Magistratura democratica
Prassi e orientamenti

Sulla legittimazione ad agire per le discriminazioni collettive afferenti al fattore della nazionalità*

di Roberto Riverso
Consigliere presso la Corte di cassazione
La questione processuale in esame – indispensabile ai fini della tutela effettiva del diritto – non è suscettibile di essere risolta sulla base di una semplice interpretazione letterale di un’unica disposizione sostanziale (l’art. 3 del d.lgs n. 215/2003) di provenienza comunitaria, dettata dall’intento di riservare ai singoli Stati la regolazione della materia dell’immigrazione; e che pertanto non interferisce con le regole processuali vigenti negli Stati membri. Si tratta invece di una questione articolata di cui il giudice deve farsi carico raccordando varie norme e principi (comunitari e costituzionali), senza parcellizzazioni, valorizzando l’interpretazione complessiva e l’intenzione dello stesso legislatore, il quale mostra in più sedi di considerare unitariamente i fattori di discriminazione, anche sotto il profilo della loro tutela processuale

1. Premessa

Il tema della praticabilità di azioni collettive a tutela delle discriminazioni per ragioni di nazionalità, ed in particolare del riconoscimento della legittimazione ad agire in capo ad enti collettivi, è una questione di carattere processuale che attiene al fattore della nazionalità e della cittadinanza. Essa si è posta sempre più spesso man mano che è venuto formandosi nel nostro Paese una sorta di diritto speciale relativo alla condizione di straniero, in ragione cioè della sua appartenenza a nazionalità diversa da quella del cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea. Si fa riferimento ad una serie di norme frammentate, di vario contenuto e provenienza, che sono rivolte a regolare diversamente la vita degli stranieri rispetto a quella dei cittadini italiani e di quelli appartenenti a Stati membri della Ue, rispetto al godimento dei diritti e nella fruizione di beni e servizi (accesso al lavoro, alla casa, al credito agevolato, alla scuola, alle tasse universitarie, all’assegno sociale, all’assegno per i nuclei familiari numerosi, alla pensione di reversibilità, al beneficio economico di natalità; alla possibilità di poter aprire esercizi commerciali, alla social card; al servizio civile; al matrimonio; agli atti dello stato civile, alla cittadinanza, al trasferimento di denaro; al fisco; ai trasporti, etc.).

Queste disposizioni assumono a fondamento del trattamento differenziale la nazionalità (non l’etnia, non la razza) e pongono il problema della loro conformità ai principi costituzionali ed al diritto sovranazionale; sicché nel corso degli ultimi anni è divenuta sempre più importante la tutela giudiziaria in relazione a questo genere di trattamenti − praticati anche a livello istituzionale − ed i giudici hanno assunto in proposito un ruolo spesso decisivo ai fini dell’eliminazione delle diseguaglianze.

2. L’effettività della tutela su base collettiva

Esiste dunque il diritto di sindacare in giudizio comportamenti e disposizioni di questo tipo attraverso un’azione collettiva? Si tratta di uno strumento fondamentale per superare la scarsa effettività che nella realtà quotidiana affligge la normativa antidiscriminatoria, perché l’azione individuale richiede risorse economiche spesso assenti nelle vittime di queste discriminazioni e le controversie in giudizio restano pertanto un numero limitato.

L’azione collettiva è necessaria per la tutela effettiva dei beni, perché funziona in via preventiva e generale; eliminando per sempre l’atto discriminatorio, prima ancora che si produca il danno a carico di tutte le potenziali vittime.

Allo scopo, sotto il profilo dell’interesse ad agire, è sufficiente che gli effetti pregiudizievoli siano potenziali, perché l’effetto discriminatorio si produce sul piano collettivo anche solo con l’adozione dell’atto, che provoca appunto effetti differenziati e dissuasivi sufficienti ad attualizzare l’interesse ad agire in capo al soggetto esponenziale; titolare iure proprio di situazioni soggettive di natura collettiva, le quali vengono in vita prima ed a prescindere dall’esistenza degli interessi individuali.

