1. La dilatazione dei poteri interpretativi del giudice
La domanda che attraverserà questo contributo sarà la seguente: fino a qual punto il giudice deve “fare da sé” nella ricerca di una soluzione ermeneutica conforme a Costituzione? Fino a qual punto il giudice può spingersi nella ricerca di un significato (di una norma) che non contrasti con la Costituzione a partire da un testo (la disposizione) che sembrerebbe a prima lettura essere incostituzionale?
È un tema, questo, che rimanda alla classica distinzione tra disposizione e norma, all’insegnamento crisafulliano per cui da uno stesso testo è quasi sempre possibile ricavare più significati, più norme appunto [1]. Una distinzione che è stata particolarmente valorizzata dalla giurisprudenza costituzionale sia nell’arricchimento graduale delle proprie tecniche decisorie (le cd. sentenze interpretative e manipolative) sia nella stessa concreta determinazione delle condizioni di accesso al proprio giudizio in via incidentale (è il caso dell’omesso o inadeguato tentativo di interpretazione conforme a Costituzione quale causa di inammissibilità della questione).
Si tratta di un’evoluzione non sempre lineare, che proverò di seguito a sintetizzare [2], per comprendere la quale occorre particolarmente e preliminarmente considerare la progressiva maturazione di una vera e propria “cultura costituzionale” da parte della nostra magistratura, impensabile all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione. Un’apertura che trovò traduzione in un ordine del giorno approvato dall’Anm nel congresso di Gardone del 1965, nel quale si affermava che il giudice deve interpretare le leggi in conformità ai principi costituzionali, applicando direttamente la Costituzione, quando ciò sia tecnicamente possibile, e rimettendo la decisione alla Corte costituzionale ove non sia possibile un’interpretazione “adeguatrice”.
Attraverso l’interpretazione il testo può essere dunque “adeguato” al contesto, specie costituzionale, nel senso che per giungere a una soluzione ermeneutica conforme a Costituzione dall’enunciato si può ricavare un significato meno prossimo di altri alla lettera. Ciò non significa, però, come ribadirò in seguito, che la cd. “lettera” possa essere travalicata attraverso l’interpretazione, al punto di pervenire ad una vera e propria “disapplicazione” del testo normativo.
Ma la questione della disapplicazione viene in rilievo anche in un altro senso in queste mie preliminari annotazioni, consentendo di iscrivere la presunta pretesa del giudice a “fare da sé” nel contesto di una dilatazione dei suoi poteri interpretativi che non è più solo – e da molto tempo – “questione nazionale”. Mi riferisco al radicale mutamento del modo di concepire la stessa funzione giurisdizionale nel sistema italiano conseguente alla sentenza Simmenthal. Il riconoscimento al giudice comune del potere di disapplicare le norme interne in contrasto con il diritto comunitario (ora euro-unitario) direttamente applicabile non poteva non avere conseguenze ulteriori, che non si sono infatti limitate al pure rilevante ambito della “diffusione” del controllo in questo ambito, contenuto soltanto per l’ipotesi in cui venisse in gioco una potenziale antinomia della norma europea rispetto ai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato o ai diritti inalienabili della persona (cd. controlimiti), dovendo in tal caso, come affermato nella sent. n 170 del 1984, necessariamente intervenire la Corte costituzionale [3]. Ad ampliarsi, infatti, sono stati più in generale i poteri interpretativi in vista della conformazione del diritto interno al diritto europeo. Il che non poteva non avere riflessi anche sul rafforzamento degli stessi poteri per rispondere all’esigenza di conformazione dei testi normativi a Costituzione. Più prosaicamente: se il giudice può allontanarsi dal significato che sembrerebbe più immediatamente riconducibile al testo per prevenire l’antinomia con il diritto comunitario e dunque evitare la formale disapplicazione, per quale ragione non potrebbe fare altrettanto per assicurare un’immediata conformità a Costituzione di una disposizione evitando di sollevare questione di costituzionalità? Si potrebbe rispondere perché a tale fine c’è sempre la possibilità di adire la Corte costituzionale. Il che è senz’altro vero e infatti non è questo che si vuole negare. Ma è indiscutibile che a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, una volta riconosciuto al giudice il potere di addirittura disapplicare la legge (sia pure solo per l’ipotesi di contrasto con il diritto comunitario), la percezione del suo ruolo sia radicalmente mutata, anche rispetto all’esercizio degli ordinari poteri di interpretazione sistematica (e conforme a Costituzione). Come a dire – sotto il profilo anche psicologico – che il giudice ben può essersi da allora sentito autorizzato a “spingersi in avanti” nel suo già riconosciuto compito di tentare in ogni modo di ricavare dai testi soluzioni conformi a Costituzione. Dico di più: negare questo – come avviene da parte dei difensori a oltranza della cd. interpretazione letterale – sarebbe antistorico. È come se ormai si fosse affermato un nuovo modo di sentirsi «soggetti soltanto alla legge» (art. 101 Cost.): nei confini dell’orizzonte di senso dell’enunciato, i giudici possono (o meglio devono) trovare un significato meno prossimo alla “lettera” della legge ove questo assicuri maggiore conformità alla “lettera” e allo “spirito” della Costituzione.
2. Tra “spirito” e “lettera”. L’interpretazione “meramente” letterale come metodo primitivo
Questa premessa credo sia fondamentale per avventurarsi in modo ordinato, per quanto possibile, sulle evoluzioni e sulle implicazioni dell’interpretazione conforme, dapprima riguardata in una prospettiva sia pur sommariamente teorica, poi riferita alle concrete declinazioni giurisprudenziali [4].
Mi sia consentita, prima di passare al promesso approfondimento, un’ultima nota preliminare e dichiaratamente polemica. Coloro che “difendono” l’interpretazione conforme a Costituzione sono spesso tacciati di svalutare la portata del testo normativo. Sento sempre più spesso affermare, tra gli altri da Massimo Luciani, che non si può «leggere nella disposizione quello che non c’è, anche quando la Costituzione vorrebbe che vi fosse» [5]. Mi chiedo: chi lo nega? Chi contesta che in casi simili vi sarebbe “violazione di legge” da parte del giudice? Piuttosto l’insistenza sul primato del testo può essere letta come un invito per i giudici comuni a tenere un atteggiamento supino rispetto al dato letterale della legge, particolarmente gradito peraltro a molti operatori in quanto senz’altro deresponsabilizzante. Quanti arretramenti potremmo registrare specie sul piano della tutela dei diritti fondamentali se questo atteggiamento dovesse riprendere piede! Non credo sia da auspicare il ritorno a un’amministrazione ottusa, né a una giurisdizione chiusa rispetto alle possibilità date dall’interpretazione sistematica (e conforme a Costituzione).
Al fondo, orientamenti come questi si fondano su una diffidenza nei confronti della magistratura (e anche della amministrazione), mettendo in dubbio la cultura costituzionale dei magistrati. Il che, se fosse vero, dovrebbe indurci a spingere per una maggiore diffusione della cultura costituzionale, da promuovere anche attraverso la formazione continua, non potendosi certo ormai negare che i giudici, attraverso gli strumenti dell’interpretazione, siano attori di un processo che, per dirla con Silvestri, vede la Costituzione pervadere l’ordinamento «in modo molecolare», entrare in tutte le norme dello stesso e quindi caratterizzarle, conformarle [6]. È un processo inarrestabile e a mio giudizio positivo, che non può trovare ostacolo nella «interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative», definita dalla Corte costituzionale in una nota sentenza (n. 1 del 2013) come «metodo primitivo». I “difensori” della “lettera” gridarono allo scandalo in quell’occasione, accusando la Corte, in modo più o meno incisivo, di aver contribuito alla svalutazione del testo nel processo ermeneutico. Una polemica dal mio punto di vista inutile, che costituisce la migliore dimostrazione di quanto la “lettera” sia in sé sempre suscettibile di ambiguità, sempre aperta a diverse interpretazioni. Qual era infatti il significato più immediatamente riconducibile al citato passo della pronuncia della Corte? Aveva forse la Corte affermato che la cd. interpretazione letterale è in ogni caso recessiva? L’uso dell’avverbio «meramente» dovrebbe indurre a rispondere di no [7]. La Corte non mi sembra aver detto che la “lettera” non rileva, ma che la «interpretazione meramente letterale» è ormai antistorica, addirittura «metodo primitivo». Cosa ben diversa, dunque, dall’affermare che sia possibile “leggere nella disposizione quello che non c’è, anche quando la Costituzione vorrebbe che vi fosse”. D’altra parte la Corte stessa ha più volte affermato che «l’univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale» (vds., ad esempio, la sentenza n. 78 del 2012). Piuttosto il passo prima richiamato rende giustizia, come si legge poco più avanti nella motivazione della sent. n. 1 del 2013, della centralità dell’interpretazione sistematica, «che consente una ricostruzione coerente dell’ordinamento costituzionale».
