Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

La lezione di Rocco Chinnici *

di Giovanni Melillo
procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo

Saluto con deferenza e gratitudine il Presidente della Repubblica.

Saluto e ringrazio altresì il Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, il Vice Ministro della giustizia, i rappresentanti della Magistratura e dell’Avvocatura di Palermo.

Porgo il mio saluto commosso ai familiari di Rocco Chinnici e delle altre vittime, leali servitori dello Stato e onesti cittadini, della strage di Via Pipitone Federico.

Le parole che fin qui hanno accompagnato il ricordo della figura e del lavoro di Rocco Chinnici confermano la profondità della traccia lasciata dall’esperienza umana e professionale di un magistrato al quale è dovuto il riconoscimento dell’appartenenza ad una ristretta cerchia di coraggiosi innovatori, i quali, partendo da una profonda conoscenza dei fenomeni criminali, hanno determinato grandi e duraturi cambiamenti del lavoro giudiziario e della stessa immagine sociale del magistrato.

Non di meno, ricordare Rocco Chinnici a quarant’anni dalla terribile strage che ne recise la vita chiama ad un esercizio della memoria capace di allargare lo sguardo anche oltre i confini della straordinaria esperienza della magistratura siciliana della quale Chinnici aveva assunto la guida, organizzativa, culturale e morale.

Allorquando Rocco Chinnici assunse l’incarico di Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo, in un’ideale linea di successione di Cesare Terranova, con il quale già aveva condiviso gli anni di lavoro seguiti al suo arrivo a Palermo nel 1966, il Paese era ancora al centro delle terribili manovre di destabilizzazione politica e sociale proprie, da un lato, della strategia della tensione inaugurata dalla strage di Piazza Fontana e, dall’altro lato, della sfida portata dal terrorismo di impronta marxista-leninista.

È oggi importante ricordare quella condizione di grave pericolo per la stabilità delle istituzioni democratiche.

Richiamare alla memoria quella drammatica stagione consente di comprendere meglio il significato dell’intimo legame fra l’esperienza del pool di Palermo e la stagione di impegno e sacrificio che vide giudici istruttori e p.m. sperimentare per la prima volta, proprio sul terreno delle indagini di terrorismo, il metodo del coordinamento investigativo e lo sforzo della costruzione di una visione unitaria di fenomeni altrimenti votati a letture frammentate.

Ma quella memoria consente anche di avere conferma di quanto e come le organizzazioni che miravano a disarticolare lo Stato ovvero, come nel caso di Cosa Nostra, a preservare i consolidati assetti che ne garantivano da decenni la sostanziale impunità, guardassero con preoccupazione e allarme all’ingresso in scena di nuovi attori e moderni metodi di lavoro investigativo.  

È solo apparentemente lontano allora il ricordo di un giudice istruttore milanese, Guido Galli, che Prima Linea uccideva il 19 marzo 1980, pochi mesi prima che a Palermo cadesse per mano mafiosa Gaetano Costa, Procuratore della Repubblica di Palermo.

In quel caso, Prima Linea avrebbe rivendicato l’assassinio con un lugubre comunicato, additando la vittima come magistrato «impegnato in prima persona nella battaglia per ricostruire l’ufficio istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente, adeguato alle necessità di ristrutturazione, di nuova divisione del lavoro dell’apparato giudiziario, alle necessità di far fronte alle contraddizioni crescenti del lavoro dei magistrati di fronte all’allargamento dei terreni d’intervento, di fronte alla contemporanea, crescente paralisi del lavoro di produzione legislativa delle camere…».

 

A ben vedere, la medesima rivendicazione era stata da Cosa Nostra affidata silenziosamente, ma per facta concludentia, alla scelta di ricorrere all’impiego di un’autobomba, spargendo terrore e il sangue anche di vittime innocenti, nel tentativo di spazzar via un’esperienza di lavoro che vedeva da alcuni anni impegnati, attorno a Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello, che vedo fra voi e saluto con l’amicizia e l’ammirazione di sempre.

Ciascuno di loro fu personalmente selezionato da Chinnici, il quale giustamente vantava una peculiare dote, oggi si direbbe, di talent scouting, essenziale per assicurare la coesione e l’omogeneità di un gruppo di lavoro chiamato a dar vita ad analisi avanzate dei fenomeni criminali, a praticare forme evolute di condivisione informativa e di concertazione operativa, a costruire una più razionale organizzazione delle conoscenze e delle iniziative processuali essenziali al contrasto di Cosa Nostra.

Un gruppo e un metodo di lavoro che demolivano la tradizionale, burocratica dimensione del lavoro del giudice istruttore, proiettandone gli obiettivi su due decisivi versanti: da un lato, la ricostruzione delle ricchezze mafiose ruotanti attorno all’oltremodo opaco sistema bancario del tempo, e, dall’altro lato, la ricerca di interessi e presenze mafiose fuori del territorio dello Stato, e, dunque, di canali privilegiati di collaborazione con le Autorità di altri Stati e innanzitutto degli Stati Uniti d’America.