Il mezzo di tutela presuppone il diritto a non essere discriminati; e rimanda alla normativa sostanziale di tutela che riconosce il diritto alla parità; alla normativa di carattere internazionale, comunitaria, alla Carta europea dei diritti dell’uomo, alla Cedu, alla Costituzione italiana ed alle leggi che riconoscono la parità di diritti alle persone, senza distinzione fondate sulle nazionalità.

3. La sua vocazione universale

La questione dell’esistenza nell’ordinamento di uno strumento processuale di natura collettiva che protegga dalle discriminazioni per nazionalità vale però per tutti: non solo per i cittadini di Paesi non membri dell’Unione (i quali non possono essere discriminati rispetto ai diritti fondamentali e per quelli stabiliti su vari aspetti dal diritto interno e comunitario), ma vale anche per i cittadini italiani (si pensi alle cosiddette discriminazioni a rovescio) e per i cittadini dell’Unione europea ai fini della tutela effettiva dei diritti di cittadinanza stabiliti nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (art. 18 TUEF).

A tale ultimo riguardo va richiamata la direttiva n. 2014/54 relativa alle misure, anche a carattere collettivo, previste per agevolare l’esercizio dei diritti conferiti ai cittadini comunitari nel quadro della libera circolazione dei lavoratori.

Per favorire la libera circolazione ed il superamento delle discriminazioni legate alla nazionalità la direttiva prevede all’articolo 3, comma 2 mezzi di tutela processuali collettivi a carattere sostitutivo-adesivo. Allo scopo si prevede che: «Gli Stati membri provvedono affinché le associazioni, le organizzazioni, comprese le parti sociali, o altri soggetti giuridici che abbiano, secondo i criteri stabiliti dalla loro legislazione, dalle loro prassi o dai loro contratti collettivi nazionali, un legittimo interesse a garantire che la presente direttiva sia rispettata, possano avviare, per conto o a sostegno di un lavoratore dell’Unione e dei suoi familiari, con la loro approvazione, qualsiasi procedimento giudiziario e/o amministrativo finalizzato all’attuazione dei diritti di cui all’articolo 1».

Tuttavia, la stessa forma di tutela − prevista in capo al soggetto collettivo per conto o a sostegno di singoli lavoratori e con la loro approvazione − va però letta alla luce del considerando 15 in cui si prevede una autonoma legittimazione in capo alle organizzazione collettive; posto che la prima «non dovrebbe pregiudicare le norme procedurali nazionali relative alla rappresentanza e alla difesa in giudizio, né altre competenze e altri diritti collettivi di parti sociali, rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, ad esempio legati all’attuazione di contratti collettivi, se del caso, comprese azioni in nome di un interesse collettivo, ai sensi della legislazione o delle prassi nazionali. Al fine di garantire una tutela giurisdizionale efficace, e fatti salvi i meccanismi di difesa collettiva esistenti a disposizione delle parti sociali nonché la legislazione o le prassi nazionali, gli Stati membri sono invitati a esaminare l’attuazione di principi comuni per meccanismi di ricorso collettivo di natura inibitoria e risarcitoria».

4. La sentenza della Cassazione n. 11165 dell’8 maggio 2017

In attesa che venga recepita la direttiva n. 2014/54, la questione della legittimazione per discriminazioni collettive legate alla nazionalità è ancora resa incerta nel nostro Paese da un quadro normativo frastagliato che contempla la sovrapposizione di normative dedicate ai diversi fattori discriminatori di varia provenienza (comunitaria e nazionale), contenenti nozioni di discriminazione differenti e la previsione di azioni e legittimazioni aventi ambiti diversi in capo a soggetti differenti, e talora non sovrapponibili. Esse sembrano non contemplare espressamente un’azione collettiva per ragioni discriminatorie afferenti la nazionalità.

La Corte di cassazione di recente, con la sentenza n. 11165 dell’8 maggio 2017, ha inteso risolvere espressamente i problemi di coordinamento tra i decreti legislativi n. 215/2003 e n. 216/2003 di recepimento delle direttive gemelle n. 2000/43/CE e n. 2000/78/CE (dedicate ai fattori razza e etnia; occupazione e condizioni di lavoro) ed il testo unico immigrazione di cui al d.lgs n. 286/1998, il quale contiene le norme sul divieto di discriminazione anche per nazionalità.

