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Questioni di giurisdizione e diritti fondamentali *

di Enrico Scoditti
consigliere della Corte di cassazione

La devoluzione dei diritti fondamentali in via esclusiva al giudice ordinario è ormai una stagione del passato alla luce della nuova concezione del giudizio amministrativo e dell’introduzione nella giurisprudenza costituzionale della tecnica del bilanciamento. Anche l’interesse legittimo, se vi è una norma che attribuisce il potere alla pubblica amministrazione, è uno strumento di tutela dei diritti fondamentali. E’ necessaria una nuova visione del giudizio sul riparto di giurisdizione nel quale la Corte di Cassazione non sia più il giudice ordinario che decide dei limiti della propria giurisdizione, ma sia un giudice terzo rispetto al giudice ordinario ed al giudice speciale.

1. Una nuova stagione

Nella voce dell’Enciclopedia del diritto dedicata ai Conflitti di giurisdizione del 1970 di Eugenio Cannada-Bartoli si legge che il giudizio sulla giurisdizione è stato affidato al giudice ordinario perché è un giudizio sui limiti dei diritti soggettivi, cui spetta la primazia perché gli interessi legittimi sono una sorta di limiti inferiori dei diritti soggettivi. Il giudizio sulla giurisdizione corrisponde dunque ad una autolimitazione da parte del giudice ordinario, che è chiamato a decidere dei limiti della propria giurisdizione. Quella era la fase della nostra cultura giuridica in cui si discorreva di diritti indegradabili. Per decenni, a partire dal 1979, è stata costante nella giurisprudenza della Corte di Cassazione la tesi dell’indegradabilità ad interesse legittimo del diritto alla salute da parte dell’autorità amministrativa. Si tratta di una formula ancora presente nella giurisprudenza delle sezioni unite, come dimostra Cass. Sez. U. n. 23436 del 2022. Essa ha avuto il merito storico per lunghi decenni di dare una risposta a bisogni di tutela che non trovavano adeguata soddisfazione nel vecchio regime degli interessi occasionalmente protetti dalla giurisdizione amministrativa di legittimità. Si deve guadagnare oggi consapevolezza che quella stagione è alle nostre spalle. Due mutamenti sono intervenuti.

Rispetto all’epoca di elaborazione della tesi dell’indegradabilità, il quadro della giustizia amministrativa è radicalmente mutato. Sullo sfondo delle pronunce del 1979 vi era la concezione oggettiva del processo limitata all’esclusivo sindacato sull’atto, cui era correlativa la limitatezza dei mezzi probatori di accesso al fatto. Anche per effetto della conoscenza del fatto posto a fondamento della scelta dell’autorità amministrativa, consentita dalle potenzialità probatorie presenti nella nuova configurazione del giudizio amministrativo, è venuta in rilievo la cognizione piena del rapporto, per cui il processo si è evoluto «da strumento di garanzia della legalità dell’azione amministrativa a giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali». Come affermato dal giudice costituzionale, la concezione soggettiva del processo delinea «la giurisdizione amministrativa, nelle controversie tra amministrati e pubblico potere, [come] primariamente rivolta alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive e solo mediatamente al ripristino della legalità dell’azione amministrativa, legalità che pertanto può e deve essere processualmente perseguita entro e non oltre il perimetro dato dalle esigenze di tutela giurisdizionale dei cittadini» (Corte cost. n. 271 del 2019). Alla luce di tale evoluzione è «l’interesse alla mera legittimità dell’azione amministrativa ad essere diventato un interesse occasionalmente protetto in sede di tutela dell’interesse legittimo, cioè protetto di riflesso in sede di tutela della situazione di interesse legittimo», come si legge in una recente relazione sull'attività della giustizia amministrativa del presidente del Consiglio di Stato. 

Le sentenze del 1979 erano inoltre espressione di un contesto nel quale era ancora di là da venire la tecnica del bilanciamento: in luogo di quest’ultima operava nella giurisprudenza costituzionale la dottrina dei limiti naturali dei diritti fondamentali, risalente già a Corte cost. 14 giugno 1956, n. 1. Il secondo mutamento è l’introduzione della tematica del bilanciamento nella giurisprudenza costituzionale, che consente oggi di dire che non è di ostacolo alla qualificazione della posizione soggettiva in termini di interesse legittimo la riconducibilità della situazione sostanziale ad esso soggiacente ad un bene della vita costituzionalmente protetto quale il diritto alla salute. 

