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I meccanismi cognitivi che presiedono all'acquisizione della prova

1. Introduzione

Nell’opinione comune, la testimonianza rappresenta, nel processo penale come in quello civile, uno degli elementi di prova più importanti: se qualcuno ha assistito ad un fatto ed è in grado di raccontarlo, impegnandosi a dire la verità e assumendosi la responsabilità delle sue dichiarazioni, allora la decisione che sarà fondata su quella testimonianza sarà certamente giusta, in quanto corrispondente alla realtà dei fatti. 

I giudici, nel motivare sull’affidabilità dei testimoni, fanno quasi sempre riferimento alle loro caratteristiche soggettive e alla possibile presenza di ragioni oggettive che potrebbero spingerli a mentire: una volta accertata la loro imparzialità, ci si affida al loro racconto, presumendo che corrisponda al reale accadimento dei fatti che essi raccontano. Così, per esempio, se un vicino di casa, che non ha alcun rapporto con la famiglia della porta accanto, racconta di aver sentito un bambino urlare e piangere, si dirà che egli non ha alcuna ragione per mentire e, pertanto, si crederà al suo racconto. Ancora, se un passante dichiara di aver assistito ad un incidente automobilistico che ha visto coinvolta una bicicletta ed un’autovettura, una volta esclusi i rapporti con le persone coinvolte e un qualche interesse nella vicenda, si prenderà per buono il suo racconto. 

Nella valutazione della testimonianza, ci si chiede raramente se, in assoluta buona fede, il testimone racconti qualcosa che in realtà non è mai avvenuto. Diamo in sostanza per presupposto che la memoria di ciascun individuo sia qualcosa di assolutamente oggettivo, che si limita a registrare gli accadimenti. Una volta accertata l’imparzialità del teste e la sua credibilità, la sua narrazione verrà ritenuta corrispondete alla realtà. 

Ma è davvero così?

Gli studi e le riflessioni della neuropsicologia ci danno indicazioni diverse. E ci dimostrano che, al di fuori dei nostri confini, il problema dell’attendibilità della testimonianza è valutato da diverse angolazioni prospettiche, che attengono non tanto e non solo al problema dell’indifferenza del testimone rispetto alla soluzione del caso concreto, ma alle modalità di formazione del ricordo ed alla sua successiva rielaborazione. 

Si tratta di conoscenze che ciascun giurista dovrebbe possedere e sulle quali è opportuno meditare, nel momento in cui fondiamo le nostre decisioni sui ricordi che le altre persone hanno di uno o più fatti. 

 

2. Consapevolezza metacognitiva, linguaggio, memoria e funzioni esecutive: il tortuoso processo di ricostruzione del ricordo

Nell’acquisizione della prova, dal vertice psicologico, spesso si è discusso intorno ai meccanismi della memoria in termini di veridicità di un evento trascurando gli aspetti legati alla plausibilità di un racconto, come se la memoria fosse un videoregistratore da cui estrapolare con il linguaggio la sequenza di un accadimento. Il tema della plausibilità di un racconto, tuttavia, diviene centrale per gli effetti  che il linguaggio decreta impalcando in una struttura mutabile la costruzione del ricordo. 

La neuropsicologia come disciplina che studia i cervelli lesionati per compiere delle inferenze sul funzionamento cerebrale normale, potrebbe rappresentare la scienza elettiva per studiare i processi di acquisizione della prova riducendo al minimo l’interferenza del dispendio cognitivo e svelando con maggior approssimazione i meccanismi della menzogna.

Il linguaggio ha due modi per modificare il racconto di ciò che è catalogato nella memoria ovvero le misure dirette e le misure indirette (Dean et al., 2017).

Le misure dirette riflettono la Consapevolezza Metacognitiva, ovvero le conoscenze che la persona detiene rispetto alle proprie abilità comunicative (Dean et al., 2017). In tal senso un soggetto con una buona previsione dei propri atti linguistici potrebbe mostrare:

· maggiori autocorrezioni pertinenti che possono essere di tipo pre-articolatorio, 

· prestazioni migliori nella produzione linguistica,

· correlazione con le funzioni esecutive.

