Magistratura democratica

Il rapporto tra responsabilità disciplinare e responsabilità civile, non è solo questione procedurale.
La legge sulla responsabilità civile alla prova dei fatti, un orizzonte incerto

di Elisabetta Cesqui

Abolizione del filtro e allargamento al travisamento del fatto e delle prove delle ipotesi di responsabilità sono i punti più criticabili della nuova legge sulla responsabilità.

Sull’abolizione del filtro l’equilibrio potrebbe essere ristabilito da un tempestivo intervento della Corte costituzionale. Le deroghe introdotte alla clausola di salvaguardia mettono alla prova la capacità dell’interprete di recuperare una lettura costituzionalmente compatibile della norma, e sarebbe meglio che un intervento della Corte fosse sollecitato dopo aver sperimentato in concreto i limiti della legge.

L’estensione della responsabilità in aree prima riservate in via esclusiva alla valutazione disciplinare, corre poi il rischio di modificare la natura stessa di tale giudizio, che esaurisce i suoi effetti nel rapporto tra il magistrato e l’ordine di appartenenza, per farne un volano di azioni risarcitorie da parte dei privati. Esiste perciò anche un problema di rapporti tra azione disciplinare e indirette conseguenze civilistiche di tale iniziativa e non solo quello del rapporto tra azione civile e promozione obbligatoria dell’azione disciplinare, anche perché a ben vedere questa non può superare la tipicizzazione degli illeciti in vigore dal 2006.

L’azione disciplinare dovrà o potrà perciò essere promossa solo nell’ipotesi in cui il fatto oggetto dell’azione civile, quando venga a conoscenza del titolare dell’azione disciplinare, presenti le caratteristiche di notizia circostanziata d’illecito, come previsto dal d.lgs 109/06.

1. Premessa

Con l’approvazione della l. 27 febbraio 2015 n. 18 si è messo un punto fermo, ma probabilmente non definitivo, alla polemica mai sopita e riemergente periodicamente con intensità variabile, che negli ultimi trenta anni ha dato voce alla insoddisfazione generalizzata nei confronti del servizio (spesso inefficiente) reso dalla giustizia, ma anche alla insofferenza per la potenziale pervasività del controllo giurisdizionale in sé, proprio a causa della sua indifferenza rispetto al potere e agli interessi dei soggetti coinvolti. Da parte di alcuni, soprattutto in sede parlamentare e nel dibattito pubblico, l’intervento normativo è stato così tanto caricato di valenze simboliche e ideologiche e si sono tentate in fase di lavori parlamentari formulazioni così aggressive, che il risultato finale non poteva essere che oggettivamente inferiore alle aspettative di quelli che pensavano ad una sorta di regolamento dei conti nei confronti dei giudici.

A proiettare un’ombra sulla legge resta l’equivoco di fondo che sta dietro la grande aspettativa per l’adozione di una legge/monito che affonda le radici esattamente nello stesso terreno di coltura che alimentò prima la campagna referendaria e poi l’approvazione della legge del 1988 e restano ferme le contraddizioni interne proprio a tale logica vendicativa, che ha certo mosso parte dei propugnatori della modifica normativa. Tale impostazione infatti non solo è concettualmente viziata, ma è anche tatticamente errata. Se si volessero davvero leggere le vicende politiche degli ultimi anni come condizionate da un conflitto tra magistratura e politica alimentato soprattutto dai magistrati e da quelli delle Procure in particolare, occorrerebbe anche prendere atto che la responsabilità civile così come riformata (ed anzi quella da alcuni auspicata, diretta ed inesorabile), diretta a segnare finalmente una inversione di tendenza, fornirebbe, a chi la brandisse come un’arma, uno strumento assai più adatto a colpire i giudici (essendo il travisamento del fatto, che è la maggiore novità tra le fonti di responsabilità, vizio tipico dei provvedimenti decisori) che i Pm (persino in materia di libertà, le cui limitazioni vengono spesso impropriamente ricondotte nel dibattito corrente alla esclusiva iniziativa del Pm). Resta infine, fondamentalmente, l’impropria trasposizione di una responsabilità di natura pubblica sul terreno della responsabilità civile di natura privatistica[1]