Con l’eccezione delle ipotesi tassative di diritti fondamentali per i quali è prevista la riserva di giurisdizione in senso sostanziale (artt. 13, 14 e 15 Cost.), la concreta disciplina di un diritto fondamentale può essere opera anche dell’autorità amministrativa se una norma attribuisce a quest’ultima il relativo potere, da cui il superamento dell’incompatibilità concettuale fra interesse legittimo e un diritto fondamentale quale il diritto alla salute. 

 

2. Bilanciamento e diritti inviolabili

Per ricondurre i diritti fondamentali anche nell’alveo dell’interesse legittimo il bilanciamento costituzionale è il passaggio ineludibile. I diritti fondamentali sono formulati per principi, secondo un luogo ormai classico della giurisprudenza costituzionale. Essi recano un nucleo duro che corrisponde direttamente al bene che il diritto fondamentale presidia. Il bilanciamento è una vicenda di allontanamento più o meno intenso da quel nucleo di massima protezione e che dipende dalle relazioni di prevalenza o subordinazione che, all’interno della ponderazione, si stabiliscono con i principi concorrenti. 

Quello che va tenuto fermo è che il principio non viene mai del tutto meno e lascia sempre una traccia, anche quando soccombente, stante la logica chiaroscurale del bilanciamento improntata al fondamentale criterio della proporzionalità, il cui compito è segnare il limite di tolleranza della compressione. Ciò che resta non comprimibile nel rapporto a somma zero fra principi (al progresso della tutela dell’uno corrisponde la regressione nella tutela dell’altro) è il minimo essenziale, corrispondente al punto di massima protezione. Al contrario della logica binaria dell’aut aut, che è alla base delle regole, la logica dei principi è quella flessibile dell’et et. Quest’ultima mira alla salvaguardia del nucleo duro del principio soccombente mediante la compressione del diritto fondamentale in modo proporzionato e dunque nella misura strettamente necessaria, la quale, per altro verso, corrisponde alla massima tutela consentita nel confronto con i principi concorrenti. 

Si consegue in tal modo la conciliazione della tecnica del bilanciamento con i diritti inviolabili e si realizza la sintesi di diritti fondamentali e doveri inderogabili di solidarietà, che l’art. 2 Cost., contemplando a un tempo inviolabilità dei diritti dell’uomo e solidarietà, prefigura. L’inviolabilità non è il limite esterno del bilanciamento, tale da rendere intangibili alcune situazioni giuridiche, ma è il vincolo che opera all’interno del bilanciamento, garantendo nella compressione che deriva dalla ponderazione con il principio prevalente il minimo inviolabile del diritto. 

 

3. I diritti fondamentali fra diritti soggettivi e interessi legittimi

Diritti soggettivi e interessi legittimi non sono altro che le tecniche di tutela del principio, secondo quanto risulta dal bilanciamento cui è deputato il legislatore ordinario. Il diritto fondamentale non è un diritto soggettivo, è il principio costituzionale che trova poi attuazione nelle forme del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo. Queste sono tecniche di tutela equi-ordinate, come si evince dalla parificazione di diritti e interessi stabilita dall’art. 24, comma 1, Cost., vera e propria grundnorm del sistema giurisdizionale.

Il diritto soggettivo costituisce la trasformazione in regola del principio corrispondente al diritto fondamentale e la distanza dal nucleo del principio sconta l’intervento di principi concorrenti nella formulazione della regola. Il bilanciamento è attuato per via legislativa graduando la distanza, minore o maggiore, dal punto di massima protezione del bene, a seconda dei rapporti di prevalenza o subordinazione che si stabiliscono con gli altri principi. Nel caso dell’interesse legittimo il bilanciamento con altri principi è attuato mediante la previsione della norma attributiva del potere amministrativo. Il bilanciamento ha preso qui la forma della norma attributiva del potere, nella quale ciò che è essenzialmente contemplato non è la posizione soggettiva ma il potere: l’interesse legittimo si dispiega con la dinamica dell’esercizio del potere. A differenza della tecnica del diritto soggettivo, il bilanciamento legislativo opera qui non graduando la distanza dal nucleo duro del principio, ma attribuendo all’autorità amministrativa il potere di regolazione degli interessi. La dialettica è così direttamente fra la situazione sostanziale soggiacente il nucleo del principio, colta nella sua immediatezza, e il potere amministrativo. Ad esempio, la posizione soggettiva relativa al bene della vita soggiacente i diritti costituzionali di proprietà privata e di iniziativa economica privata viene in rilievo immediatamente al cospetto dell’esercizio del potere ablatorio e di quello autorizzatorio, acquistando la consistenza rispettivamente di interesse oppositivo e interesse pretensivo. 

