Magistratura democratica
Magistratura e società

“Il manicomio dei bambini. Storie di istituzionalizzazione”

di Paola Perrone
Già Presidente di Sezione della Corte di appello di Torino
Nel libro di Alberto Gaino (Edizioni Gruppo Abele) rivive la triste realtà dei reparti medico-pedagogici in cui erano rinchiusi, fino agli anni '70, i bambini dai tre anni in su colpevoli di tenere comportamenti irregolari. L'intento ricostruttivo si associa alla riflessione, più ampia ed ancora attuale, sui pericoli del mancato intervento sulle situazioni di disagio e di fragilità sociale
“Il manicomio dei bambini. Storie di istituzionalizzazione”

L’obiettivo di questo libro non è solo quello di ricostruire una realtà che non c’è più, quella dei reparti medico-pedagogici che fino agli anni ‘70 in Italia hanno accolto, segregato e vessato migliaia di bambini dai tre anni in su, rei di tenere un comportamento irregolare rispetto alla normalità che da loro si pretendeva.    

Alberto Gaino, già giornalista de La Stampa e di Stampa Sera, ha iniziato a scriverlo nel 2014 ed è riuscito a completarlo, giunto alla pensione, con scopi diversi e di maggior respiro: uno è quello di offrire al lettore (che sia specializzato nella cura dei bambini con problemi mentali, o sia semplice cittadino sensibile alla tutela dei diritti dei più deboli della società) strumenti per interpretare la realtà attuale in cui affiorano inediti germi di disagio mentale nelle giovani generazioni; in questo senso, questo lavoro appare prezioso nelle sue accurate ricostruzioni storiche, indispensabili per un’attenta interpretazione della realtà che riguarda il mondo occidentale oggi; a questo obiettivo se ne aggiunge un altro, che è quello di mettere in guardia tutti, partendo da fatti avvenuti in un passato neppure troppo remoto, dal pericolo che istituzioni nate per la salvaguardia di soggetti deboli, se lasciate senza controllo, possano diventare ancora oggi luoghi di sopraffazione.   

Gaino spiega bene come e perchè sia stato attratto da una materia tanto bruciante: da bambino si era imbattuto nel piccolo centro dove abitava in persone che si comportavano diversamente dalla normalità che gli veniva insegnata in famiglia e che perciò lo attraevano e spaventavano; dall’infanzia alla giovinezza questa paura del diverso si tramuta in interesse civico e morale per le sciagurate sorti di quelle persone e lo porta a raccogliere progressivamente materiale (fra tutti, La fabbrica della follia, Relazione sul manicomio di Torino, Einaudi, 1971), lo spinge poi in qualità di giornalista alla consultazione degli scarni archivi di quei manicomi, per poi approdare alla ricerca mirata su quel vero lager che fu Villa Azzurra di Grugliasco, in provincia di Torino, reparto medico pedagogico sottoposto alla vigilanza della Provincia di Torino e che era destinato al ricovero dei minori fino agli anni 14; il suo interesse per questa realtà palpitante  lo spinge infine a intervistare direttamente alcuni degli operatori che vi lavorarono e anche alcuni di quegli internati, diventati adulti.

L’analisi accurata delle cartelle cliniche dei ricoverati (tanto parche di informazioni sulle loro condizioni di salute e sulle misure terapeutiche adottate, quanto invece dettagliate per tutti gli avvenimenti che riguardavano la violazione della disciplina da parte dei bambini) permette di ricostruire le vite di vari piccoli passati per Villa Azzurra e di riempire di contenuto concreto e sconvolgente il racconto già noto di quella istituzione. Grazie alla denuncia di associazioni di familiari e di psichiatri non allineati, fin dagli anni ‘60 si incominciarono a conoscere le condizioni in cui vegetavano e venivano sottoposti a vere torture i ricoverati di Villa Azzurra; più tardi, giornalisti e fotografi riuscirono a documentarle sulle pagine di giornali nazionali: la svolta avvenne il 26 luglio del '70 quando L’Espresso pubblicò l’immagine di una bimba molto piccola, legata al letto come crocifissa.

Da quelle denunce nacque un processo celebrato per maltrattamenti a carico del direttore Giorgio Coda, accusato di essere arrivato ad usare l’elettroshock nei confronti dei piccoli con scopi punitivi e di correzione. In primo grado sfilarono davanti al Tribunale di Torino alcuni dei ricoverati e il direttore elettricista Coda venne condannato alla pena di cinque anni, pesantemente riformata in appello per prescrizione. Quel processo e le condizioni degli internati sono ben presenti a tutti noi perché formano una parte indimenticabile del bel film di Marco Tullio Giordana La meglio gioventù (2003).

Il merito del libro di Gaino sta nel dare corpo e concretezza allo scenario già noto, facendo parlare attraverso le cartelle cliniche o i loro racconti quei piccoli ricoverati; e nel mettere documentatamente a fuoco la loro precisa provenienza, perché essi erano spesso figli di famiglie di origine meridionale giunte a Torino per il boom industriale.

