Non è agevole individuare nell’imponente produzione normativa emanata in occasione della diffusione dell’epidemia di coronavirus nel nostro paese un nucleo di disposizioni, un criterio di regolazione, un principio generale applicabile ai contratti ad esecuzione continuata o periodica (contratti di durata) ovvero ai rapporti giuridici di natura privatistica pendenti, nei quali cioè la prestazione di una o più parti non sia stata ancora compiutamente eseguita.
Naturalmente e del tutto comprensibilmente, la produzione legislativa, dettata dall’esigenza di affrontare in tempi estremamente rapidi una situazione di eccezionale gravità, prevede disposizioni di rilievo eminentemente pubblicistico, contenenti divieti e prescrizioni (variamente sanzionati) e misure organizzative preordinate alla tutela della vita e della salute e di contemperamento tra tali restrizioni e la tutela delle libertà e dei diritti fondamentali, la cui rilevanza impone che la relativa compressione non possa eccedere, anche dal punto di vista temporale, tutto ciò che è assolutamente e strettamente necessario.
In tale quadro, anche la libertà di iniziativa economica privata di cui all’art. 41 Cost. e la tutela del lavoro in tutte le sue forme, soffre, inevitabilmente, una grave compressione.
È però essenziale che tale compressione e gli inevitabili effetti pregiudizievoli, determinati in primis dall’emergenza sanitaria e in via secondaria dai divieti, restrizioni e limiti prodotti dalle diverse disposizioni normative dirette a fronteggiarla, non finiscano per colpire soprattutto i soggetti più fragili e, ragionando in termini strettamente negoziali, la parte più debole: con lo stato di emergenza della pandemia ogni povertà si fa più acuta ed ogni dignità più fragile.
In via prioritaria e di urgenza la funzione di costituire il primo argine per fonteggiare l’emergenza sanitaria e fonire misure di supporto ai soggetti, alle imprese ed ai diversi settori economici variamente colpiti dall’emergenza sanitaria è evidentemente demandata ai sussidi statali, i cd. “aiuti di Stato,” da subito erogati dallo Stato italiano, come da tutti i paesi europei, ai sensi dell’art. 107 Tfeu (art. 56, dl n. 18 del 2020, Misure di sostegno alle micro, piccole e medie imprese), in questa prima fase tutti (ovviamente) autorizzati dalla Commissione europea.
Accanto a tali disposizioni, però, e fermo un piû ampio progetto di sostegno e rilancio dell’economia, l’eccezionale situazione di stallo causata dalle misure, senza precedenti, di generalizzata limitazione della circolazione e di svolgimento di gran parte delle attività economiche (ad eccezione di quelle cd. strategiche e relative a servizi essenziali) hanno evidentemente conseguenze dirette e gravi ripercussioni su una moltitudine di rapporti giuridici e di fattispecie negoziali, della più varia natura e difficilmente riconducibili ad unità.
Il criterio richiamato in via generale dalle poche disposizioni del dl che si occupano dei rapporti giuridici in corso è quello della risoluzione per impossibilità sopravvenuta ex art.1463 cc (richiamato dall’art. 88, Rimborso dei contratti di soggiorno e risoluzione dei contratti di acquisto) e dell’esclusione della responsabilità per inadempimento contrattuale ex artt. 1218 e 1223 cc (art. 91, Disposizioni in materia di ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici).
Soprattutto la seconda disposizione, ancorchè diretta a regolamentare specificamente la materia dei contratti pubblici, in considerazione del generale (e, direi, ovvio) richiamo all’impossibilità della prestazione come causa di esclusione della reponsabilità contrattuale da inadempimento o da ritardo ed esenzione del conseguente obbligo risarcitorio, sembra dotata di portata generale ed appare applicabile anche al settore dei contrati di diritto privato.
Non sembra tuttavia che tale forma tradizionale di tutela, propria del diritto civile classico, possa ritenersi pienamente soddisfacente, ai fini di fornire adeguata protezione a tutte le situazioni giuridiche coinvolte e segnatamente ad impedire le conseguenze che l’alterazione dell’equlibrio contrattuale può determinare in pregiudizio di uno dei contraenti nei rapporti giuridici in corso.
Viene anzitutto in rilievo, seppure non espressamente richiamata dal dl n.18/2020, la disposizione dell’art. 1464 cc, che – contrapposta alla cd. impossibilità totale di cui all’art. 1463 cc – disciplina l’impossibilità parziale della prestazione (anche in relazione alla temporanea limitazione alla fruizione di una prestazione avente ad oggetto il godimento di un bene o servizio) per fatto assolutamente imprevedibile, che comporta per la controparte una “corrispondente riduzione della prestazione dovuta” e le attribuisce il diritto di recesso dal contratto, quando non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.