Due direttrici di marcia nuove e feconde, che avrebbero dato grandi frutti anche negli anni successivi alla strage del 1983, con l’arrivo a Palermo di Antonino Caponnetto e l’ingresso nel pool, accanto a Falcone, Borsellino e Di Lello, dapprima di Leonardo Guarnotta e poi di Giacomo Conte, Ignazio De Francisci e Gioacchino Natoli.

Ma lo straordinario valore di quelle scelte originarie fu subito chiaro a tutti.

Lo rivelano le parole dello stesso Rocco Chinnici, il quale ebbe a ricordare con orgoglio in un’intervista il riconoscimento dato dalle autorità federali americane all’Ufficio Istruzione di Palermo come «centro-pilota della lotta antimafia ed esempio per le altre Magistrature d’Italia” e ai suoi componenti come “gruppo compatto, attivo e battagliero».

Del resto, come ha sottolineato Giuseppe Di Lello, è con Rocco Chinnici che «l’azione giudiziaria di contrasto alla mafia cambia passo e abbandona le vecchie prassi burocratiche del giudice che, chiuso nel suo ufficio, attende il risultato delle indagini delegate alla polizia giudiziaria».

Si aprì così una stagione di coraggiosa ed originale innovazione culturale, prima ancora che organizzativa e investigativa, della quale sono coerente espressioni l’impegno personale di Rocco Chinnici nel dibattito pubblico, il suo generoso sostegno alla diffusione della rivista Segno, ancor oggi attiva e preziosa e già allora animata dal redentorista Nino Fassulo, e, soprattutto, come aveva già fatto il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, la costante partecipazione di Rocco Chinnici al dialogo nelle scuole e con i giovani, sollecitandone le coscienze a guardare il fenomeno mafioso con consapevolezza e distanza critica.

Il Paese deve tanto a Rocco Chinnici. Magistrato che, come ebbe a ricordare un altro grande siciliano, Emanuele Macaluso, «del fenomeno mafioso sapeva cogliere sempre e solo l’essenziale, senza vagare tra le nuvole di teorie astratte, improbabili e romanzesche o nello scetticismo interessato e mistificatorio».

L’opera lungimirante di Rocco Chinnici fu dunque decisiva perché le indagini su Cosa Nostra alzassero lo sguardo verso le componenti più raffinate e pericolose di un’organizzazione criminale cresciuta a dismisura sulle ali dei traffici transoceanici di droga, ma soprattutto potendo contare sul fondamento, occasionalmente appena scalfito, di una secolare condizione di impunità, della quale era riflesso ed insieme garanzia anche l’indifferenza morale, quando non anche la compromissione, di larga parte delle classi dirigenti siciliane.

Correlativamente, la strage di via Pipitone Federico corrispose ad una scelta strategica di Cosa Nostra, che aveva lucidamente colto i rischi, per la sua stessa sopravvivenza, delle iniziative dell’Ufficio Istruzione di Palermo seguite al deposito del famoso rapporto Michele Greco + 162 e allo sviluppo delle istruttorie relative agli omicidi di Piersanti Matterella e Pio La Torre, che Chinnici istruiva personalmente, di Carlo Alberto Dalla Chiesa, affidato alle mani di Giovanni Falcone.

Iniziative impermeabili ad ogni influenza esterna e delle quali era sempre più evidente la proiezione verso gli snodi cruciali dell’architettura del potere mafioso.  

La strage, tuttavia, mancò, come le successive, il suo obiettivo strategico: la definitiva disarticolazione dell’esperienza del pool

Imprevedibilmente, il testimone idealmente passò dalle mani di Rocco Chinnici a quelle altrettanto coraggiose e colte di Antonino Caponnetto, che dell’esperienza originaria assicurò l’organica strutturazione e l’ulteriore sviluppo, attorno a formule organizzative apertamente mutuate dai modelli, soprattutto milanesi e torinesi, costruiti sul versante del terrorismo.

Quarant’anni dopo, tuttavia, non abbiamo soltanto il dovere di ricordare.

Ma anche e, forse soprattutto, quello di meditare su quei tragici eventi per trarne insegnamento.

La tormentata storia dei processi relativi alla strage del 29 luglio 1983 si offre naturalmente alla nostra riflessione. 

Una storia durata 20 anni, sviluppatasi attraverso ben 10 sentenze, costruita e sviluppata attorno all’ipotesi della responsabilità di due noti capi di Cosa Nostra, quali Michele e Salvatore Greco, e di due pressoché sconosciuti sicari, ma poi definitivamente esclusa e anni dopo rivelatasi anche sideralmente lontana dalla realtà.

