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8 marzo. Diritto d'aborto, diritto negato

Nella Giornata internazionale della donna, una riflessione sullo stato d’attuazione della legge 194

In Italia i medici obiettori di coscienza sono in continua crescita, arrivando a sfiorare il 70%, una delle percentuali più alte in Europa, a fronte del 6% in Norvegia e Germania, del 10% in Francia ed Inghilterra e del fatto che in Paesi quali la Finlandia e la Svezia non è riconosciuta l’obiezione di coscienza.

In alcune regioni il dato è significativamente elevato: nel Molise sono obiettori il 93,3% dei ginecologi, nella Provincia autonoma di Bolzano il 92,9%, in Basilicata il 90,2%, in Sicilia l’87,6%, in Puglia l’86,1%, in Campania l’81,8%, nel Lazio e in Abruzzo l’80,7%.

Meno accentuata, ma sempre molto alta, la percentuale di anestesisti obiettori che, in media, è pari al 49,3%. Anche in questo caso i valori più elevati si osservano al Sud, con un massimo di 79,2% in Sicilia, 77,2% in Calabria, 76,7% in Molise e 71,6% nel Lazio.

In sostanza, su 94 ospedali con un reparto di ostetricia e ginecologia, solo 62 effettuano interruzioni volontarie di gravidanza.

Cioè solo il 65,5% del totale.

La circostanza determina importanti conseguenze: nel 2012, 21.000 donne su 100.000 si sono rivolte a strutture di altre province; di queste, il 40% è stata costretta a cambiare addirittura regione. Inoltre, come emerge da studi scientifici sulla materia (cfr. in particolare Marco Bo, Carla Maria Zotti & Lorena Charrier, Conscientious objection and waiting time for voluntary abortion in Italy, in The European Journal of Contraception & Reproductive Health Care) dove gli obiettori sono più numerosi (e il carico di lavoro per i non obiettori è pertanto più alto) diminuisce la proporzione di donne che si sottopone all’Ivg entro i primi 14 giorni da quando ne ha fatto richiesta, mentre aumenta la proporzione di donne che deve aspettare almeno 21 giorni dal momento in cui ha richiesto l’Ivg.

Nel 2015 il Consiglio d’Europa, basando la propria decisione sull’analisi di dati aggiornati fino al 7 settembre 2015, ha condannato l’Italia perché «le donne che cercano accesso ai servizi di aborto continuano ad avere di fronte una sostanziale difficoltà nell'ottenere l'accesso a tali servizi nella pratica, nonostante quanto è previsto dalla legge».

L’obiezione di coscienza impatta anche sull’uso del mifepristone (ossia la c.d. pillola abortiva), in quanto mentre in altri Paesi (ad es. in Francia) il farmaco viene somministrato semplicemente dal medico di medicina generale, in collegamento con un ospedale, in Italia l’AIFA ne ha previsto l'uso esclusivamente all'interno degli ospedali, con l'obbligo di far seguire la somministrazione a un ricovero programmato di tre giorni.

Oltre al diritto della donna all’interruzione volontaria di gravidanza, la Laiga (Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194/78) ha denunciato la mancanza di progressione in carriera dei pochi medici non obiettori, che di fatto finiscono ad occuparsi solo di Ivg.

Alla luce di questi dati, riteniamo opportuno interrogarci sull’effettività dei diritti riconosciuti con la legge n. 194/1978, con l’adozione della quale il sistema giuridico italiano ha stabilito una gerarchia di diritti tra la persona compiuta e la persona in potenza, prevedendo che la tutela della donna incinta, ovvero della sua volontà, della sua salute, della sua condizione psichica e del suo stato sociale, siano prioritarie rispetto a quelle del feto, a meno che non sia lei stessa (e lei sola) a decidere l’inverso (art. 4).

La legge ha in questo modo affermato un diritto, che per essere tale deve essere garantito nella sua attuazione effettiva e concreta: la donna deve poter abortire nella propria città e in tempi rapidi, in modo da evitare il più possibile i rischi per la propria salute.

La legge ha al contempo previsto, all’art. 9, che «l’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento».

I diritti in contrapposizione e che devono essere bilanciati dunque non sono quelli di cui alla Legge 194/1978 e l’obiezione di coscienza in sé, in quanto la predetta legge ha già fatto la sintesi di tali diritti, individuandone il punto di equilibrio nell’affermazione del diritto della donna ad abortire nell’esonero del personale sanitario che faccia obiezione dal compiere l’atto.

Di fronte all’aumento dei medici obiettori, lo Stato non può semplicemente prendere atto della legittima scelta e rinunciare di fatto ad assicurare il diritto di aborto; al contempo non ci si può limitare alla tutela del solo articolo 9 della summenzionata legge, rimuovendo il fatto che anche all’art. 4 deve essere data concreta attuazione.

Proprio per questo motivo si ritiene che debba essere ricondotto alla ratio della legge l’adozione di bandi di assunzione di personale medico finalizzata all’applicazione effettiva della L. n. 194/1978, senza che ciò possa ledere il diritto all’obiezione di coscienza. La previsione è infatti rivolta alla tutela di un diritto, legislativamente  riconosciuto; chi ritiene legittimamente di obiettare non presenterà la propria candidatura.

E poiché nel caso specifico del bando adottato recentemente dalla Regione Lazio l’interruzione volontaria della gravidanza è indicata come l’essenza della prestazione del ginecologo, è legittimo ritenere che la mancata resa della prestazione costituisca giusta causa di risoluzione del contratto.

Ignorare questi dati normativi e di fatto, come è accaduto, significa chiudere gli occhi di fronte alla realtà di un diritto negato.

08/03/2017
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