Il motivo sostanziale della controversia riguardava la mancata corresponsione ai cittadini extracomunitari dotati di permesso di lungo soggiorno – in violazione alla direttiva comunitaria n. 2003/109/CE – dell’assegno per i nuclei familiari numerosi, riconosciuto invece ai cittadini italiani ed ai cittadini dell’Ue (per il periodo precedente  alla legge europea 6 agosto 2013, n. 97 che ha riconosciuto il diritto alla stessa prestazione a seguito dell’apertura di una procedura di infrazione, senza estenderlo secondo l’Inps al periodo precedente la sua entrata in vigore).

Una controversia che poneva, oltre al problema della interpretazione della legge interna 6 agosto 2013, n. 97, che aveva riconosciuto in ritardo il diritto in questione, quello della interpretazione della direttiva europea e della sua eventuale applicazione diretta.

Occorreva verificare se lo Stato Italiano avesse assicurato il corretto recepimento della direttiva n. 2003/109/CE, sussistendo l’obbligo di darvi attuazione con la trasposizione nell’ordinamento interno entro la scadenza del termine di recepimento del 23 gennaio 2006, fissato dalla stessa direttiva (art. 26); ovviamente con il supporto di un corrispondente stanziamento finanziario, adeguato cioè rispetto al raggiungimento del risultato imposto dalla direttiva. La Cassazione ha riconosciuto l’esistenza di una discriminazione collettiva affermando che la legge dovesse interpretarsi in armonia con la direttiva e valesse dunque anche per il passato.

5. La sentenza della Corte di giustizia 21 giugno 2017 (caso C-448/16)

In seguito, la Corte di giustizia con sentenza 21 giugno 2017 (caso C-448/16) ha affermato in sede di pronuncia pregiudiziale su rinvio della Corte di appello di Genova, l’obbligo dell’Italia di riconoscere l’assegno per famiglie numerose previsto dall’articolo 65 legge 488/98 (80 euro al mese fino al compimento dei 18 anni) a tutti i cittadini titolari di un permesso di soggiorno (direttiva UE n. 2011/98 come il permesso per famiglia o quello per lavoro) che consente di lavorare, affermando che essi hanno diritto alla parità di trattamento per l’accesso alle prestazioni “di sicurezza sociale” previste dal regolamento CE n. 883/04. Non conta che si tratti di prestazioni assistenziali che gravano sulla fiscalità generale e non connesse alla titolarità, attuale o pregressa, di un rapporto di lavoro. Secondo la Cgue tutte le prestazioni sociali che vengono erogate sulla base di requisiti predeterminati (come il numero di figli e il reddito), senza valutazione discrezionale della pubblica amministrazione, sono a ogni effetto “prestazioni di sicurezza sociale”, indipendentemente dalle modalità di finanziamento e dal collegamento con un rapporto di lavoro. Esse quindi soggiacciono al vincolo di parità previsto dalla direttiva n. 2011/98 e tutti gli stranieri titolari di un permesso che consente di lavorare, siano essi lavoratori effettivi o no, ne devono poter fruire a parità di condizioni con i cittadini italiani.

Analoghi principi potrebbero ora affermarsi anche in relazione ad altre prestazioni di sicurezza sociale (il “bonus bebè”, l’assegno di maternità per donne disoccupate, il premio alla nascita introdotto nel 2017, le prestazioni contro la povertà), che non vengono ancora attribuite a tutti i cittadini extracomunitari dotati di permesso di soggiorno ma soltanto a quelli con permesso di soggiorno di lungo periodo; escludendo così il 40 per cento degli immigrati regolari. Si tratta di qualche centinaio di migliaia di persone. E ci auguriamo che ai fini del loro riconoscimento non sia necessario promuovere altrettante cause a livello individuale e che possano bastare poche cause su base collettiva.

6. Necessità di affermare la legittimazione collettiva

La Corte di cassazione nella citata pronuncia (n. 11165/17) ha affermato l’esistenza di una discriminazione nella mancata erogazione dell’assegno alle famiglie numerose, sulla base di una azione collettiva promossa da una associazione iscritta nel registro delle associazioni legittimate ai sensi dell’art. 5 del d.lgs n. 215/2003, riconoscendo dunque la legittimazione all’azione collettiva in capo allo stesso ente.

