Lo sciopero nazionale dei magistrati onorari in corso in questi giorni, unitamente alle proposte di riforma organica diramate recentemente dal ministero della Giustizia rappresentano, finalmente, una sicura ed irreversibile svolta nella lunga ed inconcludente storia dell’art. 245 D.Lgs n. 51 del 1998, la cui mancata attuazione (nel senso di un necessario complessivo riordino del settore) dura ormai clamorosamente da ben undici anni!
Entrambi gli eventi costituiscono, da un lato, un punto di non ritorno nella presa di coscienza dell’insostenibilità della situazione venutasi a creare negli uffici, con il consolidamento – come da tempo denunciato - di una vasta “sacca di precariato” in continua espansione numerica, priva di serie garanzie lavorative, sottopagata, mal reclutata e mal disciplinata a livello normativo primario e secondario , ed al contempo risorsa sempre più preziosa ed indispensabile per il funzionamento quotidiano della giurisdizione; e dall’altro, scendendo più nell’esame dettagliato delle proposte ministeriali, il segno che la prospettiva di riforma organica del settore sia diventata una buona volta davvero concreta.
Le tre direttrici fondamentali della proposta appaiono certamente condivisibili, rappresentando un equilibrato punto di convergenza delle tante spinte ed esigenze che nel tempo si sono concentrate attorno alla questione : la creazione di uno statuto unico della magistratura onoraria, la riorganizzazione dell’ufficio del giudice di pace e la rideterminazione del ruolo e funzioni dei GOT e VPO. E tutto questo affrontando, finalmente, con apposite norme transitorie, la questione preliminare e distinta di come risolvere il problema dei tantissimi magistrati onorari in servizio pluriprorogati.
Ricordo, sinteticamente, come da tempo si sia cercato, da parte di chi aveva a cuore la soluzione di questo nodo ordinamentale, (a cominciare da chi scrive nelle varie sedi in cui si è cimentato nella questione) di evidenziare, come necessari punti a monte da sciogliere, quanto meno quelli del rapporto in generale che auspichiamo tra magistratura professionale ed onoraria, del modo d’intendere l’onorarietà, dei modi di reclutamento accettabili che pensiamo di quest’ultima ed in particolare il rapporto che deve esserci con l’esercizio della professione forense (di “alterità” o di “cumulo controllato”?).
Fatte queste premesse, si individuavano poi tre profili decisivi di un’ipotetica riforma organica:
a) che si basasse su una logica di due tempi : una normativa transitoria che risolvesse l’odierna patologia creatasi e la riforma più generale in grado di disciplinare, a regime, un miglior assetto futuro di queste figure onorarie;
b) l’inserimento prioritario dei magistrati onorari di Tribunali e Procure nel c.d. “ufficio del processo” che sottintendeva un loro uso non più abbandonato alle logiche individualistiche dei singoli fortunati con lo “schiavetto” a disposizione, bensì al contrario l’inserimento controllato e più ampio dell’onorario, collocato tabellarmente a livello di sezione o di gruppo di lavoro o di settore, sotto la diretta responsabilità del Presidente di sezione o coordinatore del gruppo/settore ed al servizio della sezione stessa, strettamente collegato ai piani e programmi elaborati in sezione e affidato così di volta in volta ai giudici che richiedono motivatamente il suo intervento, per ragioni obiettive di servizio.
c) stop immediato all’indiscriminata assunzione di nuovi GOT e VPO, con parallela determinazione a livello normativo dell’organico complessivo della magistratura onoraria, con relative piante organiche per ogni ufficio.
L’esame delle proposte ministeriali alimenta, adesso, concrete speranze di una razionale e più che accettabile soluzione di tutte le questioni indicate.
Emerge innanzi tutto una filosofia di fondo (può piacere di più o di meno ma è, comunque, un progetto) rappresentata dall’ affiancare alla magistratura ordinaria un secondo unitario circuito di giurisdizione onoraria “semiprofessionale” caratterizzata da uno status preciso, incentrato pur sempre sulla sua temporaneità (anche se temporalmente dilatata) e da una sorta di sviluppo professionale interno che si snoda attraverso quattro fasi : un tirocinio iniziale, un’attività di collaborazione inserita nell’ufficio del processo; un’attività giudiziaria di supplenza ed affiancamento in Tribunale e Procura; un’attività giurisdizionale, infine, autonoma nell’ambito degli uffici del Giudice di pace.
Il progetto individua poi come serbatoio “prioritario” di reclutamento l’avvocatura e ciò appare scelta condivisibile, forse addirittura da rafforzare per l’accesso alle funzioni di GdP dove potrebbe prevedersi (in linea con risalenti rivendicazioni dell’avvocatura associata) l’esclusività del requisito dell’attività forense, inserita in ogni caso in un quadro di rigorose incompatibilità. Qui occorre, in altri termini, superare definitivamente certe idee che furono dietro all’introduzione del GdP con i suoi molteplici (e non sempre soddisfacenti, come l’esperienza ha insegnato) canali di reclutamento, e prendere atto una volta per tutte che la “tecnicità” del processo (anche quello davanti al GdP) richiede coerentemente una figura di giudice esclusivamente tecnica.
