Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Rule of Law o Rule of Courts?

di Francesco Florit
giudice della Corte d'appello di Venezia
Nel corso dei secoli, le istituzioni britanniche ci hanno abituato a conflitti titanici il cui esito ha segnato la tradizione del Common Law. La recente decisione della Supreme Court che ha dichiarato «unlawful, null and of no legal effect» la sospensione dei lavori del Parlamento disposta dal governo di Boris Johnson per cinque settimane rappresenta un altro di questi turning points nella storia dei rapporti tra poteri d’oltremanica. What’s next?

Dalla Magna Charta (1215) al conflitto tra Parlamento e Lord Cancelliere (il Ministro della giustizia) per la prevalenza del Common Law sull’Equity (metà XVII secolo), alle decisioni giudiziali che, all’inizio del XVII secolo hanno portato alla nascita del concetto stesso di Rule of Law (Case of Prohibitions, 1607, Case of Proclamations, 1611), la storia britannica è segnata dai rapporti di forza tra Corona, Parlamento, Governo e Corti, in una maniera che ha segnato lo sviluppo di quello che è considerato, a torto o a ragione, il sistema legale più influente al mondo.

La pronuncia della Corte suprema che la settimana passata ha dichiarato «illegale, nulla e di nessun effetto» la sospensione del Parlamento per cinque settimane disposta dal Governo Johnson si inserisce in questa tradizione.

Come premessa, è bene ricordare che il Governo Johnson, insediatosi alla fine di luglio, ha atteso fino alla fine di agosto per disporre una sospensione (denominata «prorogation») dei lavori del Parlamento. L’atto, in sé, non è illegittimo e corrisponde ad una prassi ricorrente ogni qualvolta il Governo intenda dare nuovo slancio alla propria attività (ad esempio a fronte di qualche evento politico significativo o di un consistente “rimpasto”). I lavori parlamentari, al termine della sospensione, riprenderanno con un nuovo discorso della Regina, che illustra il programma del Suo Governo. L’anomalia, questa volta, sta nella scelta del tempo e nella durata della sospensione (di solito limitata a pochi giorni o una settimana), che l’opposizione denuncia come preordinate a bloccare il dibattito politico, lasciando così mani libere al Governo prima del 31 ottobre (termine di uscita della UK dall’UE, in assenza di ulteriori rinvii).

Ciò premesso, vediamo brevemente, alcuni aspetti della vicenda giudiziaria e delle possibili conseguenze:

– la decisione è stata presa dalle “sezioni unite” o meglio dalla “full Court”, cioè dalla più ampia composizione della Corte possibile (11 giudici); la decisione è stata presa all’unanimità; per tali ragioni si tratta di una decisione dotata di particolare autorevolezza; la presenza di dissenting o di concurring opinions (queste ultime aderiscono al voto della maggioranza, ma per ragioni giuridiche differenti) è a volte utilizzata per criticare l’autorevolezza di un precedente. Il sospetto di bias politico dovrebbe essere escluso in radice; tuttavia non è stato così, come vedremo in seguito;

– due erano i punti principali della questione sottoposta alla Corte suprema: si chiedeva di determinare (i) se l’atto del Governo Johnson che ha disposto la prorogation potesse essere sottoposto al giudizio delle Corti («justiciable, justiciability») e, in caso di risposta positiva al primo quesito, (ii) quali fossero i parametri di valutazione della legalità dell’atto.

Sul primo aspetto, la Corte, pur riconoscendo che vi sono poteri del Governo che non sono soggetti a valutazione giudiziale (si menziona il potere di sciogliere il Parlamento), si è espressa in maniera assi chiara stabilendo che in generale e nel presente caso «le corti (minuscolo nell’originale, n.d.r.) hanno la responsabilità di sostenere la nostra costituzione... è loro specifica responsabilità determinare i limiti legali dei poteri conferiti a ciascun ramo del governo e decidere se un qualche esercizio di quei poteri abbia oltrepassato quei limiti… le corti non possono restringere tale responsabilità solo per la ragione che la questione sollevata è di natura politica nel tono o nel contesto». È la dottrina Bingham (Lord Bingham, The Rule of Law, 2010) secondo la quale il concetto più profondo della Rule of Law (RoL) è il principio per cui tutti i soggetti, pubblici o privati, individuali o collettivi, dovrebbero essere soggetti ai doveri e poter fruire dei diritti previsti da leggi non retroattive, pubblicate nonché pubblicamente amministrate dalle corti. Nella motivazione, per sorreggere l’argomento, viene citata una delle decisioni che è all’origine stessa del concetto di Rule of Law, il Case of Proclamations (1611).