Gli imputati immediatamente individuati furono condannati - all’ergastolo i fratelli Greco e a lunghe pene detentive i presunti esecutori - dapprima dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Caltanissetta e poi, a seguito di annullamento della Cassazione, altresì dalla Corte di Catania, prima che le Sezioni Unite annullassero anche quest’ultima pronuncia e il terzo giudizio d’appello, celebrato infine a Messina, ne dichiarasse l’assoluzione.

Ma non è del tormentato iter processuale che vorrei dire. Per quanto chiunque abbia memoria non possa non ricordare le tensioni e le polemiche che anche sulla stampa ne segnarono lo sviluppo.

Maggiore valore ai miei occhi ha il meditare sulla scelta dell’Ufficio requirente del tempo di scegliere la via della istruttoria sommaria, invocando il giudizio per un delitto così grave e con radici profonde dopo solo poche settimane di indagini, ma tagliando così la strada degli approfondimenti naturalmente allora affidata al giudice istruttore.

Una scelta che, da un lato, si nutriva della contrapposizione polemica fra la vecchia dimensione solitaria della funzione requirente e il metodo di lavoro dell’Ufficio Istruzione di Palermo e, dall’altro lato, risultava evidentemente protesa verso l’esemplare efficacia di una immediata risposta repressiva dello Stato.

Ma noi sappiamo che quando le valutazioni del magistrato sono influenzate dalle ansie collettive ingenerate da delitti più terribili il corso della giustizia è immancabilmente esposto al sinistro fascino della tentazione di ricercare il vero accontentandosi del verosimile, di fatto rinunciando a cogliere l’insidiosa natura del verosimile, cui partecipano insieme il vero e il falso, che alla giustizia tocca invece tenere separati.

Non è difficile scorgere in quelle scelte accusatorie i segni tipici della più nefasta hybris inquisitoria, non casualmente visibili anche in altre vicende processuali seguite alle più tremende sfide portate dalle mafie all’autorità dello Stato.

Per quanto, come avvenne anche per la strage del 29 luglio 1983, la giustizia possa dare prova di capacità di autocorrezione, la consapevolezza dell’enorme prezzo che in questi casi si paga, in termini sia di sofferenze ingiustamente inflitte che di credibilità delle istituzioni impone di trarre da quella lezione insegnamento e monito per il futuro.

Concludo con un’ultima osservazione, che pure proietta verso l’attualità il valore dell’esperienza di Rocco Chinnici e dei magistrati che attorno a lui si riunirono per condividere quella stagione di illuminato impegno e di duro lavoro.

Meditare sul significato di quell’esperienza, infatti, è importante per cogliere appieno la profondità delle radici e l’intima delicatezza dei problemi e delle scelte che anche oggi si pongono per immaginare e costruire l’organizzazione delle procure della Repubblica.

Si tratta di nodi problematici decisivi per assicurare la credibilità dell’intervento giudiziario ed evitare il rischio di un nuovo ripiegamento del lavoro investigativo in una dimensione individuale, che, al di là dell’apparente esaltazione dell’autonomia del singolo magistrato, in fondo partecipa ai caratteri burocratici e cognitivamente sterili che segnavano gli assetti dell’organizzazione giudiziaria che il metodo di lavoro partecipato e colto introdotto da Rocco Chinnici si proponeva di superare. 

Un rischio a mio avviso inevitabile quando la visione dell’organizzazione degli uffici del pubblico ministero si sviluppa secondo logiche di rassicurazione corporativa, di fatto sorde alla necessità di fare i conti con ineludibili istanze di unitarietà e uniformità dell’azione requirente, sempre più essenziali per contrastare fenomeni criminali di eccezionale complessità e gravità, tanto più nell’era della globalizzazione e dell’ingresso in scena delle neotecnologie.

Tali istanze privano di ogni credibilità l’idea che sia possibile immaginare un’organizzazione efficiente e trasparente del pubblico ministero al di fuori di una logica di condivisa e impersonale responsabilità, essenziale per la credibilità della giurisdizione, nella consapevolezza che correttezza ed uniformità dell’azione penale sono bisogni oggettivi che corrispondono ad istanze sociali reali e diffuse e non cavalli di Troia impiegati per superare le sacre mura dell’indipendenza della magistratura.

Percepire con chiarezza i rischi di autoreferenzialità tipici di dibattiti ripiegati in una miope dimensione corporativa aiuterebbe a rivelare l’urgenza di una riflessione collettiva su quanto invece nella realtà contribuisce a porre il pubblico ministero su un piano inclinato all’estremità inferiore del quale si ritrovano le insegne della marginalità del suo ruolo e del pratico svuotamento delle sue prerogative processuali.

E se così fosse, la lezione di Rocco Chinnici e del pool di Palermo sarebbe irrimediabilmente perduta.

[*]

Relazione al Seminario Memoria è continuità. Il lavoro di Rocco Chinnici dall’Ufficio Istruzione di Palermo alla legislazione antimafia italiana e europea (Aula magna del Palazzo di Giustizia di Palermo, 28 luglio 2023).

01/08/2023
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