Individuate così con una certa chiarezza le direttrici della riforma, il progetto affronta poi, a mio avviso, correttamente due delle tre questioni di fondo prima indicate : sotto il profilo della normativa transitoria, garantisce agli attuali magistrati precari pluriprorogati di Tribunali e Procure un ulteriore periodo – ma definitivo – di permanenza di ben 12 anni (col limite in ogni caso dei 70 anni di età), termine che forse potrà apparire fin troppo lungo ma che ha il pregio di essere l’ultimo, significativo, eguale per tutti e ,si spera, non suscettibile di ripensamenti a favore di inaccettabili soluzioni alternative improntate a logiche di stabilizzazione o pasticciate, com’era quello proposta qualche tempo fa di introdurre per tali figure precarie un regime di proroghe “sine die” che costituiva un espediente surrettizio per introdurre di fatto la stabilità!
Da questo punto di vista, nel progetto ministeriale appare sicuramente ambigua e non accettabile la previsione che “per coloro che alla scadenza del terzo quadriennio non abbiano raggiunto il predetto limite massimo di età (id est : 70 anni), potrebbero ipotizzarsi il mantenimento in servizio nell’Ufficio del processo per un ulteriore periodo”.
Si tratta infatti di una disposizione che, in quanto applicabile pur come norma transitoria, a tutti i magistrati in servizio alla data della riforma, sembrerebbe garantire alla maggior parte di essi (che non raggiungeranno certo i 70 anni con l’ulteriore proroga di 12 anni) un periodo aggiuntivo, tra l’altro al momento non determinato, che rischia di compromettere l’esigenza stessa di separare la sorte degli attuali magistrati onorari che abbiano beneficiato di proroghe oltre i sei anni previsti dall’attuale normativa (art. 43 ter OG e art. 6 DM 7.7.1999), ai quali va assicurato un congruo (ma non interminabile) periodo per la loro uscita dall’ordine giudiziario, da quella dei nuovi reclutati sulla base della nuova organica disciplina.
Del tutto condivisibile risulta poi la scelta di inserire esclusivamente, nel primo quadriennio di attività, i nuovi magistrati onorari nella struttura dell’Ufficio del Processo , struttura di recente introdotta espressamente nell’ordinamento dalla riforma del PCT. La previsione sembra davvero delineare un percorso professionale del nuovo magistrato onorario che dovrebbe, quindi, prima “formarsi” in tale struttura ( e qui allora si potrebbero consentire accessi plurimi da diversi serbatoi di reclutamento ed un’età minima alquanto bassa) fornendo un ausilio di tipo collaborativo e non direttamente giurisdizionale , per poi cimentarsi in attività giudiziaria vera e propria, svolgendo quello che già oggi, sostanzialmente, svolgono dentro ai nostri uffici. Infine, nella terza fase di questa sorta di “carriera” onoraria, si potrà accedere alle funzioni di giudice di pace. Ecco allora che, entro un tale contesto, si giustifica la previsione nel progetto ministeriale della “differenziazione” dei compensi tra quanti esercitino funzioni giurisdizionali e quanti di supporto all’attività del magistrato professionale. Allo stesso modo si dovrebbero prevedere altre norme differenziate in punto età d’accesso (per cui non si potrebbe diventare giudice di pace prima di una certa età, ovviamente più elevata rispetto all’accesso a Tribunali e Procure) ed in punto attività professionale svolta all’esterno (per cui potrebbero diventare GdP non tutti i GOT o VPO ma solo quelli che, ad esempio, esercitino la professione forense da un certo numero di anni). Come è evidente su questi punti è necessaria ancora un’approfondita elaborazione di proposte.
Non sembra, viceversa, giustificarsi affatto, in questa riorganizzazione unitaria delle diverse figure onorarie, la previsione ministeriale secondo cui , nel corso della fase transitoria, “i giudici di pace potranno essere impiegati nell’ufficio per il processo esclusivamente previo loro consenso” , disposizione davvero bislacca di cui sfugge la ratio e che sembra davvero incrinare la linearità del percorso professionale che si è cercato di tratteggiare e che pare emergere dal progetto.
Da ultimo meritano un cenno due aspetti non certo secondari che non trovano, secondo me, adeguata soluzione nel progetto : il primo concerne la disciplina del compenso in ordine al quale “potranno immaginarsi sistemi di incentivazione economica articolati sulla base del grado di raggiungimento di obiettivi predeterminati”, disposizione che suscita molte riserve in ordine ai presupposti, criteri applicativi, soggetti che dovrebbero erogare i premi senza poi dimenticare i rischi di discriminazioni e di competitività che si verrebbero ad introdurre in un’organizzazione costituzionalmente “egualitaria” qual è quella giudiziaria, a parte la considerazione che nei Tribunali e Procure i naturali “destinatari” di qualsiasi serio “obiettivo” organizzativo dovrebbero essere i magistrati professionali e non certo quelli onorari.
Il secondo aspetto, infine, riguarda l’altrettanto evanescente disposizione secondo cui il Presidente del Tribunale diventa anche il coordinatore dell’ufficio del GdP (o meglio di tutti gli uffici di GdP operanti nel circondario). Novità che, pur partendo da un innegabile giudizio negativo sull’assetto uscito dalla riforma del 1991, e da un’esigenza giusta di assicurare un maggiore e stabile raccordo ordinamentale tra i due uffici, sembra tuttavia risolvere frettolosamente il problema che meriterebbe, viceversa, se si vuole che funzioni, una soluzione più articolata a seconda della dimensione degli uffici a livello normativo, senza demandare troppo alla successiva normativa secondaria del CSM.
La carne al fuoco è, quindi in conclusione tanta. Il problema è: non lasciamola bruciare.