Ciò ha fatto evidenziando la necessità di riconnettere gli strumenti processuali alle esigenze del diritto sostanziale; sostenendo la necessità di operare una interpretazione di sistema a livello processuale, in grado di cogliere le connessioni tra le varie branche del diritto antidiscriminatorio, di leggerne lo sviluppo, di ammettere l’esistenza di un corpus normativo dotato di una sua coerenza e di principi comuni, allo scopo di escludere antinomie ed ingiustificabili vuoti di tutela alla luce della Costituzione e dei principi di derivazione comunitaria.

Il punto di partenza di questa interpretazione è presenza nell’ordinamento all’art. 13 del TU immigrazione (d.lgs n. 286/1998) di una nozione sostanziale di discriminazione ampia sia sul piano dei fattori vietati, sia sul piano delle modalità di manifestazione (dirette e indirette, e individuali e collettive). Una nozione alla cui stregua nessuno più dubita che esista quindi il diritto sostanziale a non essere discriminati collettivamente in ogni campo della vita sociale per l’appartenenza ad una determinata nazionalità. 

È stato inoltre rilevato come l’ordinamento contempli una serie composita di strumenti processuali, anche a carattere collettivo, che garantiscono alle vittime di discriminazione una tutela piena: risarcitoria-compensativa (con riparazione del danno anche non patrimoniale), costitutiva o dichiarativa (con l’invalidazione degli atti compiuti dall’istituzione, dal datore o da terzi aventi effetti discriminatori), ma anche forme di tutela in forma specifica (o satisfattiva-inibitoria) rivolte a garantire la soddisfazione in natura dei diritti delle persone discriminate, ossia a far conseguire la soddisfazione di quel bene di quel diritto che è stato negato[1].

Il d.lgs n. 150/2011, inoltre, detta un unico procedimento (art. 28) in materia di discriminazioni anche collettive, in cui si prevede la legittimazione dell’“ente collettivo” (art. 34), senza distinzione quanto ai fattori in relazione ai quali possa essere attivata.

Ora è possibile che a fronte di tanta abbondanza normativa, il diritto a non essere discriminati collettivamente per motivi di nazionalità non trovi un mezzo di tutela adeguato? Possibile che tra i tanti fattori discriminatori quello che è oggi il più insidioso per il principio di eguaglianza non goda di uno strumento di tutela dotato di effettività?

La Corte di cassazione ha detto di no, affermando che una esclusione di tutela per le discriminazioni di natura collettiva fondate sulla nazionalità assumerebbe la conformazione di un vuoto di tutela; non giustificabile perché porterebbe a negare l’esistenza stessa e la rilevanza nell’ordinamento di discriminazioni collettive fondate sulla nazionalità ovvero del diritto a non essere discriminati collettivamente per lo stesso fattore.

a) Per la Corte la conclusione negativa non è accoglibile, perché anzitutto, un rapporto può essere istituito anche sul piano letterale e sistematico tra le varie previsioni che si occupano delle tutele processuali. In particolare tra gli artt. 2 e 4 del d.lgs n. 215/2003 che regola i fattori della razza e dell’etnia e l’art. 43 TU immigrazione che prevede la nozione di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

L’art. 43, commi 1 e 2 del TU sull’immigrazione considera infatti la nazionalità tra i fattori di discriminazione vietati in ogni campo della vita sociale, con una previsione che comprende atti di qualsiasi tipo, inclusivi anche di offese ad interessi di tipo collettivo; e pertanto anche le discriminazioni definite collettive («ogni comportamento» di pubbliche amministrazioni o di privati che abbia «lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica»).

A queste discriminazioni collettive viene apprestata la tutela processuale dell’art. 44, comma 10 TU nell’ipotesi in cui vengano commesse dal datore di lavoro, prevedendosi allo scopo la legittimazione ad agire in capo alle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale.

Non è pertanto l’art. 44, comma 10 che individua la nozione sostanziale di discriminazione collettiva; esso la trova nell’art. 43, comma 1 e 2, limitandosi a fornirle tutela per l’ipotesi ivi prevista.