La presenza di un diritto inviolabile nel bilanciamento che ha generato la norma attributiva del potere amministrativo si ripercuote nella norma medesima. In primo luogo, già sul piano legislativo permane un segno del fondo non comprimibile del diritto fondamentale: ad esempio, nel caso di provvedimenti ablatori la norma deve prevedere indennizzi che costituiscano un serio ristoro. In secondo luogo, la peculiare genesi della norma attributiva del potere amministrativo fa sì che il peso del diritto fondamentale di cui l’interesse legittimo è epifenomeno penetri attraverso il canone della proporzionalità nella ponderazione degli interessi cui è deputata l’autorità amministrativa. 

 

4. Il sindacato di proporzionalità sull’esercizio del potere amministrativo: il fondo non comprimibile della situazione soggettiva sostanziale

Il criterio della proporzionalità costituisce nella giurisprudenza amministrativa un’evoluzione, attraverso il vaglio di ragionevolezza, del tradizionale sindacato per eccesso di potere e sposta in avanti la linea di confine fra legittimità e merito, consentendo al giudice amministrativo non solo l’accertamento ma anche la qualificazione giuridica del fatto entro le coordinate della limitazione proporzionata degli interessi (ma non della loro concreta ponderazione, la quale, come è noto, in quanto espressione della scelta amministrativa fra più opzioni, resta riservata al merito). Si tratta di un sindacato di carattere non formale, se comparato a quello per eccesso di potere, perché presuppone un nucleo sostanziale corrispondente alla soglia d’incomprimibilità della posizione soggettiva. Il paradigma della proporzionalità è offerto dall’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo cui la limitazione proporzionata del diritto presuppone la salvaguardia del contenuto essenziale del medesimo. L’altra faccia della proporzionalità è l’esistenza di una base sostantiva non sacrificabile oltre un certo limite. La proporzionalità, grazie al ruolo di barriera che esercita, rivela l’esistenza di un nucleo duro della situazione soggettiva, che resta inviolabile nella regolazione amministrativa degli interessi. 

La dottrina dell’indegradabilità si trasferisce in tal modo all’interno dell’interesse legittimo quale fondo non comprimibile e, pertanto, quale limite della scelta discrezionale di cui è titolare il potere. Se il potere è stato attribuito da una norma risultante dal bilanciamento con un diritto fondamentale, il rispetto del contenuto minimo essenziale di quest’ultimo non può non fungere, grazie alle potenzialità di sindacato che il metodo della proporzionalità dispiega, da criterio di legittimità dell’esercizio del potere amministrativo. Nella dialettica fra autorità e libertà, quando è in gioco un diritto fondamentale l’interesse legittimo che lo esprime non può essere pienamente funzionalizzato alla dinamica del potere, ma mantiene una base sostantiva intangibile che contribuisce a disegnare i confini di legalità della scelta discrezionale dell’amministrazione. La sfera minima di intangibilità è la naturale conseguenza della tutela del diritto fondamentale in forma di interesse legittimo. Del resto, non è pensabile che un margine d’inviolabilità del diritto permanga al cospetto del legislatore e risulti invece cedevole innanzi all’autorità amministrativa, cui il legislatore, mediante la norma attributiva del potere, abbia devoluto il bilanciamento. Quest’ultimo, come si è detto, non si traduce mai in un sacrificio integrale del principio soccombente, ma di quest’ultimo conserva la traccia corrispondente al minimo incomprimibile.

L’inviolabilità del contenuto minimo essenziale in discorso non corrisponde a un’area di immunità da poteri giuridici altrui che trasformerebbe l’interesse legittimo in diritto soggettivo, per la fondamentale ragione che vi è una norma che attribuisce il potere all’autorità amministrativa e “se c’è il potere, non c’è il diritto”, secondo la celebre formula di Mortara. Ciò che importa è verificare se una norma ha attribuito il potere. Se il potere c’è, non c’è un diritto soggettivo che lo preceda, ma solo una situazione soggettiva, che diventa percepibile al cospetto dell’esercizio del potere, o del mancato esercizio nei casi di inerzia. Anche il silenzio è, infatti, vicenda interna al potere. La salvaguardia di un fondo non comprimibile si colloca così ex parte principis, quale criterio di legittimità della scelta che l’amministrazione compie fra più opzioni possibili. 