È forse questa una novità? A me pare di no.
È ben noto che il dualismo tra lettera («significato proprio delle parole secondo la connessione di esse») e spirito o ratio («intenzione del legislatore») presente (e irrisolto) nell’art. 12 delle preleggi (rubricato «Interpretazione della legge») sia stato in prevalenza sciolto, da dottrina e giurisprudenza, attraverso la parziale «svalutazione» del criterio letterale, rilevandosi l’inadeguatezza e l’ingenuità della stessa idea di interpretazione puramente (o «meramente») letterale, legata ad un qualche «significato proprio delle parole» [8]. Il che non vuol dire che l’interprete possa dare alle parole un significato quale che sia, quanto piuttosto prendere consapevolezza del fatto che è proprio il significato delle parole che costituisce un problema [9] (questione assai nota negli studi di teoria dell’interpretazione, che non merita di essere ulteriormente approfondita). A tale fine, particolare rilievo è stato attribuito al termine «connessione» per ricavare già dal primo comma dell’art. 12 delle preleggi un’indicazione a favore dell’interpretazione sistematica, facendo riferimento al contesto in cui le locuzioni si trovano e non limitandolo esclusivamente alla legge nella quale sono inserite ma estendendolo addirittura all’intero ordinamento giuridico in vigore. Peraltro, la stessa «intenzione del legislatore», cui il predetto art. 12 attribuisce rilievo ai fini dell’interpretazione, è stata prevalentemente intesa in senso oggettivo, imponendo la ricerca di un significato conforme alla ratio legis o meglio alla ratio iuris. A venire in rilievo è il canone della «coerenza con l’intero sistema normativo» [10], che trova implicita conferma nel comma 2 dell’art. 12 (per la via dell’evocazione dell’analogia legis e dell’analogia iuris come strumenti per colmare le lacune) e che dovrebbe già guidare l’interprete nella ricerca del significato «conforme allo spirito del tempo e della società per cui la norma è destinata a valere» [11].
Questi argomenti, già sviluppati in epoca prerepubblicana con riferimento ai canoni della totalità e della coerenza, hanno tratto nuova linfa con l’entrata in vigore della Costituzione, i cui precetti hanno rilanciato «in termini definitivi il momento sistematico» [12]. Come mirabilmente spiegato da Livio Paladin, nella scia dell’insegnamento crisafulliano, la coerenza dell’ordinamento «deve essere ormai cercata sul piano costituzionale», ove peraltro l’argomento della ratio trova nuova linfa nell’art. 3, comma 1, Cost., per come letto dalla Corte costituzionale (che ne ha ricavato, come è noto, il principio di ragionevolezza). Che le leggi debbano interpretarsi in modo conforme a Costituzione appare dunque scontato, esprimendosi la prevalenza della norma costituzionale sulla norma infracostituzionale non solo in termini negativi (la Costituzione come limite alla legge) ma anche in termini positivi, reagendo appunto sull’interpretazione degli enunciati infracostituzionali [13]. La reazione appena evocata può tradursi in una «rilettura radicalmente innovativa della portata della norma» [14], che ben può significare «razionalizzazione» del testo, non solo avuto riguardo alla ratio legis ma anche alla complessiva ratio iuris. Ecco che l’argomento della conformità a Costituzione finisce quasi per essere una variante di quello logico-sistematico, per il semplice fatto che «la legislazione ordinaria non fa sistema in sé medesima, bensì con la normativa costituzionale» [15].
Sulla base degli insegnamenti qui riassunti – e in ragione di altri argomenti che altrove ho cercato di illustrare – sono portato a guardare con molto favore all’uso del canone dell’interpretazione conforme a Costituzione, avendone rinvenuto la preferenza nel principio della presunzione di legittimità costituzionale delle leggi, e proprio di quelle leggi che consentono di essere interpretate in senso costituzionalmente conforme, anche superando il significato che sembra immediatamente ricavabile dalla «lettera» che, in sé, in quanto tale, è sempre suscettibile di ambiguità, sempre aperta a diverse interpretazioni, anche perché le singole disposizioni di legge vanno interpretate sistematicamente e mai isolatamente nella loro portata testuale o letterale [16].
Ma, nonostante questa apertura, ho sempre ritenuto che il predetto argomento consenta di ricavare dall’enunciato un significato meno prossimo di altri alla lettera, non di travalicarla, dovendosi comunque situare nell’orizzonte di senso di quest’ultima.
Sul punto desidero insistere, sulla considerazione della non esclusività dell’argomento sistematico, ancorché quest’ultimo abbia senz’altro rilievo primario sia come limite alla fantasia interpretativa sia come elemento propulsivo della soluzione ermeneutica. Il criterio sistematico come limite all’attività interpretativa porta a dire, infatti, che il significato di una disposizione non può essere ampliato senza riscontri nel contesto normativo e che, ove sia incompatibile con quest’ultimo (specie con i disposti costituzionali), anche la soluzione ermeneutica più prossima alla «lettera» debba essere accantonata. In positivo, il medesimo criterio contribuisce a selezionare il significato da attribuire in preferenza alla disposizione, anche determinando una «torsione» di quello che si presumeva essere il senso più immediato o meglio il suo «significato iniziale» [17]. Ma quel «nuovo» significato, quella soluzione ermeneutica, deve pur reggere alla prova della «lettera», alla quale si deve tornare per verificare che l’allontanamento dalla stessa (dal «significato iniziale») non si sia tradotto in un suo travalicamento (come accadrebbe ove il «nuovo significato» non trovi fondamento alcuno nell’enunciato oggetto di interpretazione). Ove ricorra quest’ultima condizione non resta, a mio giudizio, che sollevare questione di costituzionalità, altrimenti si cade in un abuso, inteso come uso distorto dei pur penetranti poteri interpretativi spettanti ai giudici (specie alla Cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia).
3. Dalla teoria alla pratica giurisprudenziale
Traducendo queste riflessioni all’interno delle logiche e delle dinamiche del giudizio di costituzionalità, dovremmo chiederci: perché mai un giudice dovrebbe sollevare questione di costituzionalità se attraverso l’interpretazione è possibile ricavare un significato del testo conforme a Costituzione? E, sul versante del giudizio di costituzionalità: perché mai la Corte dovrebbe dichiarare illegittimo un testo normativo se da esso può ricavarsi un significato conforme a Costituzione? L’unico argomento potrebbe essere quello, senz’altro forte, della certezza del diritto: se c’è anche una sola possibilità di ricavare dall’enunciato una norma incostituzionale, la Corte avrebbe il dovere di espungere quella norma dall’ordinamento. La dichiarazione di incostituzionalità, in tale prospettiva, non sarebbe più extrema ratio, non equivarrebbe più, come invece è oggi, al fallimento, nel caso specifico, dell’interpretazione. E, anche quando l’interpretazione adeguatrice si presenta come possibile, si perderebbe il “vantaggio” di una tutela immediata del diritto controverso [18], dovendo il giudice adito rimettere alla Corte la questione sulla possibile norma incostituzionale rinunciando a rendere subito giustizia nel caso concreto mercé l’applicazione dell’altra norma ritenuta conforme a Costituzione, pure ricavabile dal medesimo testo.
