Con il suo Vita di mafia, il criminologo Federico Varese (Oxford University) spiazza molti suo estimatori che, dopo Mafie in movimento (Einaudi, 2011), lo hanno indicato come lo “sterminatore” dell’interpretazione culturalista dei fenomeni mafiosi. Sicuramente è così se consideriamo come paradigma la vulgata della criminalità organizzata come entità immateriale che affonda le sue radici nella “cultura del Meridione”. Non è così se, al contrario, la riteniamo una struttura di lungo periodo che si è adeguata ai mutamenti congiunturali e alle reiterate azioni di contrasto degli apparati statali. La lunga durata ha generato una sovrapposizione tra Stato e mafie che non riguarda solo l’ordine pubblico e la punizione dei delinquenti ma qualcosa di più profondo: il condizionamento della mentalità collettiva e delle relazioni comunitarie ridefinite secondo un certo stile di vita e una determinata interpretazione della realtà, dentro un processo di modernizzazione e sviluppo economico tanto nazionale quanto globale. Le crisi di trasformazione degli assetti economici, sociali e istituzionali non sono altro che fratture congiunturali: il mutare delle condizioni viene inglobato in un ordinamento che metabolizza gli elementi di novità senza alterarne il substrato culturale. Le mafie hanno integrato, rielaborato e riadattato i modelli criminali adeguandoli al progredire della società dei consumi di massa. La capacità adattiva ha consentito alle mafie di superare indenni i diversi passaggi storici con una continua oscillazione tra arcaismo e modernità. Il processo evolutivo non è stato lineare ma ha intrecciato le caratteristiche della fase precedente con quelle della successiva, concependo una coesistenza di permanenze e rimozioni che mescola società, economia e cultura in un unico amalgama. Sono sistemi duali che attraggono poli opposti: come un pendolo oscillano con moto perpetuo tra contesti distanti, intermediando e collegando oggetti apparentemente inconciliabili e contrastanti. In ambito istituzionale la perpetua oscillazione ha coniugato Stato e società (alias verticale e orizzontale), potere e consenso, ordine e disordine, centralismo e decentramento, unità e frammentazione. Nella definizione degli assetti sociali ha saldato campagna e città (alias silenzio e rumore), latifondo e quartiere, borghesia e plebeismo, alfabetismo e analfabetismo, classismo e popolarismo, materiale e immateriale. In economia ha congiunto pubblico e privato, monopolio e concorrenza, capitalismo e mercantilismo, industria e commercio, produzione e finanza, holding e franchising. Le mafie, nella loro costante oscillazione, entrano in contatto con molteplici sfaccettature del prisma sociale assorbendole senza eliminarle, alternandole senza escluderle. Se volessimo applicare la teoria dell’oscillazione anche al campo storico ci accorgeremmo che la coppia passato/futuro è stata incorporata nella logica assorbente del “sempre presente”: mantenere quel che è stato per preconizzare ciò che verrà. Nel senso che la lunga durata delle mafie, nei mercati illegali e del vizio, nel dialogo con la politica e la cosiddetta “zona grigia”, nel controllo del territorio, nella partecipazione ai poteri occulti, nell’attività di redistribuzione del reddito, nella ricerca di consenso, negli ambigui rapporti con il mondo della Chiesa, nella corruzione della pubblica amministrazione, nell’uso pubblico dell’immaginario collettivo rende sempre attuale e dinamica la funzione di intermediazione sociale, economica, civile e politica in Italia come nel mondo. Non si può continuare a raccontarle dando credito a luoghi comuni e stereotipi che hanno generato scorie metastoriche. Sono organismi viventi in costante mutazione, capaci di avanzare e crescere senza rinunciare alle tradizioni del passato, all’insegna di una continuità che ha ragione di essere solo se è adattabile agli scopi delle organizzazioni criminali. Una forte organizzazione mafiosa, pur divenuta transnazionale, avrà sempre bisogno di un forte radicamento nel territorio di origine e dovrà continuare a strumentalizzare il patrimonio della cultura popolare per ottenere consenso dalle fasce marginali e avvalorare l’immagine di una mafia ancorata al passato, fondata su saldi principi poco duttili alla modernizzazione, in modo da allontanare da sé ogni allarme sociale ed occultare le relazioni con le alte sfere della finanza, della politica e delle istituzioni. Ancora una volta vale il principio della mutazione pendolare che ingloba e tiene unite, nella sua perdurante oscillazione, coppie tematiche divergenti: Stato e mercato, localismo e globalizzazione, tradizionalismo e modernità.
Non è una questione di primazia tra un paradigma e l’altro, è piuttosto la consapevolezza della complessità interpretativa che attraversa fatti e personaggi, unendoli e separandoli, intrecciandoli e slegandoli, al fine di dare un senso compiuto ad un panorama spesso celato dall’ombra degli stereotipi.
Questa è la lezione di Federico Varese la cui prosa, tipica della public literature anglosassone, ci conduce per mano nella sua ricerca applicata. Ci invita ad entrare e osservare luoghi, ad ascoltare dialoghi, a vedere immagini e a riflettere su scenari in una prospettiva scientifica che si piega alla performance del racconto criminologico, senza snaturare l’obiettivo di trasferimento della conoscenza.