Principi ovvi nella prospettiva continentale dello Stato di Diritto (SdD) e scontati anche sotto l’egida della RoL ma che è opportuno ribadire in un sistema costituzionale senza Costituzione scritta che in quest’area dimostra tutta la sua caratteristica “medievale” (Paolo Grossi, L’Europa del diritto). Per il modo in cui si è formata (per via giudiziale, senza mai portare allo strappo rappresentato dalla Rivoluzione di tipo “continentale”) la RoL ha consentito il permanere di istituti medievali (così tipici e così interessanti, anche nei riti e nelle forme) senza una precisa cesura. Il processo evolutivo è stata una riforma e non una rivoluzione. Per questa ragione, a differenza dello SdD, è possibile riscontrare il pluralismo delle fonti giuridiche. A produrre diritto, accanto al Common Law propriamente detto ci sono l’Equity, il Parlamento, il diritto amministrato da giurisdizioni particolari –che non usano, tecnicamente parlando, il Common Law. Vi sono poi i diritti e le libertà originarie del cittadino inglese britannico e, ancora più importante come fonte di diritto, i prerogative powers, i poteri propri della Corona, esercitati dal Governo in nome suo. Questi preogative powers sono il residuo vivissimo del potere assoluto originariamente donato da Dio al Sovrano (prima dello stabilirsi della RoL erano infatti definiti Divine Powers), progressivamente eroso dall’azione legislativa delle fonti nomopoietiche concorrenti (principalmente, le Corti ed il Parlamento). In definitiva, quello che differenzia RoL da SdD (qualunque sia l’accezione che a questo termine si voglia attribuire) è che nel Continente è solo la Legge ad assumere su di sé l’intero carico della legislazione ed a stabilire cosa è diritto e cosa è dovere (è l’illusione che si esprime nella idea post-rivoluzionaria della codificazione, generale ed astratta… ed eterna) mentre nella RoL vi è un policentrismo che “stempera” la tensione. In sostanza, con la Rivoluzione, al dispotismo del Sovrano Assoluto si è sostituito quello del Parlamento. In Inghilterra, quando la RoL è stata elaborata, il Sovrano già non era più assoluto (non quanto nel Continente, per lo meno) ed il Parlamento, d’altro canto, non è mai stato il monopolista della legislazione (che era nelle mani delle Corti). Lo stesso processo legislativo era inteso come rimedio eventuale alle insufficienze del Common Law. Un diritto parlamentare che nasce quindi dalla insufficienza del diritto in concreto, non una promessa di riforma permanente, generale ed astratta, come nel Continente. Una visione “rimediale” del diritto, prudentemente utilizzato, in contrasto con il concetto generalista e “prolifico” a noi noto (su questi aspetti, Gustavo Zagrebelsky, Il diritto mite nonché Diritto allo specchio). D’altronde, è bene ricordare che la nascita della Rule of Law precede di oltre 150 anni la Rivoluzione francese e di ben 200 anni la nascita del concetto di Stato di Diritto!