Tale disposizione tende dunque al ripristino dell’equilibrio contrattuale, rimettendo alle parti una ridefinizione del sinallagma in conseguenza di un mutamento imprevedibile direttamente incidente sulla prestazione pattuita: tende dunque alla conservazione del contratto, subordinando il recesso al difetto di un apprezzabile interesse all’adempimento parziale, e presuppone una logica del tutto differente da quella risarcitoria.
Com’è noto nel nostro ordinamento non esiste, allo stato attuale,[1] un espresso obbligo di rinegoziazione, previsto dall’art. 313 del Bgb[2], introdotto nell’ordinamento tedesco dalla riforma del diritto delle obbligazioni del 2002, dall’art. 1195 del Code civil francese, nè i poteri correttivi riconosciuti dai principi Unidroit, che trovano la loro più signficativa espressione nella figure della gross disparity e dell’hardship codificati al Principio Unidroit 6.2.2.
L’esigenza di una rimodulazione del contenuto negoziale a fronte della sopravvenienza di una eccessiva onerosità della prestazione di una delle parti che alteri il sinalagma contrattuale a causa di un evento imprevedibile, nel codice civile è affidata, in via generale, alla disciplina di cui agli artt. 1467, 1468 e 1469 cc.
Le disposizioni degli artt. 1467 e ss. cc, peraltro, si accompagnano ad una serie di norme, quali, a titolo esemplificativo, l’art. 1664 cc (quando per effetto di circostanze imprevedibili si siano verificati aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d’opera); la disciplina della revisione dei prezzi nelle pubbliche forniture; gli artt. 1897 e 1898 cc, che disciplinano l’alterazione del rischio coperto dal contratto di assicurazione.
Può dunque ritenersi che tali disposizioni siano espressione di un principio generale che attribuisce rilievo non solo al contenuto del contratto, ma anche al valore economico delle prestazioni, con equa distribuzione del rischio, tenendo conto dell’eventuale previsione delle parti e della prevedibilità delle variazioni.[3]
Il diritto vivente, inoltre, equipara all’onerosità della prestazione lo svilimento della controprestazione (vale a dire l’utilitas tratta dalla controprestazione) ed estende la nozione di “onerosità” alla valutazione di oggettivo squilibrio tra prestazione e controprestazione.[4]
L’eccessiva onerosità, inoltre, può colpire una parte limitata della prestazione ed in tal caso la riconduzione del contratto ad equità, ai sensi dell’art. 1467, comma 3, cc terrà conto del valore della prestazione residua, in relazione all’interesse dell’altro contraente.
Gli aspetti più problematici della tutela suddetta, che rende tangibile la mancanza, nel nostro ordinamento, di un istituto quale l’hardship dei Principi Unidroit, soprattutto in situazioni emergenziali, come quella attuale, riguardano la necessità di dover comunque agire in giudizio per ottenere la risoluzione del contratto.
La parte che subisce l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, in particolare, può solo agire in giudizio per la risoluzione del contratto, ex art. 1467, comma 1, cc, ma non ha diritto di ottenere l’equa rettifica delle condizioni del negozio, la quale può essere invocata soltanto dalla parte convenuta in giudizio con l’azione di risoluzione, ai sensi del comma 3 della medesima norma, in quanto il contraente a carico del quale si verifica l’eccessiva onerosità della prestazione non può pretendere che l’altro contraente accetti l’adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite.[5]
Sussistono poi numerose ipotesi di sopravvenienze diverse dall’eccessiva onerosità che incidono sul valore delle prestazioni ed impongono una rinegoziazione del contenuto del contratto per ristabilire l’equilibrio tra le prestazioni.
Al di là delle specifiche disposizioni sopra indicate, soccorrono dunque, come sempre, i valori costituzionali e tra tutti la solidarietà di cui all’ art. 2 Cost. ed i principi generali del diritto civile, ed in particolare il dovere di buona fede e correttezza, di cui agli artt. 1175 e 1375 cc oltre al generale rimedio di cui all’art. 1374 cc, che indica l’equità quale fonte di integrazione del contratto.
Da tempo la Cassazione ha affermato la necessità di una rilettura degli istituti codicistici in senso conformativo ai precetti superiori della Costituzione, individuati oltre che nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art.2 Cost.), nell’esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie (C.Cost., n. 19/94), da valutare unitamente ai canoni generali di buona fede oggettiva e di correttezza.