Solitamente si ritiene che la tecnica dell’interpretazione conforme abbia snaturato il giudizio di costituzionalità, restringendo eccessivamente gli spazi di intervento della Corte quale giudice dei diritti. Dimenticando che il cd. inaridimento di questo canale di accesso alla Corte era in un certo senso inevitabile, acquisendo sempre più i giudici comuni consapevolezza dei loro poteri interpretativi, della possibilità di conformare i testi legislativi alla Costituzione. Addirittura questo era l’auspicio espresso dal presidente Azzariti nella seduta inaugurale del secondo anno di attività della nostra Corte costituzionale, rilevando, tra l’altro, «che non può essere dichiarata l’illegittimità costituzionale di una disposizione legislativa, solo perché possa prestarsi ad una interpretazione difforme dai precetti costituzionali». «Forse poche disposizioni riuscirebbero a sottrarsi, in tal caso, ad una dichiarazione simile, ed è del resto sempre grave eliminare una norma di legge vigente senza avere i poteri per sostituirla o adattare le norme residue che con quella erano connesse» [19]. In senso non dissimile possono leggersi i lungimiranti contributi sul tema di Esposito e Crisafulli, che in diverso modo riconoscevano al giudice il potere-dovere di dare, fin dove è possibile, alle disposizioni di legge interpretazione e ricostruzione rispondente a Costituzione. In una nota del 1958 Carlo Esposito scriveva perentoriamente: «non è vero che alla Corte spetta in modo esclusivo di risolvere le questioni relative alla compatibilità di una disposizione legislativa con le norme costituzionali, ma bensì ad essa spetta in modo esclusivo solo lo stabilire la incompatibilità di una diposizione di legge con tali norme» [20]. Crisafulli si spingeva anche oltre: nel 1956 scriveva che la Corte può ben ricorrere ad una pronuncia di rigetto quando dalla disposizione impugnata può ricavarsi una norma conforme a Costituzione, diversa da quella individuata dal giudice a quo [21]; poi nel 1961 precisava che la sentenza non avrebbe potuto essere che di incostituzionalità ove la formulazione della disposizione offrisse una resistenza insuperabile ad essere interpretata in modo conforme a Costituzione ovvero allorché si fossero consolidati indirizzi giurisprudenziali incostituzionali, dovendosi in tale ultimo caso dichiarare l’illegittimità della norma “vivente” [22]!
I due illustri Maestri avevano già individuato, a mio giudizio, quelle che dovrebbero essere le specifiche conseguenze nel giudizio di costituzionalità dell’uso o del mancato uso dell’interpretazione conforme da parte dei giudici. In estrema sintesi: se il giudice non fa alcuno sforzo nella ricerca di una soluzione ermeneutica conforme a Costituzione che si riveli non improbabile (improbabilità che va misurata alla luce sia della “lettera” sia dell’eventuale diritto vivente), la questione dovrà essere dichiarata inammissibile; se il giudice, ancorché abbia profuso tale sforzo, ritiene che l’interpretazione conforme sia quanto meno difficile (difficoltà che va misurata, di nuovo, alla luce della “lettera” e dell’eventuale diritto vivente), la questione dovrà essere decisa nel merito e, nello specifico, rigettata, ove la Corte ritenga possibile un’interpretazione alternativa, che non sia implausibile, rispetto a quella indicata dal giudice a quo, o accolta ove invece riscontri resistenze insuperabili alla proposta di una soluzione ermeneutica conforme a Costituzione. In tal modo l’incostituzionalità tende a configurarsi come extrema ratio, come esito del «fallimento dell’interpretazione» [23]. Certo, la preferenza che finisce per essere accordata alla decisione interpretativa di rigetto è destinata al successo soltanto se si realizza la condizione della collaborazione con i giudici [24], se cioè questi accettano il suggerimento interpretativo della Corte che, in quanto reso in decisione di infondatezza, non ha formalmente efficacia vincolante erga omnes. Vi è però una via di uscita per l’ipotesi in cui, occasionalmente, i giudici si “ribellino” all’indicazione ermeneutica della Corte, insistendo nel ritenere che alla disposizione non possa darsi significato diverso da quello che la Corte ha scartato. È la via della successiva decisione di accoglimento, magari interpretativa o manipolativa (es. additiva), con la quale la Corte, preso atto del maturare di un consolidato orientamento giurisprudenziale di segno contrario, lo “rimuove” pronunciando l’incostituzionalità o della disposizione o della norma incostituzionale da essa ricavata (così è accaduto, tra l’altro, nella lunga vicenda sul calcolo della durata massima dei termini di fase della custodia cautelare in carcere che ha visto succedersi pronunce della Corte costituzionale contenenti un chiaro suggerimento interpretativo, rifiutato dai giudici, e conclusa con una decisione di accoglimento di tipo additivo proprio per stroncare il formarsi di un diritto vivente incostituzionale: dalla sent. n. 292 del 1998 alla decisione n. 299 del 2005) [25].
V’è da chiedersi, anche alla luce della vicenda prima richiamata in parentesi, se la presenza di un diritto vivente che si assuma essere incostituzionale non debba indurre la Corte, quasi in prevenzione, a privilegiare il ricorso alla decisione di accoglimento, magari interpretativa, piuttosto che la decisione di rigetto fondata su un’interpretazione alternativa. Vero è che la qualificazione come diritto vivente di una certa interpretazione può risultare opinabile (anche se lo diviene assai meno ove questo sia promosso o avallato dalla Cassazione, tanto più se a Sezione unite) e che il “consolidamento” della giurisprudenza non è mai tale da vincolare il giudice di legittimità «atteso che proprio alla Corte di cassazione l’ordinamento attribuisce la funzione di nomofilachia, cui si ricollega la stessa formazione, e perciò anche l’evoluzione nel tempo, del diritto vivente» [26]. Vero è anche che la Corte costituzionale ha più volte affermato che «al giudice non è precluso, nell’esercizio dei poteri interpretativi che gli sono propri e che non richiedono alcun avallo costituzionale, pervenire ad una lettura della norma secundum constitutionem anche in presenza di un orientamento giurisprudenziale univoco» [27]. Ma non si può negare, dal lato del giudice comune, che “costringerlo” a percorrere una soluzione ermeneutica diversa da quella “dominante”, specie se espressa dal giudice di legittimità, significherebbe indurlo a un’interpretazione probabilmente «suicida» («in quanto quasi certamente destinata ad essere annullata dalla pronuncia dei giudici dei gradi superiori») [28] e che, dal lato della Corte costituzionale, optare per una decisione di rigetto o addirittura di inammissibilità per indicare una soluzione conforme a Costituzione diversa da quella espressa dalla Cassazione potrebbe «porre in discussione» o persino «delegittimare» la funzione nomofilattica di quest’ultima [29]. La decisione interpretativa di rigetto dovrebbe in tali casi essere privilegiata quando la Corte costituzionale intenda confermare il (o conformarsi al) diritto vivente [30], non già quando ritenga che sia da preferire una soluzione ermeneutica diversa da quella scaturita dalla giurisprudenza consolidata, in ragione del fatto che quest’ultima è contraria a Costituzione. Insomma, com’è stato acutamente osservato, la Corte non può dire che il diritto vivente «non è incostituzionale se reinterpretato», perché tale affermazione se può valere con riguardo a un testo (sempre nei limiti del suo orizzonte di senso), «ove riferita ad un'interpretazione lascia disorientati» [31].
Al netto della “questione” ancora aperta sul diritto vivente, quello sopra descritto è l’approdo lento e non sempre lineare al quale sembra essere ormai pervenuta la Corte.
Proverò a ripercorrerlo per sommi capi, affrontando partitamente:
a) la questione dell’omessa ricerca di una soluzione conforme a Costituzione quale ragione di inammissibilità;
b) l’evoluzione che porta a ritenere che lo sforzo del giudice nella predetta ricerca può dirsi soddisfatto da una idonea motivazione circa le ragioni che lo inducono a ritenere improbabile l’esito ermeneutico conforme a Costituzione;
c) la confusione che sembra ancora presente nella giurisprudenza tra “erroneo presupposto interpretativo” e possibilità di pervenire a un esito conforme a Costituzione;
d) i limiti dell’interpretazione conforme e la questione della disapplicazione.