Le misure indirette riflettono la Consapevolezza Emergente , cioè il riconoscimento degli errori che si verificano durante un compito linguistico (Dean et al., 2017). Questa misura che si basa su meccanismi di feedback retroattivi, contestuali al processo di elaborazione linguistica, implica:

· un maggior coinvolgimento dei meccanismi collegati alla comprensione linguistica,

· lo sganciamento da meccanismi di tipo previsionale con possibilità di errori e autocorrezioni non pertinenti,

· sensibilità ai meccanismi di interferenza e di tipo sostitutivo.

Le declinazioni con cui queste due misure entrano in gioco solcando il flusso comunicativo decretano un’attiva posizione del soggetto il quale attraverso il linguaggio indicizza le tematiche agganciandole ai ricordi i quali, a loro volta, sono costantemente modificati dai meccanismi dell’intersoggettività. 

Il principio dell’accuratezza della memoria nei processi legali è spesso legato al fenomeno del ri-consolidamento, dove i ricordi riattivati ​​entrano in un transitorio stato di instabilità in cui sono inclini a processi di interruzione o cambiamento (Hupbach et al., 2007). Crozier et al. (2017), per mezzo di una breve rassegna bibliografica, descrivono tre tipi di fattori (gerarchicamente connessi tra loro e intrinseci al funzionamento dei processi mnemonici) che contribuiscono a destabilizzare i meccanismi di consolidamento e recupero delle informazioni nella ricostruzione di un evento. 

In primo luogo, in assenza di una reiterazione dei contenuti, l’accessibilità decade spontaneamente con il progredire del tempo (Schacter, 1999 come citato in Crozier et al., 2017), ne consegue che la traduzione delle informazioni nella ricostruzione episodica del ricordo diventa progressivamente più sensibile alle interferenze esterne. Inoltre, il processo stesso di recupero delle informazioni può rappresentare un’interferenza (Retrieval-Induced Forgetting effect) che inibisce il ricordo di dettagli alternativi, correlati all’evento, sulla base del tipo di link che viene indotto nel momento del recupero (Anderson et al., 1994; Barnier et al., 2004; Shaw et al., 1995). In tal senso un resoconto è sempre parziale, esito di una competizione tra elementi alternativi che possono essere più o meno attivati a seconda dei pesi specifici di ordine attentivo che sono implicati nella rievocazione delle informazioni.   Gli elementi attivati stabiliscono la traccia del ricordo decretando un polo gravitazionale verso il quale possono confluire le informazioni compatibili o affini, con l’esclusione di altri dettagli che avrebbero potuto raccontare una storia alternativa. 

Il secondo fattore che concorre nel pregiudicare la ricostruzione accurata di un ricordo è costituito da una serie di contaminazioni semantiche e “sintattiche” alla quale i processi mnemonici sono esposti pressoché costantemente. Per esempio, le modalità con cui vengono raccolte le informazioni (anche la semplice scelta lessicale nella formulazione delle domande) possono determinare distorsioni, in prima battuta narrative e secondariamente mnemoniche, nell’elaborazione del ricordo (Crozier et al., 2017).  Allo stesso modo, la semplice esposizione a informazioni distorte su un determinato evento, può provocarne l’introiezione (misinformation effect) e la successiva rievocazione come parti integrate al ricordo dell’evento stesso (Loftus, 2005). Un ulteriore effetto di distorsione nel processo di elaborazione di una memoria è determinato dalla combinazione (memory conjunction error o blending effects) di dettagli che appartengono a scenari distinti (nello spazio e nel tempo)  e che vengono riferiti erroneamente a un singolo ricordo (Jones & Jacoby, 2001; Odegard & Lampinen, 2004; Skagerberg & Wright, 2008). 

Il terzo fattore riguarda la conformazione dei gap mnemonici ai tratti abitudinari del proprio stile di vita: ovvero, la tendenza a completare le lacune di un ricordo sulla base di script compatibili con il contesto evocato (Lampinen et al., 2000), a prescindere dalla corrispondenza con gli avvenimenti realmente accaduti. 