In tale prospettiva, nell’affermare la riducibilità di ufficio della penale ex artt. 1384 cc, la S.C. ha evidenziato che tale potere mira alla tutela e ricostituzione dell’equilibrio contrattuale, evitando che da un inademipmento parziale o comunque di importananza non enorme possano derivare conseguenze troppo gravi per l’inadempiente.[6]
Naturalmente sono principi e clausole generali da utilizzare con cautela, ma che costituiscono ormai un patrimonio acquisito del diritto vivente che ha saputo correggere, grazie all’applicazione del dovere di buone fede ed alla sanzionabilità dell’abuso del diritto, in diversi settori del diritto civile e del diritto processuale, non solo le ipotesi più evidenti di sopraffazione, ma anche la rilevante asimmetria – originaria, ma più spesso sopravvenuta – nella posizione dei contraenti.
Sulla base dei valori costituzionali e dei principi generali del codice civile, dunque, ed in attesa di un diritto dei contratti che disciplini in modo puntuale le sopravvenienze diverse dall’eccesiva onerosità, deve ritenersi che un mutamento imprevedibile e rilevante della situazione di fatto, direttamente incidente sull’assetto negoziale e sull’equilibrio delle prestazioni imponga una nuova valutazione delle parti ed un nuovo assetto negoziale.
Con riferimento alla attuale situazione, particolare rilievo assumono i limiti al godimento di beni e servizi introdotti dalla legislazione emergenziale o l’impossibilità per i conduttori di poter godere del bene oggetto del contratto, sia nelle locazioni abitative (a causa del divieto di spostamento ed alla sospensione dei corsi univeristari) che in quelle commerciali, a causa dei divieti di spostamento, di circolazione o di chiusura delle attività ecomiche non essenziali.
Appare evidente, nella grande maggioranza dei casi, l’inidoneità del rimedio tipico previsto dalla legge n. 392/78 e (agli artt. 4 e 27) e dalla legge n. 431/1998 (art.3) costituito dal recesso per gravi motivi, costituiti, nella lettura della giurisprudenza, da avvenimenti estranei alla volontà del conduttore, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, che ne rendano oltremodo gravosa la prosecuzione.[7]
L’esercizio del recesso richiede, infatti, un preavviso di sei mesi e non esonera, nelle more, il conduttore dall’obbligazione di pagamento del canone, obbligazione che puó risultare particolarmente gravosa e potenzialmente idonea a determinare una situazione di crisi aziendale, in relazione alla cessazione, ancorchè temporanea, dell’attività produttiva.[8]
In tal caso, l’obbligo di rinegoziare le condizioni del contratto di locazione e di trovare un nuovo assetto che non sacrifichi unilateralmente le ragioni di una sola parte, privilegiando le ragioni della rendita rispetto alla tutela dell’abitazione o dell’utilizzo produttivo del bene, non costituisce una concessione, ma appunto un obbligo di contrarre, alle condizioni che risultano eque (ex art. 1374 cc) in relazione alla mutata situzione di fatto, in conformità al dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.) alla funzione sociale della proprietà (art 42 Cost.) ed alla tutela dell’iniziativa economica privata (art. 41).
E ciò, al fine di dare attuazione ad un diritto negoziale caratterizzato da un’equa ripartizione del rischio ed un oggettivo equilibrio tra le prestazioni e soprattutto improntato ai doveri di solidarietà, di assoluto rilievo, in un periodo in cui, com’è evidente, la situazione di emergenza sanitaria, ma anche sociale ed economica, non colpisce tutti allo stesso modo.
[1] Nel Disegno di Legge di delega al Governo per la revisione ed integrazione del codice civile (DDL Senato 1151) è invece previsto “il diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali ed imprevedibili, di pretendere la loro ringegoziazione secondo buona fede ovvero, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che venga ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta tra le parti.”
[2] L’art. 313 BGB, introdotto dalla riforma del 2002 così dispone: Qualora le circostanze poste a fondamento del contratto siano modificate in modo rilevante dopo la conclusione del contratto, laddove le parti non lo avrebbero concluso o lo avrebbero concluso con un diverso contenuto nel caso in cui avessero previsto detto mutamento, può essere preteso l’adeguamento del contratto nella misura in cui, tenuto conto di tutte le circostanze del singolo caso, con particolare riguardo alla ripartizione legale o convenzionale dei rischi, non si possa imporre ad una parte di rimanere vincolata al contratto immutato.
[3] R. Sacco, G. De Nova, Il Contratto, 2016, 1682.
[4] Tra molte, Cass., n. 12235 del 2007, in NGCC, 2007, Parte I, 1177.
[5] Cass., n. 2047 del 2018.
[6] Cass., Sez.U., n.18128 del 2005.
[7] Cass., n. 23639 del 2019; Cass., n. 12291 del 2014.
[8] Cfr. Cass., n. 5803 del 2019 secondo cui uno stato di crisi aziendale, di riduzione delle commesse è idonea ad integrare i gravi motivi di cui all’art. 27, comma 8, l. n. 392/ 1978.
[*] V. Scalisi, L’ermeneutica della dignità, Milano, 2018.