Quanto al secondo aspetto (quali siano gli standards di valutazione degli atti del Governo), la decisione chiarisce che questa prorogation è priva di giustificazione. Per giungere a tale drastica conclusione, la Corte innanzitutto osserva che il principio supremo del costituzionalismo britannico è la supremazia del Parlamento di Westminster che, in quanto espressione della volontà popolare, è superiore anche alla prerogativa regia. Ne deriva il principio della responsabilità parlamentare del Governo, che intanto può esercitare le proprie funzioni in quanto abbia la fiducia del Parlamento. Ciò implica che vi debbano essere dei limiti al potere governativo di sospendere i lavori del Parlamento perché altrimenti quest’ultimo sarebbe alla mercé del primo e non potrebbe svolgere liberamente la propria funzione di controllo dell’Esecutivo. Il principio dei checks and balances (che è, in un certo senso, il precursore storico della separazione dei poteri) non potrebbe dispiegare il proprio ruolo. Più è lunga la sospensione, maggiore il rischio che «un governo responsabile sia sostituito da un governo non responsabile: l’antitesi del modello repubblicano». Ne nasce la domanda: «Qual è il limite legale del potere di prorogare che lo rende compatibile con la capacità del Parlamento di eseguire le proprie funzioni costituzionali?» (par. 48). Nel rispondere alla domanda che si è posta, la Corte osserva (par. 49) che «un prerogative power (come quello appunto esercitato dal Governo) è solamente effettivo nella misura in cui è riconosciuto dal common law» di tal che (par. 50) «sarà illegale … se ha effetto di frustrare o prevenire, senza ragionevole giustificazione, l’abilità del Parlamento di svolgere le proprie funzioni di legislatura e di controllo dell’Esecutivo». E nel caso concreto ciò è avvenuto, sostiene la Corte, poiché non è stato fornito alcun ragionevole motivo che giustifichi l’eccezionalità di una sospensione di cinque settimane. Infatti, nota la motivazione a par. 59, la testimonianza (attraverso un affidavit, un documento scritto) di un ex Primo Ministro attesta che per scrivere il discorso della Corona che riapre i lavori del Parlamento al termine della sospensione sono necessari 4/6 giorni di lavoro. Perché sospendere per cinque settimane, allora? Nelle minute del Governo (allegate dalle parti) non vi è alcuna spiegazione. La Corte si limita ad osservare che manca una giustificazione e che conseguentemente tutta la catena di atti che ha portato alla sospensione è «illegale, nulla e priva di effetto» e che come tale non può comprimere la libertà del Parlamento di riunirsi, discutere e decidere (par. 68-70);

– ritornando per un momento alle caratteristiche del diritto anglosassone, è interessante notare che il ricorso principale non è stato presentato dal Parlamento (per lamentare un vulnus costituzionale) o da un gruppo di parlamentari (per denunciare la violazione delle rispettive prerogative di rappresentanti del popolo) ma da una privata cittadina, Mrs. Gina Miller. Immigrata di origine caraibica, è diventata una donna di successo nel mondo della finanza; ella impersona al meglio il desiderio di chi voglia appartenere alla comunità nella quale si è inserita, adempiendo ai propri doveri ma anche invocando per sé ed a beneficio dell’intera comunità i diritti originari del cittadino britannico. Difesa da David Pannick (un avvocato-scrittore: i suoi due libri Advocates e Judges forniscono gustosi e talvolta irriverenti spaccati della vita in corte), la Miller aveva già portato due anni fa davanti alla Corte suprema una decisione del Governo, costringendo all’epoca Theresa May a chiedere il “permesso del Parlamento” per esercitare il potere di uscire dall’Unione Europea (art.50 TUE). Ciò in forza del principio per cui avendo il Parlamento di Westminster legiferato nel 1972 in materia di ingresso nella Comunità Economica Europea, i prerogative powers della Corona (in concreto esercitati dal Governo) si erano oramai estinti in quell’area di legislazione. Poiché era stato il Parlamento a far entrare il Regno Unito “in Europa”, doveva essere il Parlamento a decidere se esercitare il diritto di recedere dall’UE.

La Miller, invocando un proprio diritto, non specificamente previsto dalla legge (ed in ciò sta la differenza rispetto, ad esempio, al ricorso in materia elettorale che può essere avanzato non esattamente dal quisque de populo ma solo dall’elettore della circoscrizione elettorale), ha chiesto una protection of legality che non sarebbe permessa negli ordinamenti di stampo continentale e che viene vista come una garanzia per ogni singolo cittadino;