3.1. a) la questione dell’omessa ricerca di una soluzione conforme a Costituzione quale ragione di inammissibilità
Se si ragiona sul fatto che l’interpretazione è momento che logicamente precede quello dell’applicazione, pur essendo in funzione di essa, non credo debba sorprendere più di tanto che il giudice prima di esprimere il dubbio di costituzionalità debba esperire il tentativo di interpretazione conforme. Si potrà dire che oggi la valutazione sulla non manifesta infondatezza non si traduce più nell’espressione di un mero dubbio di costituzionalità, ma questo, sia pure più consistente, resta comunque tale. Non mi baloccherei troppo, insomma, sulla questione se l’interpretazione conforme sia o meno un terzo requisito per la sollevazione della questione, accanto a quelli della rilevanza e della non manifesta infondatezza.
Piuttosto sembrava eccessivo l’atteggiamento seguito sino a poco tempo fa dalla Corte allorché ha sostenuto che le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perché non è possibile darne interpretazioni costituzionali (sent. n. 356 del 1996). Come ha scritto Franco Modugno, nella seconda parte della ricorrente frase sarebbe stato meglio dire «perché è difficile, è improbabile darne interpretazioni costituzionali» [32]. In questo modo «al giudice comune non si chiede propriamente un convincimento intorno all’incostituzionalità della legge, bensì un convincimento tanto sulla difficoltà di esperire con successo l’interpretazione conforme della disposizione, quanto sulla probabilità che la Corte abbia a sancire l’incostituzionalità della norma» [33].
Sono pienamente d’accordo, altrimenti lo sforzo richiesto al giudice diventa eccessivo, come dimostra il discutibile proliferare di ordinanze di inammissibilità anche a fronte di questioni “serie”, sollevate dopo aver tenuto conto di alcune delle possibili interpretazioni alternative, ritenute non praticabili in base ad argomentazioni non implausibili [34]. Peraltro un tale atteggiamento ben difficilmente era in grado di alimentare un proficuo dialogo tra Corte e giudici, poiché la decisione di inammissibilità spesso resa nella forma dell’ordinanza, oltre a poter essere percepita come “rimprovero” dai giudici a quibus, non si rivelava strutturalmente idonea a tradursi in argomentata proposta/suggerimento del significato conforme a Costituzione. Un atteggiamento dunque da stigmatizzare anche per ragioni di “segnaletica giurisprudenziale” [35], a mio modo di vedere non secondarie, e per fortuna ora superato o almeno in via di superamento.
3.2. b) l’evoluzione che porta a ritenere che lo sforzo del giudice nella predetta ricerca può dirsi soddisfatto da una idonea motivazione circa le ragioni che lo inducono a ritenere improbabile l’esito ermeneutico conforme a Costituzione
Di ciò la Corte sembra infatti essersi resa conto nella sua più recente giurisprudenza, a partire dalla sent. n. 221 del 2015 [36] (se non dalla sent. n. 235 del 2014) fino alla più recente e chiara decisione n. 42 del 2017, ove si legge che «se “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)” (sentenza n. 356 del 1996), ciò non significa che, ove sia improbabile o difficile prospettarne un’interpretazione costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito. Anzi, tale scrutinio, ricorrendo le predette condizioni, si rivela (…) necessario, pure solo al fine di stabilire se la soluzione conforme a Costituzione rifiutata dal giudice rimettente sia invece possibile».
Alcune significative affermazioni lasciavano intravvedere l’esito al quale si è pervenuti. Mi riferisco alla sent. n. 235 del 2014, ove la Corte sottolinea che la non condivisione della possibile soluzione ermeneutica conforme a Costituzione, in quanto sufficientemente argomentata, «non rileva più in termini di inammissibilità – ma solo, in tesi, di eventuale non fondatezza – della questione in esame». Ancora, con la sent. n. 51 del 2015, la Corte afferma che «per aversi una questione di legittimità validamente posta, è sufficiente che il giudice a quo fornisca un’interpretazione non implausibile della disposizione contestata» e poi, nella sent. n. 221 del 2015, che «la possibilità di un’ulteriore interpretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto di fare propria, non riveste alcun significativo rilievo ai fini del rispetto delle regole del processo costituzionale, in quanto la verifica dell’esistenza e della legittimità di tale ulteriore interpretazione è questione che attiene al merito della controversia, e non alla sua ammissibilità». È il preludio alle pronunce successive (sentt. n. 262 del 2015, 36, 45, 95, 111, 173, 204, 219 del 2016) che culminerà nell’affermazione contenuta nella sent. n. 42 del 2017, seguita, in senso conforme, dalle sentt. n. 53, 69, 180, 194, 208, 213, 218, 254 del 2017, nn. 15 e 40 del 2018, e peraltro preceduta dalla sent. n. 262 del 2015 ove si legge che «ai fini dell’ammissibilità della questione, è sufficiente che il giudice a quo esplori la possibilità di un’interpretazione conforme alla Carta fondamentale e, come avviene nel caso di specie, la escluda consapevolmente».
Resta fermo che ove il giudice non illustri le ragioni per le quali non ritiene di praticare un’interpretazione conforme a Costituzione ciò è ragione sufficiente per dichiarare l’inammissibilità (talora manifesta) della questione (ad es. ordd. n. 177 del 2016, 97 del 2017). Lo si ribadisce in una recente sentenza di inammissibilità (n. 253 del 2017), ove si precisa che affinché sia adempiuto «il dovere del rimettente di interpretare la normativa in senso conforme alla Costituzione (ogni volta che ciò sia permesso dalla lettera della legge e dal contesto logico-normativo entro cui essa si colloca: sentenza n. 36 del 2016)» è richiesto «accurato ed esaustivo esame delle alternative poste a disposizione dal dibattito giurisprudenziale, se del caso per discostarsene motivatamente. Solo se avviene ciò infatti si può dire che l’interpretazione adeguatrice è stata davvero “consapevolmente esclusa” dal rimettente (sentenza n. 221 del 2015)».
Si può dire, in sintesi, che oggi appare nettamente prevalente l’indirizzo per cui la questione può ritenersi ammissibile ove la «possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione oggetto del giudizio» sia stata «tentata e consapevolmente scartata dal rimettente». E che «ciò non esclude che, nell’esaminare il merito della questione sottoposta al suo esame, questa Corte sia a sua volta tenuta a verificare l’esistenza di alternative ermeneutiche, che consentano di interpretare la disposizione impugnata in modo conforme alla Costituzione» (sent. n. 69 del 2017). Anzi, questa è la via privilegiata: rigettare la questione ove la Corte ritenga non implausibile l’interpretazione conforme a Costituzione, riservando appunto la dichiarazione di incostituzionalità alle ipotesi in cui il testo (o la sua prevalente interpretazione ad opera della giurisprudenza: diritto vivente) opponga una resistenza insuperabile ad un esito ermeneutico conforme a Costituzione. Il che dovrebbe tradursi, in termini di tecnica decisoria impiegata, nel ricorso prevalente alle sentenze interpretative di rigetto, le quali, di nuovo anche per una ragione di “segnaletica giurisprudenziale” dovrebbero essere effettivamente e formalmente tali, con l’uso nel dispositivo della formula “nei sensi di cui in motivazione” o altra similare, che avverta subito il lettore che la decisione di non fondatezza si basa su un possibile percorso ermeneutico indicato, appunto, in motivazione.