Fra le varie storie, tutte veri atti d’accusa per i direttori della struttura ma anche per la Provincia titolare del potere di controllo e per l’intera società sostanzialmente adesiva all’obiettivo di segregare il diverso, spicca quella di Albertino, bambino di viva intelligenza che si ribellò alle metodiche di legatura contenitiva e ai sedativi di Coda e, non senza resistenze da parte della struttura, fu alla fine affidato ad una famiglia. Questa di Albertino è figura di grande interesse: presentatosi come testimone d’accusa nel processo a Coda, mantenne in tutto il corso della sua breve vita un atteggiamento antagonista, entrando in Lotta continua torinese negli anni ‘70; lo ricorda con evidente affetto Luca Rastello nel suo bellissimo romanzo autobiografico Piove all’insù del 2006, descrivendolo proprio mentre racconta ai compagni la sua storia di torture a Villa Azzurra e parla loro di quelle subite da dissidenti politici in Argentina e Cile attraverso la legatura a letti di contenzione.                         

Il libro di Gaino ci avverte che scandali come Villa Azzurra non sono isolati né relegati al passato. Proprio all’indomani della chiusura dei reparti medico-pedagogici segregativi, nel 1977, nasce in provincia di Firenze la comunità agricola Il Forteto, a cui, nel corso dei decenni, vengono affidati dal Tribunale dei minori, dai Servizi sociali e di salute mentale molti bambini con vari handicap. Il fondatore, Rodolfo Fiesoli, verrà condannato nel 1985 e nel 2015 sotto le imputazioni di atti di libidine e violenza sessuale, violenza privata e maltrattamenti in danno dei giovani affidati alle sue cure.

La fonte privilegiata analizzata questa volta da Gaino è la sentenza emessa il 17 giugno del 2015 dal Tribunale di Firenze, dove si ricostruisce che il tratto più innovativo impresso all’istituzione dal direttore Fiesoli è la cura alla propria immagine, presentata come profetica nelle varie pubblicazioni, in rete e nei convegni di livello organizzati ad hoc. Solo grazie alla costruzione di questa immagine carismatica da guru, ottenuta attraverso una vera manipolazione del reale, la struttura ha potuto continuare a funzionare indisturbata per trent’anni senza che nessuno mettesse in discussione cosa avveniva davvero all’interno delle sue mura. Vi si tenevano processi inquisitori nei confronti dei ragazzi accusati di deviazioni sessuali rispetto alla regola dettata dalla comunità, che era di rigida separazione fra i due generi, con imposizione della confessione pubblica anche per semplici fantasie sessuali; chi non intendeva aderire alla confessione, si vedeva punito con l’interruzione di qualunque comunicazione e con l’abbandono affettivo da parte degli altri, castigo avvertito come inaccettabile da chi era del tutto privo di punti di riferimenti e risorse esterni alla comunità. Il risultato era il totale dominio sulle coscienze dei giovani.

Gaino fa notare come in qualunque istituzione in cui un soggetto sia dotato di autorità nei confronti di altri più deboli, se non siano previsti e siano effettivamente esercitati poteri di controllo autonomi sulle concrete modalità di attuazione di tali poteri, è estremamente probabile che si scivoli verso la sopraffazione.

Ma il merito maggiore del libro di Gaino sta nel far toccare con mano al lettore come questi rischi si annidino a volte anche nelle situazioni più insospettabili: la madre di un piccolissimo figlio irrequieto era solita lasciarlo solo in casa legato ad un termosifone o ad un balcone per molte ore, prima di decidere di internarlo a Villa Azzurra; un valoroso e sensibile magistrato minorile come Paolo Vercellone, in una antica conversazione avuta con Gaino, si disse pentito per aver preso in passato decisioni restrittive nei confronti di minori per proteggerli da se stessi.

Come a dire che l’amore materno e anche la grande sensibilità per le condizioni dei più deboli non sempre costituiscono argine rispetto a cortocircuiti securitari.

Solo la trasparenza delle realtà, il confronto libero fra più autorità e la ragionata condivisione delle decisioni sembrano, a giudizio di Gaino, in grado di fronteggiare tali rischi.

Uno sguardo attento poi all’attualità: Gaino rintraccia negli hikikomori, giovani ripiegati su se stessi che vivono solo di relazioni web chiusi nella loro camera, i nuovi minori a rischio di gravi turbe mentali; così come si interroga sulle condizioni psicologiche ed esistenziali dei tanti minorenni non accompagnati che giungono traumatizzati in Italia dalle migrazioni in atto.

Sono queste le nuove frontiere in cui si sente la necessità oggi di un intervento illuminato e personalizzato da parte dello Stato.

Il libro esce nel 2017, anno in cui trova faticosa e piena attuazione un’altra legge italiana, la n. 81 del 2014, che, decretando il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, chiude il cerchio ideale iniziato dalla riforma Basaglia.

Senza mai dimenticare che la gestione della malattia mentale non si risolve certo con la semplice adozione di testi normativi, piace però pensare che davvero un’era di segregazioni securitarie sia definitivamente passata.

25/02/2017
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