Ma fermo tutto ciò, la legge è destinata a produrre i suoi effetti al di là ed indipendentemente dalle polemiche contingenti che ne hanno accompagnano l’approvazione e la sua interpretazione deve prescindere da queste senza assecondarle e senza cercare rivalse ostruzionistiche. I magistrati non devono temere in sé il richiamo ad un più attento rispetto delle regole. Se ragioniamo in termini di prevenzione generale, per la quale ogni sanzione serve ad inibire un comportamento ritenuto inaccettabile, nei limiti in cui la legge inducesse ad un maggior scrupolo nel non fondare una decisione su un fatto non risultante dagli atti o alla verifica scrupolosa della esistenza dei presupposti di legge al momento dell’emissione di una misura cautelare, potremmo criticare l’improprietà dello strumento, ma dovremmo riconoscere la bontà del fine e non potremmo negare la positività del risultato. Il tenore della legge è però di ostacolo ad una così pacificante conclusione soprattutto perché rende più indeterminata l’area dell’illecito, e con ciò rischia di condizionare i giudici, limitandone l’indipendenza.

La legge è censurabile non certo nella parte in cui estende la tutela dei diritti di risarcimento (dando in questo esecuzione alle indicazioni della Corte di giustizia) ma in quella in cui scompostamente riorganizza le aree di sindacabilità dell’attività del giudice e gravemente squilibra il bilanciamento tra responsabilità dei giudici e garanzie costituzionali della giurisdizione abolendo il filtro previsto dall’art. 5. Da subito le critiche, anche quelle meno emotive e più riflessive, che ne hanno seguito l’approvazione[2], pur nelle diverse sfaccettature dell’analisi, hanno individuato come centrali questi due punti critici, oltre al grave rischio di un ripiegamento culturale nell’attività quotidiana dei magistrati[3].

Per questo si è parlato della concreta prospettiva di una giurisprudenza difensiva, cioè dell’eccesso di cautela cui può essere indotto il magistrato una volta che le nuove deroghe alla clausola di salvaguardia aprono, in sede di valutazione della responsabilità dello Stato (ma anche del magistrato in sede di rivalsa, se sia riconosciuto il dolo o la negligenza inescusabile nei casi previsti dall’art. 7) spazi non ben definiti al sindacato nel merito delle decisioni, confinando i giudici in un ruolo burocratico di impiegati della giurisdizione. Una giurisprudenza che abdica alla sua funzione.

Se il problema è di ordine culturale diventa perciò fondamentale non soltanto il tipo di reazione di ogni magistrato nel momento in cui proietterà la propria attività quotidiana nel cono di luce dei possibili riflessi in termini di responsabilità, ma anche l’interpretazione stessa che il corpo giudiziario darà della legge, il modo in cui questa prenderà forma come diritto vivente, per l’effetto di conformazione dei comportamenti che da questa discenderà.

2. L’abolizione del filtro, la Corte costituzionale potrebbe intervenire subito

L’abolizione del filtro è stata salutata favorevolmente da chi vi riconosceva il principale ostacolo alla effettività del rimedio assicurato con l’affermazione del principio di responsabilità[4].

L’idea stessa che lo scarso numero delle azioni civili sia dipeso dall’arbitrario sbarramento alzato dai magistrati con il filtro e dal defatigante percorso imposto per il solo accesso al giudizio non trova riscontro nei dati reali ed è forse indotta dalla ricerca di una spiegazione tranquillizzante dell’effettivamente esiguo numero delle azioni di responsabilità pervenute a risultato, spiegando così un fallimento che è invece intrinseco ai difetti di impostazione della legge.

Non esistono statistiche omogenee e comparabili, nel corso della discussione parlamentare[5] sono stati riportati alcuni dati forniti dall’Avvocatura dello Stato e dalla presidenza del Consiglio, peraltro tra loro non coincidenti, che non forniscono però indicazioni significative sul funzionamento del filtro, pur attestando un esito ridottissimo in termini assoluti e percentuali di casi di accertamento con condanna della responsabilità dello Stato a partire dal 2005, che sfiora appena la decina. In sede di audizione avanti alla Commissione giustizia, l’Associazione nazionale magistrati ha sottoposto all’attenzione del Parlamento una ricognizione operata direttamente presso gli uffici giudiziari [6]dalla quale risulterebbe che l’esiguo numero delle azioni e delle condanne non è condizionato dall’operatività del filtro essendo per lo più le dichiarazioni di inammissibilità derivate da cause evidenti ed oggettive la cui valutazione avrebbe in ogni caso precluso l’ulteriore corso del giudizio, quali il mancato previo esperimento dei mezzi di impugnazione (art 4 c. 2 della legge 117/98, rimasto sotto questo profilo invariato), la proposizione della domanda oltre il termine, la proposizione della domanda avverso soggetti non legittimati (essendo legittimato solo il presidente del Consiglio dei ministri). D’altra parte la base di riferimento è così numericamente esigua da privare di significato rilevazioni statistiche percentuali.