Se il dispositivo non fornisce indicazioni sulla natura interpretativa della decisione, potrà infatti accadere che la legge sia applicata, almeno dai giudici diversi dal rimettente, nel significato magari più prossimo alla lettera che era proprio quello che aveva fatto sorgere il dubbio di costituzionalità! Anche per questo ritengo sia preferibile abbandonare la discutibile distinzione tra “sentenza di rigetto con interpretazione” e “sentenza di rigetto interpretativa”, la quale, nel descrivere una differenza senz’altro desunta dalla lettura delle pronunce della Corte, finisce per legittimarla. Dal mio punto di vista, se la pronuncia di infondatezza si basa su un’interpretazione alternativa rispetto a quella fornita dal giudice a quo allora è (deve essere) una “sentenza interpretativa di rigetto” (con le conseguenze suddette quanto a redazione del dispositivo); se, invece, la infondatezza non si basa su una diversa ricostruzione del significato della disposizione, la pronuncia non potrà che essere di “mero” rigetto. Tertium non datur, se davvero si tiene al dialogo con i giudici comuni, se realmente si intendono rispettare le autorevoli proposte di segnaletica giurisprudenziale di Leopoldo Elia.
3.3. c) la confusione che sembra ancora presente nella giurisprudenza costituzionale tra “erroneo presupposto interpretativo” e possibilità di pervenire a un esito conforme a Costituzione
Quanto appena affermato mi induce a formulare una critica non solo nei confronti delle decisioni di rigetto che non indichino nel dispositivo la valenza interpretativa della pronuncia quando essa sia chiaramente delineata nella motivazione, ma anche sull’impiego delle pronunce di infondatezza per l’ipotesi di “erroneo presupposto interpretativo”. Sia pure con significative oscillazioni, la Corte adotta ancora sentenze di rigetto in casi di tal fatta, spesso qualificando il mancato conseguimento da parte del giudice della soluzione conforme a Costituzione nei termini di “erroneo presupposto interpretativo”. È una confusione logica, oltre che terminologica. Se infatti la ricostruzione del dato normativo si fonda davvero su un erroneo presupposto interpretativo, la Corte non dovrebbe entrare nel merito della questione che sarebbe, a seconda dei riflessi di quell’errore, o inammissibile o manifestamente infondata. Invece, talora, ricorre alla sentenza di rigetto affermando l’erroneità del presupposto interpretativo dal quale è partito il giudice stante la possibilità di pervenire ad una soluzione conforme a Costituzione (ad es. sentt. n. 60 del 2014, n. 11, 14, 51, 117 del 2015, 43 del 2017). Non mi sembra un modo convincente per instaurare un positivo rapporto di collaborazione con i giudici (in questo caso specie con i giudici a quibus) nel tentativo di proporre un significato conforme a Costituzione.
L’erroneo presupposto interpretativo dovrebbe equivalere ad un errato impiego da parte del giudice dei suoi ordinari poteri di interpretazione, in grado di riverberarsi, come accennato, sulle sue valutazioni in termini di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione (ad esempio: la ricostruzione del quadro normativo non è corretta, ergo l’interpretazione del testo è “sbagliata”). Se invece il giudice ha praticato un’interpretazione non implausibile della disposizione censurata, non gli si può addebitare un errore nella prospettazione della questione, che ovviamente ben potrà essere rigettata ove la Corte ritenga che sia possibile un’altra interpretazione dello stesso testo conforme a Costituzione. Se ricorre questa ultima condizione non si può affermare, propriamente, che la questione si fondi su un “erroneo presupposto interpretativo”, ma che la soluzione (non il presupposto) alla quale il giudice è pervenuto non è l’unica possibile, essendovene almeno un’altra plausibile che sia in grado di evitare l’insorgenza dell’antinomia con il parametro costituzionale.
Anche alla luce della più recente giurisprudenza costituzionale sull’interpretazione conforme si dovrebbe, insomma, evitare la confusione tra l’ipotesi in cui il giudice abbia esperito senza successo il tentativo di pervenire a una soluzione ermeneutica compatibile con il testo costituzionale e il caso in cui abbia commesso un errore nella interpretazione della disposizione che si riverberi irrimediabilmente sulla questione prospettata. Nel primo caso la Corte dovrà entrare nel merito della questione, nel secondo caso no. Sembra invece che in molti casi la Corte ricorra alla categoria della erroneità del presupposto interpretativo per rilevare il presunto “errore” nel percorso ermeneutico seguito dal giudice a quo al dichiarato fine di indicare l’interpretazione conforme (si veda in particolare sent. n. 204 del 2016). Non sarebbe meglio, in casi come questi, abbandonare quella terminologia e limitarsi ad indicare la soluzione conforme a Costituzione idonea a sorreggere la decisione di infondatezza? Può sembrare una “sfumatura”, ma credo non lo sia.
3.4. d) i limiti dell’interpretazione conforme e la questione della disapplicazione
Vengo ora alla delicata questione dei limiti dell’interpretazione conforme.
Come altrove ho già sostenuto, non sono d’accordo con Modugno in ordine alla dilatazione dei poteri interpretativi del giudice – fino al punto da “stravolgere” il testo normativo di partenza – allorché questi sia guidato da un principio in precedenza fissato dalla giurisprudenza costituzionale [37]. Quando la Corte individua con chiarezza un principio costituzionale in nome del quale dichiara incostituzionale una certa norma, fino a che punto il giudice può, senza di nuovo investire la Corte, utilizzare quel principio con riferimento a discipline simili? Si tratta di un problema affrontato anche da Ferreres Comella e da Elisabetta Lamarque, che riconoscono una maggiore possibilità di intervento ai giudici quando questi siano “guidati” dalla pregressa giurisprudenza costituzionale [38]. A me pare che l’evenienza che il principio da attuare sia stato enucleato dalla giurisprudenza costituzionale sia pure con riferimento a diversa fattispecie valga senz’altro a rendere meno “difficile” una soluzione ermeneutica che in base all’enunciato sembrerebbe “improbabile”, non già a rendere “possibile” l’enucleazione di un significato del tutto incompatibile con il testo oggetto di interpretazione, al quale pur sempre si deve ritornare.
C’è o no un limite, una differenza, tra intendere e fraintendere? C’è o no un limite, una differenza, tra interpretare e disapplicare? Da fautore della tecnica dell’interpretazione conforme a Costituzione ritengo che l’individuazione di un confine al suo uso sia decisiva. Perché trovare un confine non vuol dire solo porre un limite, ma anche creare un argine di difesa, in questo caso contro la riemersione di quell’atteggiamento supino rispetto al dato letterale della legge da molti operatori preferito anche in quanto deresponsabilizzante.
Il limite – come ho già scritto altrove – è proprio quello della disapplicazione: in nome del suo coinvolgimento nell’applicazione della Costituzione, il giudice non può spingersi al punto di disapplicare la legge [39]!