Quando poi il d.lgs n. 215/2003 (all’art. 2, comma 2) prevede, anzitutto, che sia «fatto salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2», è a questa nozione generale che intende quindi fare riferimento ovvero alla discriminazione di natura diretta o indiretta, individuale o collettiva, ivi regolata come oggettiva.

E quando, poi, all’art. 4, comma 1, il medesimo d.lgs n. 215/2003 stabilisce che «la tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui all’articolo 2 si svolge nelle forme previste dall’articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del testo unico» è a tutte le discriminazioni (individuali e collettive, dirette ed indirette) ivi previste che intende rivolgersi, attraverso una previsione che riconnette logicamente lo strumento processuale alla nozione sostanziale.

b) In secondo luogo a legittimazione ad agire in capo ad un soggetto collettivo rappresenta una regola di sistema largamente presente nel settore antidiscriminatorio (oggi anche nella citata direttiva n. 2014/54/UE), in sintonia con l’esigenza tipica della materia di apprestare tutela, attraverso un rimedio di natura inibitoria, ad una serie indeterminata di soggetti dal rischio di una lesione avente natura diffusiva che deve essere, perciò, se è possibile prevenuta o circoscritta nella propria portata offensiva.

Un’azione individuale o collettiva è prevista (dell’art. 5 d.lgs n. 215/2003) per la repressione di comportamenti discriminatori per ragioni di razza o di origine etnica; per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro nell’ambito dei luoghi di lavoro (all’art. 4, d.lgs 9 luglio 2003, n. 216); per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni(a mente dell’art. 4 di cui alla legge 1° marzo 2006, n. 6); per la repressione delle condotte discriminatorie per ragioni di sesso nell’accesso a beni e servizi e loro fornitura (art. 55-quinquies, d.lgs 11 aprile 2006, n. 198); in base al codice delle pari opportunità tra uomo e donna (art. 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246); per discriminazioni di qualsiasi tipo anche fondate sulla nazionalità ai sensi dell’art. 44, comma 10 TU nell’ipotesi in cui vengano commesse dal datore di lavoro; in base all’art. 28 dello Statuto, in ipotesi di comportamenti discriminatori plurioffensivi.

c) Si consideri inoltre che, in base all’art. 5 del decreto legislativo n. 215/2003, le associazioni − alle quali si vorrebbe negare la legittimazione ad agire per discriminazioni collettive contrassegnate dal fattore della nazionalità − sono quelle iscritte nell’elenco approvato con decreto ministeriale (previsto appunto dall’art. 5 del d.lgs n. 215/2003) per le finalità programmatiche che le contraddistingue; le quali associazioni in base all’art. 52 del dPR n. 349/1999 devono essere qualificate dallo svolgimento di «attività a favore degli stranieri immigrati» e dallo «svolgimento di attività per favorire l’integrazione sociale degli stranieri» (non quindi testualmente in relazione alla razza o etnia).

Ora, affermare che esse possano agire in giudizio solo per le discriminazioni per razza o etnia e non per il fattore della nazionalità che serve a qualificarle, non è solo palesemente illogico; ma introdurrebbe un ulteriore difetto di coordinamento tra norme di diverso livello, in quanto porterebbe ad ipotizzare che la legittimazione ad agire per un certo tipo di discriminazioni (razza o etnia) sia stata conferita ad enti che si occupano di un fattore di discriminazione che viene ritenuto dall’ordinamento del tutto differente, di diverso contenuto e rilevanza (come appunto la nazionalità straniera).

d) Il mancato conferimento della legittimazione ad agire in capo ad un ente esponenziale in caso di discriminazione per nazionalità susciterebbe perciò evidenti ed immediati dubbi di costituzionalità (ai sensi degli artt. 3 e 24 Cost.): sia ove si considerino le differenze di trattamento processuale che verrebbero introdotte (senza ragionevole giustificazione) tra fattori di discriminazione che godono di eguale protezione nell’ordinamento (ai sensi dell’art. 43 TU immigrazione, d.lgs n. 215/2003, d.lgs n. 216/2003 e d.lgs n. 198/2006); sia in relazione al fatto che il medesimo fattore della nazionalità rileverebbe diversamente, rispetto alla legittimazione ad agire, se la discriminazione collettiva fosse commessa ai danni di cittadini Ue (in base alla direttiva n. 2014/54) oppure in ambito lavorativo ai danni degli stessi cittadini non comunitari; talché non si capirebbe a tale proposito perché la discriminazione di cittadini extra Ue per motivi di nazionalità sul lavoro abbia una tutela collettiva; e se riguardi invece un altro ambito (l’accesso alla casa o all’assistenza sociale) abbia un’altra tutela.