Il vincolo derivante dal fondo non comprimibile dell’interesse legittimo corrispondente a un diritto fondamentale si manifesta non sul piano della legge, perché appunto c’è una norma attributiva del potere (diversamente saremmo nel campo dei diritti soggettivi), ma sul piano del fatto, che il giudice amministrativo accerta. E’ il fatto che vincola il potere, non il diritto. La questione non è di rito sulla giurisdizione, ma è di merito. L’accesso probatorio al fatto fa concludere al giudice amministrativo, al cospetto del nucleo intangibile dell’interesse legittimo, che «per la natura vincolata del potere è palese che il contenuto dispositivo del provvedimento non poteva essere diverso» (art. 21 – octies, comma 2, legge n. 241 del 1990) o, in sede di tutela contro l’inerzia della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 117 cod. proc. amm., permette al giudice amministrativo, conformando il rapporto amministrativo, di «pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio», quando si tratta «di attività vincolata», ovvero quando «non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione» (art. 31, comma 3, cod. proc. amm.). Deve essere chiaro che l’esistenza di un potere discrezionale non implica che siano possibili scelte riservate ad una mera opportunità: il contenuto della scelta può essere vincolato se le circostanze di fatto non consentono alternative.

 

5. Lo ius dicere del giudice ordinario e del giudice amministrativo

La concezione compiutamente costituzionale di interesse legittimo, che qui si propone, consente di configurarlo non come una filiazione, per affievolimento come si è tradizionalmente detto, del diritto soggettivo. Interessi e diritti sono entrambi proiezioni, sullo stesso piano (alla stregua dell’art. 24 Cost.), di principi costituzionali.  

Nell’attuale contesto costituzionale il diritto civile può essere predicato come diritto comune solo nel ristretto senso della diretta attuazione dei principi costituzionali da parte del giudice comune, per la mancanza sia di una fattispecie legale in cui sussumere il caso concreto sia della riserva di legge. In una ipotesi siffatta il diritto fondamentale non può che prendere la forma del diritto soggettivo, posto che per configurare un interesse legittimo è necessario che vi sia una norma attributiva del potere, ed al giudice (ordinario) spetta identificare la regola del caso concreto mediante il bilanciamento dei principi, trasformando, in luogo del legislatore, il diritto fondamentale in diritto soggettivo. E’ soltanto nella sede della diretta attuazione dei principi costituzionali, senza passare per l’interposizione legislativa, che il giudice ordinario può essere ancora configurato quale «giudice naturale dei diritti fondamentali».

Emerge, a questo punto, la diversità dello ius dicere fra giudice ordinario e giudice amministrativo, diversità che giustifica la distinzione dei plessi giurisdizionali. Nel campo della giurisdizione ordinaria è la legge che fissa il punto di bilanciamento fra solidarietà e inviolabilità: quel punto costituisce il valore mediante cui la norma collega al fatto (astratto e generale) gli effetti giuridici, per cui al giudice spetta sussumere il caso concreto nella fattispecie astratta, o integra il valore con cui si identifica la stessa disposizione, conformemente alla tecnica delle clausole generali, che è compito del giudice concretizzare in relazione alle circostanze del caso. Nel campo della giurisdizione amministrativa spetta invece al giudice accertare il punto di bilanciamento fra solidarietà e inviolabilità, alla stregua del quale apprezzare la legittimità della ponderazione di interessi che l’autorità amministrativa ha stabilito. Quel punto di bilanciamento è accertato dal giudice ordinario solo nella sede della diretta attuazione dei principi costituzionali, di cui si è detto sopra.

 

6. Il giudice della domanda risarcitoria per omesso esercizio del potere amministrativo a tutela di un diritto fondamentale

E’ mia personale convinzione che, alla luce di quanto osservato, non possa essere mantenuto l’attuale indirizzo delle sezioni unite della Corte di Cassazione secondo cui spetta al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda risarcitoria nei casi di inerzia della PA per mancata adozione di provvedimenti a protezione di diritti fondamentali quali il diritto alla salute (in tal senso si vedano Cass. Sez. U. n. 23436 del 2022 e n. 5668 del 2023). 

La giurisprudenza è pacifica nel senso che la pretesa in generale a che un'autorità amministrativa eserciti i poteri che la legge le assegna per la tutela di un interesse pubblico non può essere configurata come un diritto soggettivo di colui il quale quella pretesa voglia far valere in giudizio, né quando essa investa la scelta dell'amministrazione se esercitare o meno quel potere, in una situazione data, né quando sia volta a sindacare i tempi ed i modi in cui lo si è esercitato. Può dunque solo qualificarsi come interesse legittimo quello del privato a ottenere un bene della vita quando esso viene a confronto con un potere attribuito dalla legge all'amministrazione non per la soddisfazione proprio di quell'interesse individuale, bensì di un interesse pubblico che lo ricomprende, per la realizzazione del quale l’amministrazione è dotata di discrezionalità nell’uso dei mezzi a sua disposizione. Quando però la pretesa del privato è relativa ad un diritto fondamentale, quale è il diritto alla salute, si afferma che la giurisdizione è del giudice ordinario. 