A mio giudizio si travalica questo punto quando la soluzione ermeneutica cui si addiviene si rivela del tutto incompatibile con il testo oggetto di interpretazione, al quale pur sempre si deve tornare. Neppure l’esigenza di rendere il testo legislativo compatibile con i principi costituzionali potrebbe giustificare una “torsione” dell’enunciato oltre il suo possibile orizzonte di senso (l’albero non può diventare cavallo!). Come ha scritto Glauco Giostra, a commento di una nota e controversa vicenda giurisprudenziale riguardante le presunzioni assolute di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per taluni delitti di particolare allarme sociale (art. 275, comma 3, cpp), ogni disposizione ha un «range semantico», all’interno del quale «la giurisprudenza legittimamente ed anzi doverosamente esercita una discrezionalità tecnica, orientata dalle coordinate costituzionali, convenzionali o di sistema»; «ma qualsiasi disposizione, anche la più genericamente formulata, ha un “carapace semantico” da cui non può evadere senza diventare altro da sé» [40]. Nel caso degli automatismi riguardanti la custodia cautelare in carcere la Corte costituzionale aveva già rilevato con riferimento a diverse fattispecie di reato l’illegittimità costituzionale della presunzione poiché l’art. 275, comma 3, cpp di volta in volta non faceva salva «l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con altre misure» (trasformando così la presunzione da “assoluta” a “relativa”). Ancorché il principio fosse chiaramente indicato dalla Corte, il testo del 275, comma 3, cpp nel prevedere l’automatismo con riferimento a fattispecie indicate specificamente, offriva una “resistenza insuperabile” a essere interpretato in senso conforme a Costituzione, imponendo di volta in volta l’intervento del giudice costituzionale. Com’è noto la Cassazione nel 2012 ritenne di poter “far da sola”, escludendo l’automatismo per il reato di violenza sessuale di gruppo, operando una presunta interpretazione conforme sulla base del principio ricavabile da precedente sentenza della Corte costituzionale (sent. n. 265 del 2010). Ma la Corte costituzionale, investita della questione da altro giudice e con riguardo ad altra fattispecie di reato, ha potuto implicitamente sconfessare il percorso seguito dalla Cassazione, ritenendo «corretta la tesi del rimettente, secondo cui le parziali declaratorie di illegittimità costituzionale della norma impugnata, aventi per esclusivo riferimento i reati oggetto delle precedenti pronunce di questa Corte, non si possono estendere alle altre fattispecie criminose ivi disciplinate (…)»; «la lettera della norma impugnata, il cui significato non può essere valicato neppure per mezzo dell’interpretazione costituzionalmente conforme, non consente in via interpretativa di conseguire l’effetto che solo una pronuncia di illegittimità costituzionale può produrre» (sent. n. 110 del 2012). E poi, finalmente investita della questione sull’automatismo riguardante la violenza sessuale di gruppo, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della presunzione assoluta, trasformandola anche in questo caso in presunzione relativa (sent. n. 232 del 2013). Nella specie era stata dunque la Cassazione a superare i confini della interpretazione conforme, operando un’estensione analogica di una regola ricavata da precedente sentenza della Corte costituzionale, evidentemente non consentita per assenza di una specifica lacuna. Si potrebbe dire, sinteticamente, che la Cassazione non poteva compiere questa operazione perché, propriamente, non ha colmato una lacuna, implicante la mancata regolazione del caso da decidere, ma ha finito per sostituire, disapplicandolo, un disposto presente nell’ordinamento atto a qualificarlo direttamente [41].
È in questo punto che il giudice si deve fermare ed è qui – come hanno scritto Zagrebelsky e Marcenò – che «deve entrare in campo la Corte costituzionale per mezzo della questione di costituzionalità. Questo è il punto di equilibrio che deve essere salvaguardato e, se in quanto lo sia, non si può parlare di “sindacato diffuso” e di travalicamento dei poteri riservati alla Corte costituzionale» [42].
Questo mi pare l’atteggiamento più ragionevole e produttivo, la sintesi migliore tra l’esigenza di non “irrigidire” eccessivamente il diritto e di evitare che esso si riduca a mero esito dell’“arbitrio” dell’interprete. Con la consapevolezza, però, che i poteri di quest’ultimo – sia esso giudice comune o costituzionale – si dilatano in termini di creatività tanto più è carente il legislatore nell’esercizio della sua funzione di attuazione della Costituzione.
4. Breve incursus. Una questione pendente sul cd. salva leggi
Le problematiche appena trattate potrebbero tornare di estrema attualità e formare oggetto di ulteriore riflessione in occasione dell’esame di una complessa questione ancora non decisa dalla Corte costituzionale che riguarda il cd. salva leggi.
Com’è noto la legge n. 245 del 2005 aveva delegato il Governo ad adottare decreti legislativi delegati che individuassero le disposizioni legislative statali, pubblicate anteriormente all’1 gennaio 1970, anche successivamente modificate, delle quali si riteneva “indispensabile” la permanenza in vigore, stabilendo che tra esse non potessero essere comprese le «disposizioni oggetto di abrogazione tacita o implicita» né «disposizioni che [avessero] esaurito la loro funzione o [fossero] prive di effettivo contenuto normativo o [fossero] comunque obsolete» (lettere a e b della disposizione delegante). Il Governo ha inserito nel decreto legislativo delegato n. 179 del 2009 una previsione riguardante l’esenzione dal pagamento dei contributi agricoli (art. 8 della legge n. 991 del 1952) che invece la Cassazione ha ritenuto abrogata, sia pure con decisione successiva all’adozione del decreto (sent. n. 19420 del 2013), per effetto del rilievo che la disciplina riguardante i contributi agricoli sarebbe stata integralmente rivista dopo il 1952 (con dPR n. 645 del 1958 per ciò che riguarda le agevolazioni e con l’art. 9 della legge n. 67 del 1988 per ciò che concerne specificamente le esenzioni contributive). Il giudice a quo (Tribunale di Sondrio) – chiamato a decidere su una controversia avente per oggetto la restituzione di somme versate da una società agricola all’Inps e basata sulla presunta, perdurante, vigenza della normativa del 1952 – chiede alla Corte costituzionale di dichiarare l’illegittimità costituzionale di quella parte del decreto cd. salva leggi, che ha appunto inserito l’art. 8 della legge n. 991 del 1952 tra le disposizioni indispensabili, ancorché, invece, già implicitamente abrogato. Vi sarebbe, in particolare, violazione dei principi e criteri direttivi della specifica legge di delega (e dunque dell’art. 76 Cost.) che esclude la possibilità di comprendere tra le disposizioni “indispensabili” quelle già oggetto di abrogazione.
Perché la questione è interessante ai nostri fini? Perché secondo la Corte di cassazione – alla luce dei principi e criteri direttivi della legge di delega – l’inclusione dell’art. 8, legge 991 del 1952 tra le norme indispensabili «si deve considerare tamquam non esset, frutto di un lapsus calami, sulla base di una interpretazione rispettosa dell’art. 15 preleggi e costituzionalmente orientata, nel senso della coerenza e ragionevolezza dell’ordinamento (art. 3 Cost.), del rispetto dei principi e criteri direttivi della legge di delega (art. 76 Cost.), alla luce anche dell’art. 44 Cost., comma 2». La conclusione alla quale perviene la Cassazione sarebbe avvalorata dalla presunta «funzione meramente ricognitiva» del decreto legislativo delegato n. 179 del 2009, che potrebbe in parte ricavarsi dalla precedente giurisprudenza costituzionale (si richiamano le sentt. n. 346 del 2010 e 80 del 2012) e che porterebbe a considerare il decreto «sprovvisto di una propria e autonoma forza precettiva o, se si vuole, di quel carattere innovativo che si suole considerare proprio degli atti normativi», potendo soltanto confermare la vigenza di norme che non l’avessero già perduta.
Viceversa, il giudice a quo ritiene che si sarebbe «dinanzi a un’attività normativa sfornita di copertura costituzionale posta in essere dal legislatore delegato», che non consente al giudice ordinario «la disapplicazione tout court della norma in questione, avente valore formale di legge fino alla sua rimozione dal nostro ordinamento giuridico, cui è abilitata la sola Corte costituzionale».
In altre parole, la Cassazione avrebbe disapplicato una disposizione avente forza di legge, andando al di là dei confini dell’interpretazione costituzionalmente orientata che pure espressamente dichiara di aver compiuto. Non possiamo sottovalutare la peculiarità della situazione, specie legata alla possibilità – sulla quale ho molti dubbi – di considerare il decreto legislativo delegato come avente una funzione meramente ricognitiva. Se si accedesse a questa ricostruzione, si potrebbe considerare l’“errore” compiuto dal Governo come “direttamente rimediabile” dal giudice, ove questi rilevi che, nonostante la diversa determinazione del decreto in parola, l’abrogazione era già intervenuta. In tal caso, forse, la non applicazione della previsione contenuta nel decreto delegato potrebbe trovare giustificazione nel meccanismo del tutto peculiare che caratterizza il cd. salva leggi. Viceversa, come pare preferibile, ben potrebbe riconoscersi che, almeno quanto all’effetto di delimitare l’ambito di applicazione della cd. ghigliottina (per salvare le disposizioni “indispensabili”), il decreto abbia ordinaria “efficacia normativa” e dunque non sia disapplicabile dal giudice.