e) Un ulteriore profilo di contrarietà alla Costituzione (art. 117 Cost.) emergerebbe in relazione alla Cedu, in quanto il diritto al giusto processo (previsto dall’art. 6) verrebbe diversamente garantito a seconda dei differenti fattori di discriminazione che risultano vietati nell’art. 14 (e nei quali vi è incluso quello relativo all’origine nazionale).

f) L’esclusione della legittimazione ad agire nella discriminazione collettiva fondata sulla nazionalità non appare poi conforme ai principi di equivalenza ed effettività della tutela valevoli in ambito comunitario. Il principio di effettività del diritto europeo postula una tutela giuridica che tenga natura dell’interesse leso e degli scopi della tutela, come ha già affermato la Cgue nella sentenza relativa al caso Feryn riconoscendo la rilevanza della discriminazione collettiva (la cui esistenza «non presuppone un denunciante identificabile che asserisca di essere stato vittima di tale discriminazione»)[2].

g) Il principio comunitario di equivalenza postula che per i diritti di derivazione comunitaria lo Stato non può approntare sanzioni e rimedi (ivi compresi quelli processuali) di livello ed efficacia inferiore rispetto a quelli approntati per la violazione di analoghi diritti garantiti dall’ordinamento nazionale. In altri termini il legislatore interno è tenuto ad assicurare una tutela processuale equivalente a situazioni analoghe disciplinate dal diritto interno quando il diritto deriva dall’ordinamento comunitario, senza che sia previsto uno strumento processuale ad hoc.

Per questa serie di ragioni (testuali, logiche, sistematiche, costituzionali e comunitarie) la tutela processuale che riconosce la legittimazione collettiva − in materia di discriminazioni per razza o etnia − va applicata anche ai diritti che vietano le discriminazioni per nazionalità. Si tratta infatti di una azione espressamente richiamata (fatta salva) nel decreto legislativo n. 215/2003 che diviene così un modello di tutela valido per ogni situazione discriminatoria, sia per i cittadini italiani, sia per i cittadini di Stati membri, sia per i cittadini di Paesi non appartenenti alla UE.

Pur in mancanza di espresse disposizioni, il giudice deve assicurare l’attuazione di questi complessi principi armonizzando il diritto processuale interno ai principi europei e costituzionali. Un’operazione di sistema che se non fa il giudice sul piano interpretativo, non la fa nessuno. Non potendo i giudici deflettere dal loro compito di continuo adeguamento delle norme, allo scopo di assicurare l’effettiva tutela dei diritti la quale non può ritenersi consegnata ad un ordinamento reso immutabile o definito dall’unica volontà contenuta in una legge atomisticamente intesa.

7. La tesi contraria. L’ordinanza del 21 giugno 2017 del Tribunale di Firenze

A questa serie di considerazioni viene opposto un unico argomento contrario di natura letterale, basato su di una unica norma. Si sostiene che l’art. 3 del d.lgs n. 215/2003, che al comma 1 riconosce la legittimazione collettiva (rinviando all’art. 4), si riferisca solo alle discriminazioni per razza ed origine etnica; ed escluda anzi al comma 2 dal proprio “ambito di applicazione” le differenze di trattamento basate sulla nazionalità; ripetendo sul punto quanto previsto dalla direttiva comunitaria della direttiva (art. 3, dir. n. 2000/43/CE), di cui costituisce attuazione.