Si evince dunque il carattere plastico dei processi mnemonici, in costante comunicazione con l’ambiente esterno, rispetto allo scambio di informazioni, e con il “mondo interno” dell’individuo, nell’interazione sinergica con l’intero sistema cognitivo.         

Del resto le memorie degli individui sono costantemente aggiornate con le informazioni correnti. In questo meccanismo di revisione che, come abbiamo visto,  può portare a cambiamenti e distorsioni della memoria, entrano altresì in gioco meccanismi di tipo emotivo quali: la percezione della propria inaffidabilità intrinseca (Brown et al., 2012), la fiducia in sé stessi, l’amabilità ovvero tutte tematiche subordinate ai complessi vissuti esistenziali che decretano specifici tipi di attaccamento e conseguentemente peculiari stili di funzionamento cognitivo e comportamentale. 

Le fragilità dei meccanismi della memoria, dunque, è sempre attiva e soggetta alla debolezza endemica della consapevolezza emergente, in un costante rimescolamento di episodi narrativi, atti percettivi e attentivi, meccanismi di accesso alle informazioni e processi di pertinenza delle funzioni esecutive. Tale sistema di funzionamento sinergico, a livello cerebrale presenta un’interfaccia complessa, dove network neuronali inibisco o attivano elaborazioni in modo non sempre funzionale alla precisione di un racconto, in una perpetua oscillazione tra elementi linguistici e mnemonici che continuano a contaminarsi vicendevolmente.

A livello anatomico, si ipotizza che l’influenza reciproca tra linguaggio e memoria sia avvalorata dall’attivazione condivisa dell’ippocampo (Pu et al., 2020). Tale struttura è verosimilmente coinvolta nei complessi processi di previsione e simulazione di eventi futuri, nonché nei compiti di rievocazione delle informazioni processate preventivamente durante precedenti esperienze (Schacter et al., 2012). Questa sembra occupare una posizione funzionale all’interno del network operativo che sostiene la memoria semantica (Duff et al., 2019 ; Manns et al., 2003 , Pu et al., 2020), un articolato sistema di conoscenze che attraverso la progressiva sedimentazione di esperienze si emancipa dalla dimensione episodica e non è più soggetto a coordinate “spazio-temporali” (Papagno, 2008). Tulving (1972) per primo definisce la conoscenza semantica come la “memoria necessaria al linguaggio” che organizza le conoscenze secondo una classificazione lessicale di tipo categoriale. Tale organizzazione, sebbene sia svincolata dalla dimensione temporale,  prevede costanti aggiornamenti in funzione delle nuove esperienze: l’integrazione flessibile delle nuove informazioni, che prevede l’attivazione ippocampale, avviene grazie all’interazione circolare di un apparato di ingranaggi che vede coinvolti memoria episodica (ancorata alla dimensione spazio-temporale dell’esperienza personale), memoria semantica e linguaggio (Klooster, 2016).    Le intricate relazioni, osservate a livello sperimentale e clinico, tra i fenomeni di ordine linguistico e le declinazioni semantiche ed episodiche del sistema mnemonico, non suggeriscono solamente l’idea di un rapporto deterministico tra memoria e linguaggio, basato su relazioni biunivoche di causa-effetto, ma lasciano intendere piuttosto l’esistenza di un meccanismo neurofisiologico condiviso (Pu et al., 2020)  che sancisce anche dal punto di vista anatomo-funzionale la permeabilità tra linguaggio e memoria (Covington & Duff, 2016). Da un differente vertice teorico, studi neuropsicologici che contemplano analisi differenziali sul funzionamento cognitivo di soggetti che presentano lesioni cerebrali, suggeriscono l’ipotesi che l'ippocampo occupi un ruolo centrale nei processi cognitivi che supportano l’uso e l’elaborazione online del linguaggio (Duff & Brown-Schmidt, 2012). In particolare l'accoppiamento transitorio tra l'ippocampo e il giro temporale superiore (STG) sinistro, durante l’attivazione dei processi di comprensione, può fornire un importante canale che collega la memoria semantica e i sistemi linguistici per la comunicazione, regolando  l’integrazione online di più fonti di informazione (Duff & Brown-Schmidt, 2012; Piai et al., 2016; Pu et al., 2020): un meccanismo necessario alla generazione del significato di una frase in entrata che verosimilmente sembra essere coinvolto anche nei processi di produzione linguistica (Binder, 2015). Man mano che una frase si dispiega nel tempo, il nostro cervello predice le parole imminenti in base al contesto e alla conoscenza esistente, quindi codifica la parola in arrivo, ne recupera il significato e lo integra nella rappresentazione complessiva (Mantegna et al., 2019; Piai et al., 2016, Pu et al., 2020). Le stesse parole dunque in questo gioco previsionale possono distorcere il ricordo di un evento per la loro forza intrinseca che attiva a livello della memoria semantica schemi prevalenti in grado di operare influenze sulla memoria episodica, modificando addirittura stime numeriche.

