Chi o che cosa è davvero protagonista di Almarina, l’ultimo romanzo, uscito questa primavera, di Valeria Parrella? Sono indicato, per recensirlo, io che ho fatto il magistrato minorile e mai al Sud, mentre questa breve storia (circa 120 pagine, edito da Einaudi) è totalmente e inscindibilmente legata a Napoli, a un carcere sull’acqua e a un’isola, Nisida, che è legata alla terraferma come un vascello ormeggiato (così suggerisce il risvolto di copertina) o come da un cordone ombelicale?
L’incipit del romanzo – «Non saprò mai dire se è Napoli o se sono io» – sarebbe scoraggiante per il “nordista”, ma l’interesse per un romanzo intitolato a una ragazza detenuta, la voglia di confrontarsi con qualche recensione di taluno del mestiere [1] e quella di scrivere qualcosa di eventualmente utile da un angolo visuale diverso hanno alfine il sopravvento.
La storia, in realtà, è soprattutto quella di Elisabetta Maiorano, una insegnante napoletana di matematica rimasta vedova tre anni prima. Da quel lutto non è riemersa e il suo senso di solitudine, misto ad angosce, nostalgie, rabbie e fantasie, sembra condizionare la quotidianità del suo lavoro, nel carcere minorile di Nisida, anche al di là dell’obiettiva, dura, realtà di quel contesto.
Poi un giorno, a lezione, c’è una ragazza nuova: Almarina, sedici anni, romena, con un padre che l’aveva violentata e massacrata fisicamente e non solo, un fratello minore che lei ha condotto con sé in Italia ma da cui è stata poi separata, un reato che l’ha fatta finire nel carcere minorile («Elisabè, che ti devo dire? Il reato migliore l’ha fatto quando ha rubato un telefonino». «Dici?» «Almeno così un giudice l’ha mandata qui»).
I giorni continuano a scorrere e la professoressa Maiorano a svolgere il suo compito, apparentemente arido, forse inutile, di insegnare la matematica a ragazzi e ragazze che esprimono, fra uno sguardo, qualche parola e molti silenzi eloquenti, ben altri bisogni; e lei stessa sembra faticare sempre di più a dare un senso al tutto, a quell’istituzione che, con le sue regole e i suoi rituali, sembra l’esatto contrario del mondo vero, lontano eppure vicinissimo fra mare e città.
Ma pian piano, pur nel freddo dell’anima e del fisico («In classe fa freddo, ci portiamo le stufette e certi plaid economici che vendono ai supermercati»), il rapporto con Almarina, via via più significativo, sembra scaldare il cuore e orientare meglio emozioni e idee della sua insegnante, quella signora ormai di mezza età, senza figli, sgualcita dalla vita. Sembra, perché il costante io narrante, che non è solo scelta stilistica (più che comprensibile) dell’autrice ma parte integrante di un personaggio in perenne dialogo interiore con tutto, fa scorrere lungo le pagine un flusso ininterrotto di sensazioni, emozioni, ricordi ed elucubrazioni di Elisabetta, mentre Almarina vive, su quelle stesse pagine, soprattutto di riflesso, quale oggetto da parte dell’altra di un’attenzione ormai costante e insofferente. Sì, perché la percezione dei limiti di quel mondo chiuso proprio in faccia al mare, espressione massima di libertà, agita Elisabetta ogni giorno di più.
Riesce ad ottenere che Almarina trascorra il Natale con lei, a casa sua. Ma le feste richiamano prepotentemente i ricordi, fatalmente anche quelli brutti, e così la narrazione di quelle poche ore d’intimità domestica fra le due donne si mescola con la sofferta memoria della procedura che Elisabetta e il marito Antonio avevano intrapreso, con esito negativo, per essere riconosciuti idonei all’adozione dal Tribunale minorile.
La routine carceraria (di entrambe) riprende, ma Elisabetta è, ormai, sempre più immedesimata con la sua allieva/figlia, contesta le scelte di chi aveva separato Almarina dal fratello Arban, inserito in una famiglia, e, ora che la ragazza ha ormai espiato la sua breve pena (tre mesi di reclusione), vuole inserirla in una comunità di recupero, in contrasto con la sua domanda di affidamento della giovane.
Le pagine dedicate alla visita domiciliare di una assistente sociale e alle riflessioni di Elisabetta sulla giustizia minorile sono dure («Al tribunale dei minori mi ha tradotto il morbo dell’umanità. Da un punto di vista soggettivo, è stato peggio del carcere» … «…i giudici non pensano che quello che fanno sia giusto. Ma che la giustizia è solo l’esito possibile di un ragionamento»).
Ma l’epilogo del romanzo, fra scorci apparentemente realistici (l’attesa della decisione, assieme alle altre persone che dovranno essere sentite dai giudici) ed empiti prepotenti di vita nuova (il sogno, che ha già la consistenza di un fermo proposito, di girare assieme per l’Europa da Parigi a Bucarest, di mettersi alla ricerca di Arban…), è una sorta di intenso inno alla speranza, all’amore che non riconosce l’autorità, a una libertà che prevale finalmente sui vincoli.
Leggo qualche commento. Si parla di romanzo politico e d’amore, si esalta lo stile di scrittura (che, indiscutibilmente, cattura e spesso affascina – ndr), si cercano e trovano consonanze intime con altre opere della stessa autrice.
