Il Diritto di famiglia è necessariamente un compromesso: perché è difficile introdurre regole certamente giuste per governare e disciplinare una materia delicata, come quella dei rapporti genitoriali, nel momento in cui la famiglia si disgrega.
L’approccio giurisdizionale al tema della risoluzione giudiziale del conflitto familiare dovrebbe, allora, muovere da una prospettiva diversa: ricercare, prima di decidere, l’accordo dei genitori, la condivisione di una soluzione del problema. Le norme, in realtà, ciò già prevedono, nella misura in cui impongono al giudice di tenere conto degli accordi raggiunti dai partners (v. art. 337-ter c.c.) e di promuovere una conciliazione (art. 185-bis c.p.c.), eventualmente mediante l’intervento dei mediatori familiari (337-octies c.c.) o civili (d.lgs. 28/2010).
Seguendo questa direttrice, il procedimento si spoglia della sua corteccia dura e indossa dei tessuti di comunicazione più morbidi, in cui il giudice non è solo colui che deve decidere dall’alto ma anche colui che può suggerire «tra pari», ma in modo autorevole.
Il processo non è, insomma, il terreno di battaglia in cui distruggere il vecchio rapporto ma l’ambiente in cui creare, inventare, nuovi legami, attingendo al “buono” che c’era in quelli terminati. E questo dovrebbe essere un imperativo: si può smettere di essere moglie e marito ma non si può smettere di essere padre e madre.E, allora, l’interesse preminente dei figli resta la bussola che deve orientare le decisioni.
Queste coordinate hanno orientato la Sezione IX del Tribunale di Milano nell’introdurre il cd. rito partecipativo: un rito in cui alla decisione partecipativo tutti gli interlocutori. Il giudice, gli avvocati: ma soprattutto i genitori. Il suo funzionamento è semplice.
Al termine della relazione affettiva, il genitore presenta la sua domanda contro il partner. Il Tribunale, disposto lo scambio delle difese, valuta se sussistono ostacoli a una fase conciliativa: ad esempio patologie, violenze domestiche, limitazioni alla genitorialità preesistenti.
In assenza di elementi ostativi a un percorso di conciliazione e mediazione, il Tribunale fissa una udienza “filtro” in cui invita i genitori a comparire dinanzi a un giudice delegato, per verificare la possibilità di una soluzione condivisa.
Il rito partecipativo muove da una “idea positiva” delle persone, viste come possibili risorse a cui attingere piuttosto che come litiganti cui somministrare una decisione. Il giudice delegato è un magistrato onorario, proveniente dalle fila degli avvocati esperti in diritto di famiglia, con una specializzazione in conflitti familiari o tecniche di mediazione. E’, quindi, un giurista esperto nelle dinamiche conflittuali. Collabora con gli avvocati delle parti che, in questa fase, non sono visti come meri titolari dell’interesse parziale oggetto del processo ma come «garanti del cittadino per l'effettività della tutela dei diritti» (art. 2, comma II, legge 31 dicembre 2012 n. 247).
Il rito partecipativo, insomma, nasce da una idea positiva: qualcosa che si dimentica spesso, è che la positività è contagiosa. Se si parte con una idea che riconosce nell’altro una possibile risorsa, quell’altro diverrà una possibile risorsa. Da questa visuale, al sistema Giustizia viene assegnato anche il compito di ricordare ai genitori in lite che “sono genitori”; di invitare i genitori a essere (o diventare) il modello di genitori a cui i figli hanno diritto. In questo, il rito partecipativo è trattare i genitori per quello che possono diventare.
E, sul punto, sia consentito parafrasare Goethe: «trattate un essere umano per quello che è e rimarrà quello che è. Trattate un essere umano per quello che può e deve essere, e diventerà quello che può e deve essere».
Per completa illustrazione del rito partecipativo e delle sue possibilità di espansione e adattamento si pubblicano:
2) La dispensa - guida per l'udienza filtro;
3) Due MODELLI di provvedimenti per il rito;
5) Statistica del rito partecipativo nel 2013