A tal proposito alcuni studi hanno dimostrato che domande fuorvianti poste ai testimoni - in alcuni casi, una settimana dopo la codifica - possono distorcere le loro stime numeriche della durata dell'evento o della velocità di un oggetto. Più specificamente, la durata di un evento o la velocità di un oggetto in movimento sono riportate come più lunghe o più veloci, rispettivamente, a seconda dei verbi utilizzati: camminare vs correre  (Burt & Popple, 1996) oppure colpire vs schiantarsi (Loftus & Palmer, 1974). La scelta lessicale nella richiesta di informazioni riguardo un evento può addirittura decretare la presenza di “falsi ricordi” nella rievocazione degli scenari osservati: testimoni interrogati in un contesto sperimentale (Loftus & Palmer, 1974), a una settimana di distanza, riportavano  il ricordo di vetri rotti in riferimento a  scene osservate di incidenti automobilistici, quando la richiesta di rievocazione conteneva termini che potevano fungere da trigger rispetto al dettaglio da evocare, sebbene tale dettaglio non fosse presente nella scena.  Loftus (2005) descrive la complicata relazione tra esposizione a informazioni fuorvianti e accesso e recupero dei contenuti di pertinenza della memoria episodica. Risultano di particolare interesse due fenomeni riportati dall’autore: da un lato l’effetto inibitorio delle informazioni fuorvianti sulla rievocazione di dettagli relativi alla memoria originale e dall’altro la possibilità di stimolare attraverso ripetute interviste la rievocazione di pattern progressivamente più densi di dettagli riferiti a falsi ricordi preventivamente indotti (Loftus, 2005).  Nonostante la natura di questi fenomeni interferenti risulti controversa dal punto di vista funzionale e relativamente ai meccanismi che ne supportano la realizzazione, la loro occorrenza sostiene l’importanza di una riflessione metodica e articolata sulle potenziali influenze del linguaggio al momento del recupero, in particolare quando si raccolgono informazioni rilevanti per la durata di un evento (Wang & Gennari, 2019).     

In sintesi, concetti linguistici, che attivano una serie di informazioni elaborate al livello della memoria semantica, sono combinati con altre informazioni processate a livello della memoria episodica, dando origine a ibridi rappresentazioni di eventi.

Queste costruzioni ibride possono essere influenzate anche da fattori legati al tipo di interazione che si sta verificando, alle aspettative, alle attese e soprattutto al giudizio altrui e alle conseguenze che tale giudizio può generare. Infatti molto frequentemente capita che la sola convocazione legata ad una testimonianza generi in molti soggetti con problemi di autostima fantasmi di punizione legati ad un giudizio negativo sulla propria persona.

Pasupathi et al. (1998) hanno evidenziato come il tipo di “reattività”, ovvero il livello di attenzione mostrato da parte degli ascoltatori durante la condivisione di un ricordo possa influenzare il modo in cui il ricordo viene comunicato e conseguentemente la memoria stessa dell’evento riferito: il processo di rievocazione viene proiettato in un campo di perturbazioni di ordine sociale che ne determinano la qualità, sia in termini di contenuti che relativamente agli aspetti formali. 

