trama di rapporti civili che s’intrecciano trasversalmente ai diversi livelli istituzionali costituiti. Precise analisi sull’evolversi dei diritto confermano che la strategia che presiede alla connessione dei “mondi nuovi” sia impiantata su linee di costituzionalizzazione del pluralismo sociale e della sua autonomia.

[1] M. Magatti, Il potere istituente della società civile, Laterza, Bari, 2005.

[2] Scoditti E., Populismo e diritto. Un’introduzione, in questo fascicolo.

[3] F. Cassano, Senza il vento della storia. La sinistra nell’era del cambiamento, Laterza, Bari, 2014.

[4] G. Cotturri, La Costituzione come un romanzo. Per un costituzionalismo dei cittadini, postfazione di E. Scoditti, Castelvecchi, Roma, 2019.

[5] P. Serra, Europa e Mondo. Temi per un pensiero politico europeo, Ediesse, Roma, 2004.

[6] P. Magnette, L’Europe, l’Etat et la democratie. Le Souverain apprivoicé, Bruxelles, 2000.

[7] K. Polanyi, La libertà in una società complessa, Bollati-Boringhieri, Torino, 1987.

[8] G. Silvestri, La parabola della sovranità, in Riv.dir. costituzionale, 1, 1996.

[9] D. Grimm, The Constitution of European Democracy, Gebundenes, 2017, si vedano anche. F. Mancini, Per uno stato europeo, in Il Mulino, Bologna, n. 3, 1998, pp. 405-418 e J. H. H. Weiler, La Costituzione dell’Europa, Il Mulino, Bologna, 2003.

[10] G. Moro, Cittadini in Europa. L’attivismo civico e l’esperimento democratico comunitario, Carocci, Roma, 2009.

[11] D. De Grazia, L’introduzione del principio di pareggio del bilancio in Costituzione (tra vincolo europeo e zelo del Legislatore), in Giurisprudenza costituzionale, n.3, 2012, pp. 2483-2516.

[12] C. Pinelli, Nel lungo andare. Una costituzione alla prova dell’esperienza. Scritti scelti 1985-2011 (saggio su Diritti sociali condizionati, argomento delle risorse disponibili, principio di equilibrio finanziario), Editoriale Scientifica, Napoli, 2012.

[13] G. Teubner, La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione. L’emergere delle costituzioni civili, Armando Editore, Roma, 2005.

[14] P. Donati, Il farsi del civile come norma sociale, presentazione in Teubner, 2005, pp. 7-16.

[15] B. de Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, Guida editori, Napoli, 2002.