Le storie sono inserite in una trama esistenziale (Nascita, Lavoro, Gestione, Denaro, Amore, Immagine di sé, Politica, Morte, Post mortem); argomenti immateriali dietro i quali si stagliano pratiche ed esperienze concrete di una struttura di potere economico-finanziario che si muove come una grande holding, con una sua cultura specifica, in cui assetti organizzativi, oligarchie di management, accordi di potere, settori di mercato, dinamiche sociali si mescolano al vissuto di protagonisti singoli e collettivi.
Per tale ragione, le fonti utilizzate, e il loro trattamento, sono fondamentali per incastrare ed esemplificare, senza sminuire, i contesti criminali che dialogano tra loro in un sistema di somiglianze e confronti in grado di spiegare, anche al più ingenuo dei lettori, i meccanismi dei traffici, la geometria delle reti relazionali e gli ingranaggi del plusvalore finanziario.
Quali sono queste fonti? Essenzialmente due: le intercettazioni telefoniche e ambientali e le analisi sul campo, da cui discendono computazioni integrate alla narrazione scorrevole del testo. Ore interminabili di conversazioni, viaggi alla ricerca di luoghi e simboli, testimonianze raccolte dalla voce dei protagonisti e immaginari sedimentati nel corso degli anni si condensano in unico amalgama della complessità che ci pone di fronte all’urgenza di conoscere per combattere. Dalla viva carne dei protagonisti, spesso martoriata e sepolta, l’autore compone un quadro sistemico multilivello in cui organizzazione e individui assumono le vesti di agenti criminali di un mercato che non si configura come un insieme di fattori nazionali ma come un’originale spirale planetaria.
Meglio specificare che le intercettazioni non sono utilizzate come semplice citazione “copia/incolla” ma quali frammenti contestuali il cui ruolo, come in un processo, ha lo stesso valore della prova suffragante la validità di un’inchiesta. Un’indagine che, in questo caso, non conduce al giudizio penale/morale ma alla conoscenza di ambienti oscuri offerti al dominio della sfera pubblica. Dalla Russia alla Cina, dall’Italia al Giappone, dalla Grecia alla Corea, spostandosi tra eventi e biografie nello scorcio di un cinquantennio, comprendiamo come e perché, sempre più spesso, atteggiamenti culturali e strategie economiche, si amalgamano in un universo criminale al quale si estende un’indistinta definizione di “mafia”.
Così seguendo la trama dei capitoli ci accorgiamo che: la nascita è il confronto dei rituali d’iniziazione tra Vory-v-zakone, Cosa nostra, Yakuza e Triadi; il lavoro ci offre gli scenari dei mercati criminali visti dall’interno delle organizzazioni; la gestione mostra le dinamiche del management criminale e delle rete d’affari collegate alle strutture “militari” in funzione di protezione e reazione; il denaro è lo strumento di liquefazione delle mafie, il “fattore chimico” che le rende compatibili con la globalizzazione finanziaria; l’amore è il filtro attraverso cui penetrano le donne di mafia affidando loro ruoli da comprimarie, solo apparentemente vicarie; l’immagine di sé racconta il processo di appropriazione e di uso pubblico dell’immaginario collettivo cinematografico, sia come giustificazione, sia come contestualizzazione storica e sociale; la politica definisce la cornice delle strutture di potere e delle relazioni collusive dentro e fuori lo spazio nazionale; la morte, infine, ci spinge nel mezzo della tanatologia mafiosa in cui la violenza non è mai eccesso ma ricerca di equilibrio, almeno negli scontri interni a gruppi, clan, trafficanti e affaristi.
In conclusione, l’opera di Varese ha la capacità di tessere un ordito che tiene insieme le diverse storie, chiarendo similitudini e dissimilitudini, delle mafie. E che mafie! Nel senso che per la prima volta appare in Italia un saggio comparativo tra Cosa nostra, mafia russa, Triadi e Yakuza, senza rinunciare a mettere in campo alcune osservazioni sulle organizzazioni latinoamericane e statunitensi. In passato si è tentato di fare comparazioni con le altre mafie occidentali, ma questa analisi è difficilmente eguagliabile perché non è eurocentrica, non è americanocentrica ma policentrica e multidimensionale. Una comparazione affascinante in cui l’uso dell’io narrativo non è quello del romanzo ma quello del ricercatore che conduce la sua analisi compenetrandosi in fatti e persone.
Un altro aspetto rilevante è l’abilità, da public historian, di cucire io narrante, testimonianze dirette e Storia, in un continuo andirivieni tra passato e presente, evidenziando la struttura “prismatica” dei sistemi mafiosi.
Varese compie un viaggio fisico e metaforico che porta gli studiosi, quelli seri, ad un punto di non ritorno: non si può effettuare una comparazione tra mafie e sistemi criminali senza averne esperienza diretta e conoscenza dei contesti (società, istituzioni, economia, cultura etc.). In caso contrario si rischia di essere, banalmente, dei fake researcher, da schermo piatto.
Ma ciò che affascina più di ogni altra cosa è il dono dell’autore di saper spiegare temi difficili come la finanziarizzazione, la conglomerazione economica, i traffici transnazionali, i rituali e gli immaginari con una semplicità disarmante (partendo da casi singoli di figure apicali e sconosciuti intermediari) che rende il testo accessibile ad una vasta audience di studiosi, appassionati e lettori “saltuari”.
*In copertina, un fotogramma del film Outrage di Takeshi Kitano (2010)