Il petitum sostanziale, o causa petendi, corrisponde qui sempre ad un interesse legittimo, e non si comprende perché il diritto alla salute importi una differenziazione sul piano della giurisdizione. Che il petitum sostanziale sia di interesse legittimo trova una decisiva conferma nel fatto che se il privato opta, anziché per la tutela risarcitoria, per la tutela in forma specifica, instando per il provvedimento con un ricorso avverso il silenzio ai sensi dell’art. 117 CPA, nessuno dubita che la giurisdizione sia del giudice amministrativo. Affermare che spetta al giudice ordinario la cognizione della domanda risarcitoria per la mancata adozione di un provvedimento amministrativo a protezione di un diritto fondamentale significa reintrodurre il criterio del petitum formale, secondo cui al giudice ordinario spetterebbe la domanda risarcitoria, al giudice amministrativo il ricorso avente ad oggetto l’ordine di provvedere. Si tratta di un criterio che la giurisprudenza, optando per quello del petitum sostanziale, ha abbandonato un secolo fa. 

Non può sostenersi che la giurisdizione è del giudice amministrativo circa l’ordine di provvedere solo perché al giudice ordinario è inibito di dare un simile ordine e dunque per la mancata previsione del rimedio formale, perché ciò significherebbe riconoscere che vi sono una serie di ipotesi in cui ricorre la giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo solo perché manca il rimedio formale nella giurisdizione ordinaria, ma non perché vi sia un interesse legittimo (la posizione soggettiva sarebbe anzi di diritto soggettivo, a stare alla attuale giurisprudenza). L’argomento, infine, secondo cui l’omessa adozione del provvedimento rileva quale mero fatto nell’ambito di una fattispecie di illecito non cambia la natura del fenomeno, che è di interesse legittimo. Le cose, pena la ricaduta in un vuoto nominalismo, non cambiano natura solo perché diamo loro un nome anziché un altro. 

 

7. Il giudizio sul riparto di giurisdizione: una nuova visione

Per tornare al punto da cui eravamo partiti, alla luce di tutto quanto si è detto il giudizio sulla giurisdizione non può più essere concepito come un’autolimitazione del giudice ordinario, secondo la vecchia tesi di Cannada-Bartoli. C’è bisogno di recuperare una visione circa il giudizio sul riparto di giurisdizione. Il settimo comma dell’art. 111 Cost., nel quale la Corte di Cassazione viene a costituire un soggetto ulteriore, e quindi terzo, rispetto al giudice ordinario ed i giudici speciali, va preso alla lettera, quasi che la norma spogli la Corte della sua provenienza dalla giurisdizione ordinaria. Nel giudizio sulla giurisdizione affidato alla Corte di Cassazione, organo terzo rispetto al giudice ordinario ed ai giudici speciali, e non giudice ordinario che decide dei limiti della propria giurisdizione, la norma costituzionale individua il momento di ricomposizione di un sistema pienamente pluralistico. Alla Corte di Cassazione, direi come funzione ancor prima che come plesso giurisdizionale, è affidato il compito di ricomporre il pluralismo perché essa, a differenza degli altri organi giurisdizionali di vertice, svolge un sindacato di pura legittimità. Il giudizio sulla giurisdizione, per una Corte di pura legittimità, è una delle caratteristiche del suo essere Corte Suprema. 

Periodicamente si torna a parlare di trasferimento del giudizio di riparto della giurisdizione ad un “Tribunale dei conflitti”. Se una tale passaggio vi fosse, sarebbe una sconfitta storica non solo per la Corte di Cassazione, ma anche per la tradizione del costituzionalismo italiano, che identifica nell’affidamento del riparto di giurisdizione ad una corte di pura legittimità una delle caratteristiche del modello di Corte Suprema. Sta naturalmente alla Corte di Cassazione oggi perseguire in modo coerente la propria funzione di giudice terzo nel pluralismo delle giurisdizioni e far sì che tutto ciò non accada.

[*]

Relazione tenuta al convegno su Giurisdizione plurale: risorsa o problema, organizzato dalla Camera amministrativa distrettuale degli avvocati di Bari nei giorni 29-30 settembre 2023. 
Per ogni approfondimento si rinvia a E. Scoditti, Per una teoria costituzionale dell’interesse legittimo, in Il Foro italiano, 2022, V, p. 162.

11/10/2023
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