In quest’ottica, le interazioni conversazionali giocano un ruolo determinante nella definizione e ri-costruzione di una memoria individuale (Hope & Gabbert, 2019) addirittura decretandone i contenuti. Inoltre, le modificazioni indotte dalla conversazione hanno maggiori possibilità di essere mantenute e rievocate successivamente rispetto alla memoria originale (Rechdan et al., 2016) come un effetto di “trascinamento” dei contenuti che partendo dal contesto conversazionale attraversa la memoria semantica e penetra quella episodica, in accordo con i meccanismi di interferenza descritti precedentemente (vedi sopra). 

Thorley and Rushton-Woods (2013) hanno  evidenziato come la presenza di co-testimoni possa modificare significativamente le attribuzioni di colpa rispetto a un evento osservato (nella fattispecie un incidente simulato tra due automobili). Le attribuzioni sostenute dai soggetti che hanno partecipato all’esperimento tendevano a conformarsi a quelle del co-testimone che pertanto ne orientava il giudizio a prescindere dal fatto che l’evento fosse stato osservato direttamente.  Nel dettaglio, nel caso di una dichiarazione di colpa da parte del testimone, circa il 37% dei soggetti allineava il proprio giudizio a quello riportato; al contrario, in assenza di una dichiarazione, meno del 4% dei soggetti effettuava un’attribuzione di colpa (Thorley and Rushton-Woods, 2013 come citati in Hope & Gabbert, 2019).    

La letteratura, dunque, sembra seguire un trend che nella sua sintesi significa una sostanziale labilità della memoria permeata dalle intrusioni del linguaggio e dell’intersoggettività. Dunque, nella misura in cui un soggetto prova a ricostruire una scena, qualcosa che ha visto, la dimensione verbale, il racconto stesso può modificare gli eventi in modo implicito anche quando non vi è intenzione di mentire. Diverso è il discorso quando è lo stesso testimone a costruire scientemente una menzogna. 

Ganis et al. (2003) sostengono in prima battuta che i  modelli di attivazione cerebrale sottesi all’azione di mentire siano differenti da quelli che si attivano quando si dice la verità.  Inoltre, suggeriscono che l’alterazione volontaria di una narrazione non rappresenti un processo univoco, ma includa piuttosto una classe eterogenea di fenomeni che rispondono a differenti network anatomo-funzionali sulla base delle funzioni cognitive coinvolte.

Gli autori, attraverso un sistema ortogonale a due dimensioni, individuano quattro tipologie di menzogne: da un lato operano una differenziazione tra bugie isolate e bugie inserite in un contesto coerente e dall’altro distinguono le bugie memorizzate precedentemente da quelle spontanee (vedi fig. 1).                    

Figura 1. Rappresentazione grafica del modello di Ganis et al (2003). 
Legenda: MS (Menzogna coerente con un contesto e precedentemente memorizzata);
SS (Menzogna coerente con un contesto e spontanea);
MI (Menzogna isolata e precedentemente memorizzata);
SI (Menzogna isolata e spontanea).

L’architettura del modello di Ganis et al. (2013) permette di combinare a coppie le polarità delle dimensioni prese in considerazione e conseguentemente di individuare quattro sotto-tipi di menzogne: coerenti con un contesto e precedentemente memorizzate (MS); coerenti con un contesto e spontanee (SS); isolate e precedentemente memorizzate (MI); isolate e spontanee (SI).  