Fermo restando l’errore del Governo, la questione può dirsi insomma aperta a diverse soluzioni, ma la relativa decisione potrebbe essere anche occasione per una più generale definizione dei confini dell’operato del giudice, specie ove la Corte costituzionale ritenga che la Cassazione abbia di fatto operato una “disapplicazione”. Ipotesi che troverebbe senz’altro conferma in un’eventuale decisione di accoglimento.
5. Breve “manuale pratico” per il giudice rimettente
Siamo ormai giunti alla conclusione, che vorrei proporre (o meglio riproporre) nei termini di una sorta di “manuale pratico” per i giudici, che avevo già offerto in un precedente lavoro. Un “manuale pratico” i cui contenuti hanno trovato conferma nella più recente giurisprudenza costituzionale qui in parte ripercorsa.
In estrema sintesi: «il giudice, per evitare che la questione da lui prospettata sia destinata ad essere dichiara “manifestamente inammissibile” per omesso tentativo di interpretazione conforme deve: a) vagliare (e dare conto di) eventuali indirizzi giurisprudenziali, di merito e di legittimità, che propongano soluzioni ermeneutiche diverse da quella da lui prospettata, dimostrando che la “lettera” della (o il “diritto vivente” formatosi sulla) disposizione interessata sia tale da precluderne una lettura conforme a Costituzione; b) evitare di proporre nel medesimo contesto motivazionale due opzioni ermeneutiche alternative; c) fornire “una esauriente e non implausibile motivazione circa le ragioni che lo hanno indotto a reputare l’opzione ermeneutica prescelta come l’unica praticabile” (sent. n. 231 del 2008). In sostanza, il giudice deve chiaramente indicare la (sola) opzione ermeneutica che si pone a fondamento del dubbio di costituzionalità, dimostrando di aver adeguatamente esplorato le eventuali diverse soluzioni offerte dalla giurisprudenza. Se tale “sforzo” è stato compiuto, la Corte, ove ritenga possibile una diversa interpretazione conforme a Costituzione della disposizione censurata potrà certamente rilevarla, ma entrando nel merito della questione e quindi presumibilmente adottando una sentenza interpretativa di rigetto» [43].
Al predetto “manuale pratico” posso accompagnare – o meglio, di nuovo, ribadire – una considerazione conclusiva. Entro i limiti sin qui considerati, l’interpretazione conforme del giudice non determina alcun travalicamento dei poteri spettanti alla Corte costituzionale. Interpretare, nel segno della Costituzione, non è, infatti, compito esclusivo della Corte costituzionale, ma obbligo che s’impone a diversi livelli, specialmente nei confronti del giudice (ma anche dell’amministrazione e, prima ancora, del legislatore nella sua opera di svolgimento e attuazione della Costituzione) [44].
L’importante è che non si sconfini nella disapplicazione, sempre permettendo al giudice di coinvolgere la Corte costituzionale e di ottenere una risposta nel merito, ove abbia sufficientemente argomentato le ragioni per cui ritenga che l’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione che si trova a dover applicare sia improbabile o difficile. È questo il limite entro il quale, secondo me, il giudice può o addirittura “deve fare da sé”.
[*] Il presente scritto trae origine da una mia lezione intitolata «Quando il giudice “deve fare da sé”: interpretazione adeguatrice, interpretazione conforme a Costituzione e disapplicazione», svolta per la Scuola superiore della Magistratura nell’ambito del corso «Il giudizio incidentale di costituzionalità» - Roma, Palazzo della Consulta, 16 maggio 2018.
[1] V. Crisafulli, Disposizione (e norma), in Enc. Dir., XIII, Milano, 1964, pp. 195 ss.
[2] In parte riprendendo riflessioni che ho già proposto altrove, molte delle quali ora condensate in M. Ruotolo, Interpretare. Nel segno della Costituzione, Napoli, 2014. Tra gli studi sull’interpretazione conforme a Costituzione, nella dottrina più recente: G. Sorrenti, L’interpretazione conforme a Costituzione, Milano, 2006; R. Romboli, Qualcosa di nuovo… anzi d’antico: la contesa sull’interpretazione conforme della legge, in P. Carnevale e C. Colapietro (a cura di), La giustizia costituzionale tra memoria e prospettive, Torino, 2008, pp. 89 ss.; M. D’Amico e B. Randazzo (a cura di), Interpretazione conforme e tecniche argomentative, Atti del Convegno di Milano, 6-7 giugno 2008, Torino, 2009; Aa. Vv., Corte costituzionale, giudici comuni e interpretazioni adeguatrici, Atti del seminario svoltosi a Roma presso Palazzo della Consulta il 6 novembre 2009, Milano, 2010; A. Ciervo, Saggio sull’interpretazione adeguatrice, Roma, 2011; F. Modugno, In difesa dell’interpretazione conforme a Costituzione, in Rivista AIC, www.rivistaaic.it, 18 aprile 2014; M. A. Gliatta, L’interpretazione conforme a Costituzione. Per una teoria garantista della funzione giurisdizionale, Napoli, 2014; M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enc. Dir., Annali IX, Milano, 2016, pp. 391 ss.
[3] La Corte costituzionale ha recentemente affermato la necessità di non procedere alla disapplicazione della norma interna, bensì di sollevare la questione di legittimità costituzionale, quando vi sia sospetto di contrasto con una norma della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Nella sent. n. 269 del 2017, la Corte costituzionale ha infatti specificato che «laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE». Per poter affermare che questo orientamento determini effettivamente un’ulteriore limitazione (oltre a quella rappresentata dai cd. controlimiti) alla “filosofia” della sentenza Simmenthal, nei termini di una contrazione dei poteri di disapplicazione del giudice comune, bisognerà vedere quale seguito avrà nella giurisprudenza anche in considerazione del fatto che la “novità”, pur riguardata con attenzione e molto commentata in dottrina, è contenuta in un obiter dictum. Secondo una certa lettura, gli spazi di intervento “diretto” del giudice comune sarebbero ormai irrimediabilmente ridotti quando venire in gioco siano le violazioni dei diritti della persona, che, come si legge nella sent. n. 269 del 2017, «postulano la necessità di un intervento erga omnes di questa Corte, anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.)»: così G. Zagrebelsky e V. Marcenò, Giustizia costituzionale, vol. II, Oggetti, procedimenti, decisioni, Bologna, 2018, p. 220; in senso analogo, tra gli altri, R. G. Conti, La Cassazione dopo Corte cost. n. 269/2017. Qualche riflessione, a seconda lettura, in Forum dei quaderni costituzionali, 28 dicembre 2017, nonché L. S. Rossi, La sent. 269/2017 della Corte costituzionale italiana: obiter “creativi” (o distruttivi?) sul ruolo dei giudici italiani di fronte al diritto dell’Unione europea, in federalismi.it, 31 gennaio 2018.
[4] Vale ancora il rinvio, per approfondimenti, al mio Interpretare, specie pp. 57 ss. Le considerazioni ivi espresse hanno trovato conferma nella giurisprudenza successiva al 2014, che qui sarà puntualmente richiamata.
[5] M. Luciani, Le funzioni sistemiche della Corte costituzionale, oggi, e l’«interpretazione conforme a», in federalismi.it, 8 agosto 2007, p. 7. La posizione di Luciani è ora più compiutamente esposta nella sua ricca voce Interpretazione conforme a Costituzione, cit., pp- 391 ss. In questa più recente opera le preoccupazioni dell’Autore sono espresse in modo molto chiaro, in termini di contrarietà alle «derive pangiurisdizionaliste che oggi dominano il dibattito scientifico e cominciano a percorrere il concreto funzionamento delle istituzioni» (422), le quali mirerebbero a sostituire a un processo nomopoietico democratico un processo aristocratico (vds. p. 393).
[6] Così G. Silvestri, Intervento, in Aa. Vv., Corte costituzionale, giudici comuni e interpretazioni adeguatrici, Atti del seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, il 6 novembre 2009, Milano, 2010, p. 323.