Di recente, questa tesi è stata sostenuta dal Tribunale di Firenze (ordinanza del 21 giugno 2017) che in sede di reclamo cautelare, riformando la decisione presa in via d’urgenza dal giudice monocratico, ha ritenuto di non conformarsi al recente precedente della Cassazione e di non esaminare il ricorso di un’associazione a tutela di cittadini non comunitari esclusi dalla partecipazione al concorso per l’accesso al pubblico impiego come assistente giudiziario, negando appunto la legittimazione ad agire.

Per i fautori di questa tesi e per il Tribunale di Firenze il diritto comunitario sarebbe quindi all’origine di questa discriminazione; perché la direttiva n. 2000/43 all’articolo tre, punto 2 (ribadito testualmente dal d.lgs n. 215/2003) stabilisce appunto che essa non riguardi le differenze di trattamento basate sulla nazionalità ma solo quelle per razza ed etnia secondo la clausola recepita nei decreti di attuazione.

Per fare un esempio, sulla scorta di un’interpretazione di questo tipo nel nostro Paese la associazione collettiva sarebbe stata ammessa ad agire in giudizio se il bando di concorso avesse previsto l’esclusione per i cittadini di colore; ma non se ha vietato l’accesso ai cittadini senegalesi.

Questo ragionamento adagiato su una interpretazione che si assume testuale, finisce però per sovrapporre disciplina sostanziale e processuale; e ad obliterare principi cogenti per il giudice, in ogni momento della sua attività interpretativa; ad iniziare dall’obbligo di verificare la compatibilità costituzionale della soluzione accolta e di preferire di fronte a possibili interpretazioni differenti di un medesimo testo normativo quella che risulti conforme alla Costituzione ed al diritto comunitario. Obbligo che invece il Tribunale di Firenze sostiene di poter tranquillamente bypassare «stante la natura cautelare del procedimento».

Ora, è vero che le differenze di trattamento basate sulla nazionalità non rientrano nelle direttive gemelle su razza, origine etnica ed occupazione (a meno che le differenze di trattamento per nazionalità non si traducano in una discriminazione indiretta per razza o origine etnica); ma questa esclusione prevista nella direttiva (e ribadita testualmente nel decreto legislativo n. 215/2003) è una disposizione a carattere sostanziale, diretta a riservare alla più gelosa competenza degli Stati nazionali la regolazione legislativa del trattamento dello straniero, riferita soprattutto agli ingressi ed al rilascio dei titoli di permanenza. Quella clausola riguardava cioè le politiche migratorie degli Stati membri e non interferiva con le regole processuali. Il diritto comunitario anzi, (salvo il principio di equivalenza ed effettività dei diritti a matrice comunitaria), non si occupa del diritto processuale, lasciando al legislatore nazionale di assicurare le tutele a livello procedurale dei diritti comunitari.

Su questo terreno non esiste dunque nessuna disposizione comunitaria o nazionale che escluda letteralmente l’azionabilità di una tutela collettiva in caso di discriminazione collettiva per nazionalità; né essa può essere desunta da quell’inciso a carattere sostanziale.

D’altra parte, nessun principio esclude che il legislatore italiano possa prevedere per il fattore della nazionalità strumenti giurisdizionali uguali a quelli previsti per assicurare la tutela delle direttive di ultima generazione allo scopo di armonizzare la tutela processuale vigente per i diversi fattori discriminatori.

Il legislatore è anzi tenuto ad agire in tal senso, ad assicurare cioè strumenti processuali equivalenti, quando il diritto di cui bisogna assicurare la parità derivi dall’ordinamento europeo, senza che sia previsto uno strumento processuale ad hoc. Se perciò vi sono direttive europee che impediscono differenze di trattamento in relazione ai cittadini di Stati terzi, come per i titolari di permesso di soggiorno o i cosiddetti lungo soggiornanti, questi diritti vanno tutelati con gli stessi mezzi processuali previsti in casi equivalenti dal diritto interno.

Oggi poi in base allo stesso ordinamento comunitario (direttiva n. 2014/54/Ue, art. 3 e considerando 15) il mezzo di tutela collettivo è espressamente prescritto e deve essere introdotto nei singoli Stati allo scopo di tutelare meglio dalle discriminazioni per nazionalità i cittadini comunitari.