La generazione di vari tipi di bugie coinvolge diverse combinazioni di processi cognitivi di uso generale che richiedono pattern neurali differenti (Ganis et al., 2003). Per esempio, le menzogne isolate e spontanee (SI), al fine di essere sostenute in maniera coerente e plausibile con la narrazione generale senza l’aiuto di un contesto che possa guidare l’informazione, richiedono un coinvolgimento sinergico e massiccio di più funzioni cognitive (attenzione, memoria, funzioni esecutive). Questo tipo di menzogne pertanto, prevedono l’attivazione di network anatomo-funzionali più articolati rispetto alla descrizione veritiera di un evento, ma anche rispetto a menzogne che sono incorporate in uno scenario coerente precedentemente memorizzato. Infatti ricostruire qualcosa che non si è mai verificato (e non la semplice modifica di un accadimento reale) richiede l’accesso ai circuiti della memoria semantica, la codifica della memoria episodica nonché l’attivazione della formazione ippocampale, para-ippocampale (giro fusiforme), il giro frontale medio superiore, la corteccia prefrontale anteriore, il precuneo e anche il cervelletto. Ancora, l’intervento della working memory nel sostegno dei processi online prevede l’attivazione della corteccia prefrontale dorso-laterale. Infine, il coinvolgimento delle funzioni esecutive nei meccanismi di inibizione (delle informazioni reali) e nel monitoraggio dei conflitti si riflette nell’attivazione del cingolato anteriore (Ganis et al., 2003). Ovviamente il quadro diventa ancora più complesso nel momento in cui, nei tentativi di classificazione delle menzogne, si includano fattori come il coinvolgimento emotivo, aspetti relazionali o ancora questioni di tipo etico.  Risulta dunque fondamentale approfondire l’analisi funzionale dei processi cognitivi coinvolti nelle dinamiche di falsificazione consapevole della verità, considerando che la strutturale permeabilità tra memoria e linguaggio, complica significativamente i meccanismi di acquisizione di informazioni coerenti o plausibili o reali, nell’ambito della testimonianza (anche quando non sussiste l’intenzione di mentire). Possedere una mappa, seppure parziale e provvisoria, dei meccanismi neurofisiologici e cognitivi che supportano specifici comportamenti comunicativi diventa un’area futura di indagine plausibile per definire strategie operative adeguate e attendibili nel momento in cui si debbano acquisire dichiarazioni riportate da testimoni. Al momento, tuttavia, sembra più realistico concentrarsi sui meccanismi che possono rendere la testimonianza il più possibile aderente ai fatti originari osservati. In tal caso tutto l’assetto neuropsicologico derivato dagli studi con la Risonanza Magnetica Funzionale assumono importanza nell’ottica di costruire metodologie che consentano all’encefalo di economizzare il dispendio di energie a favore di un recupero mnesico sempre più preciso.     

Si ipotizza che fornire un contesto il più possibile aderente a quello reale (in cui il fatto si è verificato), dentro cui possa essere effettuata una testimonianza e che permetta al soggetto di ricostruire l’accaduto sequenziandolo «in blocchi», da un lato consentirebbe al soggetto che non vuole mentire di ricordare con più precisione la verità e dall’altro indurrebbe colui che vuole mentire a cadere più facilmente in contraddizione.

Secondo la teoria della segmentazione (Zacks et al., 2001; Zacks & Swallow, 2007), gli eventi in corso (che non sono sottoposti a interruzioni o distorsioni) vengono percepiti ed elaborati attraverso una suddivisione in componenti distinte, significative rispetto ai contenuti e allo svolgimento della scena. La segmentazione avviene automaticamente secondo un’organizzazione gerarchica delle parti (Zacks et al., 2001) e dipende da due tipi di elaborazione che agiscono simultaneamente (Zacks & Swallow, 2007): un processamento “bottom-up” basato sulle informazioni sensoriali (es. movimento all’interno di una scena) e un processamento “top-down” basato sulle caratteristiche concettuali (esempio intenzioni o finalità degli attori che animano la scena).  La modalità in cui viene segmentato un evento influenza la successiva rievocazione dello stesso, determinando le guide e i parametri che ne organizzano l’acquisizione e l’apprendimento. Pertanto più sarà adeguata la segmentazione messa in atto (in termini di coerenza con l’avvicendamento dei fatti) maggiore sarà la possibilità di rievocare con precisione l’evento (Zacks & Swallow, 2007).  