Passo alle mie valutazioni, per quanto possano contare i giudizi di chi è inevitabilmente influenzato da un diverso rapporto con i ragazzi e le istituzioni e che solo dopo aver lasciato la magistratura ha sperimentato, su quei temi, lo strumento narrativo [2].
Almarina è essenzialmente, nonostante il titolo, la storia di un’adulta, Elisabetta. Di per sé questo non è, evidentemente, un problema, ma metterlo in chiaro serve per il corretto inquadramento di un testo, sicuramente bello, che, a mio avviso, trova il suo maggior punto di forza nell’autenticità del personaggio di Elisabetta. Proprio perché lei è così, riesce ad investire affettivamente su Almarina in termini credibili sul piano umano, anche se − potrebbe obiettare più d’uno − discutibili su quello di un corretto rapporto adulto-minore, docente-discente, etc…; e riesce anche a registrare la realtà, con i suoi aspetti positivi ma anche i suoi limiti, di un contesto nel quale aveva, comunque, scelto di lavorare (anche se Nisida non era stata la sua prima opzione) e a ribellarsi di fronte alla prospettiva di “perdere” Almarina, esprimendo nei confronti della giurisdizione minorile giudizi “di pancia” ma anche valutazioni penetranti rispetto a certe logiche e pratiche di essa.
Si rimette al lettore − “addetto ai lavori”, esperto o estraneo rispetto all’ambiente giudiziario − l’autonoma valutazione quale cittadino dei passaggi più, come è stato scritto, “politici”. Ciò perché un’analisi tecnico-giuridica, inevitabilmente non breve, esorbiterebbe, e non solo in termini di spazio, dal ruolo del recensore; e, soprattutto, perché il messaggio civile e “politico” di questo romanzo − intenso e, in tale intensità, volutamente breve − scorre essenzialmente, ed efficacemente, sul piano delle emozioni.
Quelle di Almarina, personaggio descritto con tocchi essenziali, e soprattutto quelle di Elisabetta. Due donne, ovviamente, diversissime ma, alfine, assolutamente sinergiche (sinergia che, idealmente, include l’autrice, il terzo polo di questa storia al femminile) nel proposito di “uscire” per ripartire, entrambe e assieme, verso una nuova storia. Il circuito istituzionale − che aveva inflitto ad Almarina una lieve pena, l’aveva messa in contatto con figura educanti e per il “dopo” aveva pensato alla comunità di don Valentino, uno che aveva capito che la missione è qua − ha fatto, con i suoi limiti, quanto poteva, ma le ferite delle due donne sono tali da imporre che esse si alleino a livello profondo e cerchino di riconquistare assieme la vita, più che le rispettive, singole, vite.
Il messaggio di fondo, a me, sembra questo. Nel romanzo il carcere minorile è, certo, ben più che uno sfondo ma, comunque, non è l’analisi di esso il fulcro di quest’opera, così come sono rilevanti ma non essenziali le dinamiche istituzionali e quelle adolescenziali. Opere di vario genere, saggistico, narrativo e anche filmico, che hanno effettivamente al centro tali tematiche e le hanno trattate con respiro diverso e taglio efficace, sono uscite anche in anni recenti e in nota [3] si fa qualche citazione al riguardo, prescindendo dal già ben noto La paranza dei bambini, di Roberto Saviano.
Lasciando a chi è del mestiere giudizi più diffusi e impegnativi su Almarina e la sua autrice, concludo sottolineando che, come ex magistrato, sono lieto che anche narratori noti, come, in questo caso, Valeria Parrella, si interessino della condizione dei ragazzi “difficili” anche in contesti istituzionali, quale quello di Nisida (dove, nel dicembre 2017, venne tenuto un laboratorio di scrittura creativa: in due pagine del romanzo sono riportati elaborati composti in quella occasione); e, in generale, si avvalgano delle emozioni, delle suggestioni, delle immagini e delle tecniche proprie della letteratura per opere che, comunque, sono utili per sensibilizzare l’opinione pubblica su temi che rischiano di restare confinati nell’ambito degli addetti ai lavori, mentre devono coinvolgere le coscienze di tutti. Quale che sia, poi, il giudizio di ciascuno; e non solo sui libri.
[1] Vds., in particolare, quella di Antonella Lattanzi (Non basta la matematica per evadere dal carcere minorile) apparsa sull’inserto Tuttolibri de La Stampa il 20 aprile 2019.
[2] Mi permetto di citare il mio romanzo Messa alla prova (ed. Manni, S. Cesario di Lecce 2018) perché ancora in fase di presentazione e per riconoscimento all’impegno dell’editore, indipendente.
[3] Mi pare opportuno segnalare il bel film Fiore, di C. Giovannesi, recensito su questa Rivista on-line nell’estate 2016 (http://questionegiustizia.it/articolo/un-fiore-nel-carcere-minorile_24-07-2016.php), e il romanzo Anime scalze, di Fabio Geda (Einaudi, Torino 2017). Con riferimento all’ipm Ferrante Aporti di Torino, vds. i libri Il maestro dentro, di Mario Tagliani (Add editore, Torino 2014) e Il cortile dietro le sbarre: il mio oratorio al Ferrante Aporti (Elledici, Torino 2015), scritto dalla giornalista Marina Lomunno in dialogo con don Domenico Ricca, “storico” cappellano, tuttora in servizio, dell’istituto.