– le conseguenze della decisione, sul piano pratico sono state immediate: il Parlamento si è riunito il giorno seguente, a sancire il trionfo sul Governo che aveva preteso di zittirlo. Ma nel corso della sessione è emersa la minaccia, nemmeno tanto velata, di sottoporre il potere giudiziario a selezione e scrutinio da parte della politica. L’Attorney General (Geoffrey Cox), chiamato a rispondere al question time in ragione della tecnicità delle domande formulate al governo (in particolare sulle ragioni per cui la Regina era stata mal informata sulla natura della prorogation) ha sostenuto che alla luce della progressiva politicizzazione delle decisioni che le Corti sono sempre più spesso chiamate a rendere, sarebbe opportuno riflettere sulla necessità di sottoporre la selezione dei giudici ad un vaglio da parte della politica. Tale affermazione, che in Italia susciterebbe scandalo, non è estranea al mondo anglosassone: non sono forse nominati dal Presidente degli Stati Uniti e poi approvati (o respinti) dal Parlamento i giudici della Corte suprema degli Stati Uniti d’America? Ed anche i giudici federali sono di nomina presidenziale. Ma in Gran Bretagna, la tradizione è del tutto differente e fa veramente scalpore sentire il supremo consigliere legale della Corona nonché membro del Governo, parlare con tanta leggerezza di temi così delicati. Tanto più che si riferiva alla suprema Corte del suo Paese, istituzione creata di recente (2005) e divenuta operativa ancor più tardi (2009) proprio per garantire l’indipendenza del giudiziario a seguito dell’incorporazione della Convenzione EDU in Gran Bretagna (avvenuta solo nel 2000). In precedenza la separazione dei poteri nel Regno non era pienamente realizzata giacché la suprema istanza giudiziale era il Judicial Committee of the House of Lords, cioè null’altro che una commissione della Camera dei Lords, il Senato britannico. Il Ministro della giustizia, poi, era al vertice del giudiziario (che, come noto, in Gran Bretagna è estremamente gerarchizzato) oltre che lo Speaker della House of Lord.

Che ad appena un decennio di distanza si lamenti l’eccessiva deriva ed incontrollabilità politica della Corte suprema è indice del malessere e dell’insofferenza della politica (noi italiani ne sappiamo qualcosa) nei confronti di un giudiziario visto come troppo indipendente e politicizzato (anche se la decisione è stata presa all’unanimità da undici giudici, ciò che dovrebbe rendere intuitivamente risibile ogni ipotesi di politicizzazione).

Di fronte a tale deriva, voci autorevoli si sono alzate per invocare il passaggio dall’attuale sistema ad una Costituzione scritta. John Bercow, lo Speaker dei Commons (il Presidente della Camera) ha detto che è giunto forse il momento di mettere qualcosa per iscritto. Sarebbe, a sommesso parere di chi scrive, il crollo di un mito, quello della capacità di un popolo di conoscere così bene e di interiorizzare così profondamente il significato della law of the Land da non aver bisogno di scriverla, supremo esempio (una vera rarità, oramai) di condivisione di valori e di tessuto sociale coeso. Nonostante la società britannica sia sempre più varia e policentrica, con le inevitabili tensioni che questo genera, si dubita che il passaggio alla forma scritta possa avvenire nell’immediato futuro: la Costituzione alla quale Bercow si riferiva è la parte relativa ai poteri dello Stato, non l’elenco dei diritti e delle garanzie individuali e collettivi. Quelli sono scritti già da secoli nella Magna Charta (1215) e nel Bill of Rights (1689) e nessuno potrebbe pensare di incorporarli in una nuova Carta. Quanto ai rapporti tra poteri, la coesione della politica intorno ai concetti fondamentali del diritto costituzionale ed alla figura della Corona è tale da rendere dubbio che un’operazione di “memorializzazione” della Costituzione sia necessaria ed auspicabile. Né il linguaggio legislativo tipico del Parlamento di Westminster (con le sue lunghe elencazioni e precisazioni terminologiche preliminari) pare adatto alla bisogna. Come evidenziato da David (René David, Sistemi giuridici comparati) la legislazione britannica non brilla per chiarezza e richiede sempre un lavoro di definizione da parte della Corti. A volte è meglio in non-detto;

– infine, due parole sul processo giudiziario in sé: non si può che ammirare la rapidità della soluzione, raggiunta in appena un mese e mezzo dalla proposizione del ricorso iniziale. Nel corso dell’udienza, durata tre giorni, ogni tema è stato analizzato in profondità, con ampio spazio per il contraddittorio, svolto nelle forme (lente ma) articolate che la tradizione curiale britannica impone. Tutto ciò va a vantaggio della credibilità dell’istituzione (la Corte suprema) e pone il giudiziario britannico in condizione di svolgere un ruolo fondamentale nel mantenere efficiente la democrazia del Paese. Tanta celerità è consentita da una procedura snella e dal fatto che la Corte suprema è oberata (si fa per dire) da un numero di processi che la pone in grado di decidere quasi “in tempo reale”. Se si va sul sito della Corte, si vede che i casi decisi per anno non sono più di un’ottantina (80!). Il confronto con i dati della Corte di cassazione, ingolfata da quasi 60.000 procedimenti (solo quelli penali) all’anno è purtroppo impietoso.

04/10/2019
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