L’identificazione dei punti di confine tra un segmento e l’altro di una scena, avviene, in condizioni ottimali, rispettando una coerenza sintattica tra le parti e secondo principi di omogeneità semantica all’interno delle singole sezioni riconosciute:  le posizioni, i movimenti, gli obiettivi o le intenzioni degli attori possono rappresentare momenti distintivi (anche dal punto di vista dell’attivazione neuronale) per fissare i limiti segmentali all’interno della scena (Hard et al., 2006;  Newtson et al., 1977;  Speer et al., 2007;   Jeffrey M. Zacks et al., 2009 come citati in Maras et al., 2020). 

Dal punto di vista neuropsicologico (e della correlata attivazione neurofisiologica), una «suddivisione in blocchi » adeguata verosimilmente potrebbe ottimizzare l’attivazione della memoria di lavoro e pertanto rendere più agevoli i processi di apprendimento (ovvero di sistemazione  delle informazioni nella memoria a lungo termine) e della successiva rievocazione (Ongchoco & Scholl, 2019; J. M. Zacks et al., 2001). 

La traduzione in termini operativi dei riferimenti teorici relativi alla teoria della segmentazione si riflette in uno studio sperimentale (Maras et al., 2020) che vede coinvolti due gruppi di partecipanti: persone adulte con una diagnosi riferita ai disturbi dello spettro autistico e  persone adulte con sviluppo normo-tipico. Nel lavoro vengono illustrati i vantaggi correlati all’utilizzo di una specifica tecnica (W.A.F.A.: Witness-Aimed First Account) finalizzata a ottimizzare il recupero delle informazioni durante le interviste di testimoni (sia autistici che normo-tipici). Al fine di valutarne l’efficacia, i soggetti che hanno preso parte alla ricerca sono stati sottoposti anche a una seconda intervista di controllo, sempre finalizzata a raccogliere le testimonianze rispetto alle scene osservate in video. 

Per gli scopi dello studio sono stati realizzati due video, ciascuno della durata di circa 1 minuto e 40 secondi: uno raffigurava un furto di una borsetta in un parcheggio e l'altro una rissa in un bar.

Sono state create due versioni dei filmati: una con una narrazione "non criptata" (intatta) e l'altra con una narrazione "criptata" in cui la sequenza narrativa (storia) è stata interrotta senza rispettarne la coerenza semantica e sintattica (ovvero senza rispettare le regole di un’adeguata segmentazione). 

Ciascun partecipante, dopo aver osservato i due tipi di filmati, è stato quindi sottoposto alle due interviste finalizzate al richiamo dei contenuti presenti nelle scene. L’intervista di controllo prevedeva la rievocazione libera e ininterrotta degli eventi. L’intervista sperimentale, con la tecnica W.A.F.A., prevedeva la rievocazione di eventi secondo l’auto-segmentazione gerarchica delle informazioni: ogni volta che un soggetto riportava un evento della sequenza, questo veniva annotato su un post-it e affisso sulla parete in modo che fosse visibile sia all’intervistatore che all’intervistato (vedi figura 2). Quando il soggetto aveva esaurito la serie di eventi che componevano la scena poteva ritornare su ciascuno di questi e fornire ulteriori dettagli/spiegazioni appoggiandosi sui post-it prodotti precedentemente.

 

      

Figura 2. Esempio di auto-segmentazione del richiamo da parte di un partecipante nella fase 1 della condizione di intervista WAFA.
Ristampato da: The witness-aimed first account (wafa): A new technique for interviewing autistic witnesses and victims. (1449–1467), Maras et al., 2020, Autism.  © The Author(s) 2020

 

Lo studio, con un disegno di ricerca molto ordinato, ha permesso di effettuare differenti tipi di analisi al fine di ottenere un sistema articolato di informazioni che permettesse di operare valutazioni attendibili sui risultati emersi. Sono state dunque confrontate: le prestazioni dei soggetti autistici con quelle dei soggetti di controllo; le rievocazioni dei filmati interi con quelle dei filmati frammentati (senza logica narrativa) e infine, i resoconti ottenuti dalle interviste di controllo con quelle ottenute dalle interviste che si avvalevano della tecnica W.A.F.A.