[7] Lo stesso M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, cit., p. 434, nota 350, scrive con riferimento al passo della sent. n. 1 del 2013: «per la verità in quella sentenza si parlava del metodo “meramente letterale”, sicché il riferimento non era all’interpretazione lettera in genere, ma a quella “solo” letterale». Poi aggiunge, nella stessa nota: «tuttavia, poiché […] tutti i metodi, da soli, sono “primitivi”, la formula impiegata dalla Corte, in un momento spirituale di tendenziale svalutazione del testo qual è l’attuale, deve ritenersi assai inopportuna»
[8] Così L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, 105, che richiama G. Tarello, L’interpretazione della legge, in A. Cicu e F. Messineo (a cura di), Trattato di diritto civile e commerciale, vol. I, 1.2, Milano, 1980, 25 e 111, nonché G. Silvestri, Linguaggio della Costituzione e linguaggio giuridico: un rapporto complesso, in Quad. Cost., 1989, pp. 231 ss.
[9] G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna, 2008, p. 240.
[10] E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1971, p. 266.
[11] Sempre E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, ed. corretta e ampliata da Crifò, Milano, 1990, vol. II, p. 826.
[12] L. Paladin, Le fonti, cit., p. 109.
[13] Cfr. G. Tarello, L’interpretazione della legge, cit., p. 336.
[14] V. Onida, L’attuazione della Costituzione fra magistratura e Corte costituzionale, in Scritti Mortati, IV, Milano, 1977, p. 537.
[15] F. Modugno, Metodi ermeneutici e diritto costituzionale, in Id., Scritti sull’interpretazione costituzionale, Napoli, 2008, pp. 68 e 79.
[16] M. Ruotolo, Alcuni eccessi nell’uso dell’“interpretazione conforme a…”, in Giur. Cost., 2007, 1222, nonché Id., Interpretare, cit., p. 32.
[17] V. Crisafulli, Disposizione (e norma), cit., p. 207.
[18] Come opportunamente rileva G. Silvestri, L’effettività e la tutela dei diritti fondamentali nella giustizia costituzionale, Napoli, 2009, p. 20.
[19] La relazione di G. Azzariti può essere letta in Giur. Cost., 1957, pp. 878 ss.
[20] C. Esposito, Nota senza titolo [ma nell’indice dell’annata 1958 è riportato il titolo “Compatibilità delle disposizioni di legge con la Costituzione e interpretazione della legge”] in Giur. Cost., 1958, p. 571.
[21] V. Crisafulli, Questioni in tema di interpretazione della Corte costituzionale nei rapporti con l’interpretazione giudiziaria, in Giur. Cost., 1956, p. 939.
[22] V. Crisafulli, Il “ritorno” dell’art. 2 della legge di pubblica sicurezza dinanzi alla Corte costituzionale, 1961, p. 895.
[23] G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, cit., p. 257.
[24] Sul “seguito” delle decisioni interpretative vds. G. Amoroso, I seguiti delle decisioni di interpretazione adeguatrice della Corte costituzionale nella giurisprudenza di legittimità della Corte di Cassazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2008, pp. 769 ss., nonché la ricerca del Servizio studi della Corte costituzionale dal titolo Il seguito delle decisioni interpretative e additive di principio della Corte costituzionale presso l’autorità giudiziaria – anni 2000-2005, pubblicata nella sezione “Studi e ricerche” del sito della Corte costituzionale (www.cortecostituzionale.it).
[25] Per l’analisi della vicenda giurisprudenziale rinvio al mio Interpretare, cit., pp. 117 ss., specie pp. 134 ss.
[26] Corte cost., sent. n. 332 del 2001.
[27] Così, ad es. ord. n. 3 del 2002, nonché ord. 252 del 2005.
[28] R. Romboli, Qualcosa di nuovo, cit., p. 111.
[29] Così, ancora, R. Romboli, op. cit., p. 112.
[30] Come sostenuto da tempo in dottrina. Cfr., almeno: G. Zagrebeslky, La dottrina del diritto vivente, in Giur. Cost., 1986, I, p. 101; A. Pugiotto, Sindacato di costituzionalità e diritto vivente, Milano, Giuffré, 1994, pp. 339 ss.; L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, Giuffré, 1996, p. 154.
[31] Così, con riferimento alla sent. n. 3 del 2015, M. Caredda, Quando “reinterpretare” dovrebbe equivalere ad accogliere, in Giur. Cost., 2015, p. 35, la quale aggiunge: «reinterpretare una ‘norma’ significa, infatti, sostituire un’interpretazione a un’altra, perché la seconda e non la prima è conforme a Costituzione. Ma se la prima è “diritto vivente” non si può rinunciare a dichiararla incostituzionale, salvo a voler sacrificare del tutto le esigenze della certezza del diritto in nome della ricerca a tutti i costi della soluzione conforme a Costituzione». Mi pare un buon modo di sviluppare l’intuizione crisafulliana per cui anche il diritto vivente può costituire “resistenza insuperabile” per addivenire a una soluzione conforme a Costituzione. Proprio V. Crisafulli, Il “ritorno” dell’art. 2, cit., p. 897, richiamato puntualmente nelle conclusioni della nota di Marta Caredda, affermava, infatti, che «il solo mezzo di cui disponga la Corte per stroncare indirizzi giurisprudenziali incostituzionali consiste nel dichiarare formalmente, in dispositivo, la invalidità della “norma vivente”, anche se, a suo giudizio, fondata sopra una erronea interpretazione».
[32] F. Modugno, Sulla specificità dell’interpretazione costituzionale, in Id., Scritti sull’interpretazione costituzionale, cit., p. 260.
[33] Ancora F. Modugno, In difesa dell’interpretazione conforme a Costituzione, cit., p. 23.
[34] Tra i tanti esempi che si potrebbero fare, mi limito a richiamare due pronunce nelle quali la Corte costituzionale ha attribuito rilievo decisivo a soluzioni ermeneutiche elaborate dalla giurisprudenza di legittimità a ridosso (ord. n. 133 del 2007) o addirittura a seguito (ord. 128 del 2007) dell’ordinanza di rimessione, chiedendo al giudice uno “sforzo” eccessivo o addirittura impossibile.
[35] L. Elia, Modeste proposte di segnaletica giurisprudenziale, in Giur. Cost., 2002, pp. 3689 ss.
[36] A commento della quale si è propriamente rilevato il «depotenziamento» dell’obbligo di interpretazione conforme a Costituzione: C. Tomba, Il “depotenziamento” dell’obbligo di interpretazione conforme a Costituzione. Un “nuovo” riflesso sulle tecniche decisorie? (a margine della sent. n. 221 del 2015), in Giur. Cost., 2015, 2063 ss. Cfr. anche G. Repetto, Il canone dell’incidentalità costituzionale, Napoli, 2017, pp. 131 ss.
[37] Cfr. F. Modugno, In difesa dell’interpretazione conforme a Costituzione, cit., § 3.
[38] Cfr. V. Ferreres Comella, Constitutional Courts and Democratic Values. A European Perspective, New Haven-London, 2009, pp.112 ss.; E. Lamarque Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, 2012, p. 129.
[39] In tal senso vds. G. Zagrebelsky e V. Marcenò, Giustizia costituzionale, vol. II, Oggetti, procedimenti, decisioni, Bologna, 2018, p.
219.
[40] G. Giostra, Carcere cautelare “obbligatorio”: la campana della Corte costituzionale, le “stecche” della Cassazione, la sordità del legislatore, in Giur. Cost., 2012, 4900.
[41] Per l’analisi della vicenda giurisprudenziale rinvio al mio Interpretare, cit., pp. 142 ss. Avevo previsto questa conclusione della vicenda in M. Ruotolo, Oltre i confini dell’interpretazione costituzionalmente conforme? A proposito della pronuncia della Cassazione sulla presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per il delitto di violenza sessuale di gruppo, in Rivista AIC, www.rivistaaic.it, 29 maggio 2012, p. 19.
[42] G. Zagrebelsky e V. Marcenò, Giustizia costituzionale, vol. II, cit., p.219.
[43] M. Ruotolo, Interpretare, cit., pp. 60 ss.
[44] M. Ruotolo, Interpretare, cit., pp. 157 ss.