8. Conclusione

Resta alla fine una domanda imprescindibile: considerata l’esistenza nel nostro ordinamento interno della nozione sostanziale di discriminazione collettiva, come si tutela nel processo questo diritto a proiezione necessariamente collettiva?

E qui i giudici non possono sottrarsi dal dare una risposta ed esaminare i profili di costituzionalità che vi sono implicati, perché tale questione nasce tutta sul terreno del principio di eguaglianza e delle sue declinazioni, in termini di ragionevolezza ed effettività (artt. 3, 1 e 2 Cost.), onde evitare che la proclamazione di principi, anche importanti, subisca elusioni e distorsioni in fase applicativa e corra il rischio di rimanere sulla carta.

Insomma, per concludere, non si tratta di una questione che possa essere risolta come si faceva oltre 2000 anni fa, ritornando al diritto romano della cd. età classica, quando i rimedi venivano prima del riconoscimento dei diritti, finendo per fagocitare ogni pretesa sostanziale. E dimenticando che il diritto civile moderno, a partire dall’Ottocento, viene inteso come un sistema di diritti soggettivi preesistenti e separati dal processo (il quale obbedisce al principio di strumentalità).

Qualche anno fa, a tale proposito, il prof. Proto Pisani nella Introduzione sulla atipicità dell’azione e la strumentalità del processo (Foro Italiano, 2012, V, pp. 1 ss.) ha parlato di una rivoluzione copernicana evidenziando che «è sufficiente che il diritto civile preveda una situazione soggettiva di pretesa perché il relativo titolare possa agire in giudizio per la sua tutela senza la necessità di alcuna norma sostanziale o processuale che autorizzi l’azione». Si può aggiungere soltanto che questa situazione soggettiva di pretesa può essere oggi sia di natura individuale, sia di natura collettiva.

*Intervento tenuto al convegno Judicial Protection and free movement of workers (Firenze, 15 settembre 2017)

 


[1] Soprattutto l’azione civile contro la discriminazione prevista dall’art. 44 del TU n. 286/1998, a cui può essere affiancata quella prevista nei d.lgs n. 215/2003 e n. 216/2003 relativamente alle discriminazioni in materia di parità indipendentemente dalla razza o origine etnica, ed in materia di occupazione e condizioni di lavoro relativamente ai fattori riguardanti handicap, età, orientamento sessuale, convinzioni personali. La parte relativa alla disciplina processuale (ispirata a quella già prevista per le discriminazioni di genere), poi utilizzata anche per l’attuazione delle azioni in giudizio di cui ai decreti legislativi nn. 215 e 216 del 2003), prevede una forma di procedimento sommario estremamente semplificato che dovrebbe facilitare l’accesso alla tutela giudiziaria dello straniero, il quale può ricorrere in giudizio anche personalmente senza l’ausilio di un difensore tecnico.

[2] La giurisprudenza della Cgue, in relazione al caso di un datore di lavoro che aveva pubblicamente affermato, nell’ambito di una procedura di assunzione, che non avrebbe assunto lavoratori stranieri (alloctoni), ma solo autoctoni, ha già sostenuto (Caso Feryn, 2008) la rilevanza della discriminazione collettiva, sia pure alla luce della direttiva n. 2000/43/CE (che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica); riconoscendo, da una parte, che l’esistenza di una discriminazione diretta «non presuppone un denunciante identificabile che asserisca di essere stato vittima di tale discriminazione» (e pertanto riconoscendo che essa potesse essere fatta valere in giudizio alla luce del diritto nazionale da una associazione collettiva); ed affermando, dall’altra, che allo scopo fosse sufficiente considerare la potenzialità lesiva delle dichiarazioni dell’imprenditore (in quanto erano «in modo evidente idonee a dissuadere fortemente determinati candidati dal proporre le loro candidature»); sottolineando poi che lo scopo inclusivo prefissato dalla direttiva, in particolare nell’ottavo considerando, «sarebbe difficilmente raggiungibile se la sfera di applicazione della direttiva n. 2000/43 fosse circoscritta alle sole ipotesi in cui un candidato scartato per un posto di lavoro e che si reputi vittima di una discriminazione diretta abbia avviato una procedura giudiziaria nei confronti del datore di lavoro».

02/11/2017
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