In generale le prestazioni mostrate dal gruppo di controllo risultano migliori rispetto a quelle dei soggetti autistici. Dai dati raccolti emerge altresì una migliore rievocazione delle storie rappresentate nei filmati interi rispetto a quelli frammentati (senza coerenza narrativa) per entrambi i gruppi di ricerca. 

Relativamente al confronto tra i due tipi di interviste effettuate si evince una maggiore efficacia delle interviste che si avvalgono della tecnica W.A.F.A. rispetto a quelle di controllo, sia per i soggetti autistici che per i soggetti normo-tipici, in entrambe le condizioni sperimentali (video interi vs. video frammentati): le migliori performance riguardano da un lato il numero di informazioni corrette riportate (vedi Figura 3), dall’altro l’accuratezza dei dettagli descritti (vedi Figura 4). 

      

Figura 3. Dettagli corretti richiamati per narrazioni video codificate e non codificate da gruppi autistici e TD nelle interviste WAFA e di controllo (con barre di errore di confidenza del 95%).
Ristampato da: The witness-aimed first account (wafa): A new technique for interviewing autistic witnesses and victims. (1449–1467), Maras et al., 2020, Autism.  © The Author(s) 2020

 

      

Figura 4. Accuratezza del richiamo di video codificati e non codificati da parte di gruppi autistici e TD nelle interviste WAFA e di controllo (con barre di errore di confidenza del 95%).
Ristampato da: The witness-aimed first account (wafa): A new technique for interviewing autistic witnesses and victims. (1449–1467), Maras et al., 2020, Autism.  © The Author(s) 2020

 

L’interpretazione dei risultati emersi prevede una serie di riflessioni che muovono da differenti vertici teorici e disciplinari. Nel corso del presente lavoro è stato sottolineato più volte come variabili ambientali  e relazionali possano impattare sulle rievocazioni di testimoni talvolta modificandone i contenuti o addirittura sovvertendone la direzione narrativa: la tecnica W.A.F.A., ancorando la rievocazione ai “blocchi tematici” (che vengono immediatamente riportati sui post-it) verosimilmente riduce l’interferenza di questi fattori creando un solco narrativo centrato sulla traccia di informazioni individuata dal testimone stesso (Maras et al., 2020). Una ricostruzione a blocchi degli eventi (autogenerata) attiva processi cognitivi legati alla ricostruzione dell’evento senza il coinvolgimento dei processi sottostanti all’intersoggettività che rendono la ricostruzione manipolabile. 

Da un punto di vista neuropsicologico, il principio di segmentazione degli eventi riduce sensibilmente il coinvolgimento della working memory e delle funzioni esecutive nei processi di monitoraggio e reiterazione della complessa rete di informazioni organizzate secondo un’architettura gerarchica. Sgravare il testimone da un tale “impegno cognitivo” consente di ottimizzare l’utilizzo delle risorse sui processi di memoria a lungo termine attenuando gli errori e migliorando il recupero successivo dei dettagli: l’utilizzo di note post-it come pro-memoria visivo permette di generare una rappresentazione esterna dell’avvicendamento globale degli eventi che pertanto non ha bisogno di essere ripristinata costantemente. Dal punto di vista esecutivo la possibilità di orientare l’attenzione e le procedure di rievocazione sulle singole sezioni individuate evita un sovraccarico delle risorse cognitive che possono dunque essere spese in favore di un processo di recupero più dettagliato e accurato (Maister et al., 2013) . 

L’utilizzo di nuove tecnologie come la realtà virtuale potrebbe essere utile per ricostruire blocchi auto-generati dell’evento che aiuterebbero a rimanere ancorati visivamente agli elementi della scena nell’assunzione della prova diminuendo l’impatto dell’intersoggettività linguistica. 

 

 

Bibliografia

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Barnier, A., Hung, L., & Conway, M. (2004). Retrieval‐induced forgetting of emotional and unemotional autobiographical memories. Cognition & Emotion, 18(4), 457–477. https://doi.org/10.1080/0269993034000392

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¹ Laboratorio Sperimentale Afasia, Torino

² Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Torino

³ Tribunale di Torino

11/07/2023
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