Più difficile appare valutare qualitativamente e quantitativamente l’effetto demotivante della laboriosità della procedura e della previsione infausta dell’esito del giudizio sull’effettivo esiguo numero di azioni. Non sembra però irrilevante notare che nel contesto internazionale l’azione di responsabilità nei confronti dei giudici rimane sempre un evento del tutto eccezionale, indipendentemente dalla procedura prevista e che possono aver avuto maggiore incidenza sullo scarso numero di proposizioni delle azioni (che pure nel 2008 sono state dichiarate ammissibile in 109 casi) altri possibili ristori che l’ordinamento prevede per il cattivo funzionamento della giustizia quali quelli previsti dalla legge Pinto e dalla riparazione per ingiusta detenzione.

L’abolizione del filtro espone direttamente il giudice, sia pure come parte eventuale (ma che diventa litisconsorte processuale necessario quando decida di intervenire nel giudizio, determinandosi così una situazione di litispendenza incompatibile con la continuazione della titolarità del procedimento) all’iniziativa della parte con ricadute immediate quanto meno sulla sua serenità di giudizio.

Questo altera significativamente il punto di equilibrio faticosamente raggiunto dalla legge del 1988 e pone evidenti ed immediatamente rilevabili problemi di costituzionalità, operando il filtro quale strumento di bilanciamento tra i valori costituzionali sottesi da una parte all’art. 28 e dall’altra agli artt 101, 104, 108 e 111 della Costituzione, come ha già affermato la Corte, che ne ha riconosciuto non solo la legittimità, ma l’indispensabilità quale opportuno rafforzamento delle cautele nell’accesso al giudizio di responsabilità rispetto al regime riservato in via generale ai pubblici dipendenti[7]

Per questo non devono ritenersi azzardate le prognosi ottimistiche su un possibile intervento della Corte costituzionale diretto a ristabilire l’equilibrio[8] e le corti di merito sembrerebbero già pronte a muoversi in questa direzione.

Anche volendo evitare esasperazioni interpretative che facciano discendere dalla mera proposizione di un’azione risarcitoria la generalizzata ed automatica necessità di sostituzione del giudice è impossibile non vedere come l’abolizione del filtro di ammissibilità modifichi il quadro, soprattutto se correlato all’ampliamento delle aree di responsabilità. La Corte costituzionale, pronunciandosi in punto di ricusazione, ha escluso la incostituzionalità dell’art. 51 n. 3 cpc, che secondo il giudice remittente correva il rischio di innestare meccanismi di arbitraria sostituzione del giudice non gradito attraverso la proposizione di azioni nei suoi confronti, affermando che in ogni caso è possibile una delibazione preliminare della «fittizietà della lite ad arte provocata» ai fini di ritenere la possibilità di astensione/ricusazione del giudice[9]. La Cassazione d’altra parte, dopo l’approvazione della l. 18/15, ha chiarito che l’azione di responsabilità (addirittura quand’anche fosse attivata l’azione di rivalsa) non costituisce mai ragione di rimessione del processo ad altra sede e non impone di per sé la sostituzione del giudice. La promozione dell’azione di responsabilità non instaura infatti un rapporto di credito-debito o una pendenza di giudizio rilevante ex art. 51 c. 1 n 3) cpc ai fini dell’obbligo di astensione, rapporto credito-debito che non discenderebbe neanche dalla promozione dell’azione di rivalsa conseguente al riconoscimento della responsabilità del giudice. Né d’altra parte la proposizione dell’azione di responsabilità, rimessa all’iniziativa della parte, costituisce di per sé né causa di inimicizia grave, né instaurazione di un rapporto debitorio con il magistrato (v. cass. Sez. V, n. 8429 del 10 gennaio 2007), e perciò non consente in quanto tale la ricusazione (che potrebbe trovare ragione nel fatto storico che ha dato origine all’azione risarcitoria), ferma restando la possibilità, da valutare caso per caso, della sussistenza di quelle gravi ragioni di convenienza che inducano all’astensione ex art. 36 lett h) cpp «per l’assorbente ragione che in questo caso ogni più ampio apprezzamento rimane attribuito alla giurisdizione, sicché non sussiste alcuna possibilità di automatismo legato alla discrezionale iniziativa della parte (meccanismo strutturalmente non tollerato dal principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge)»[10].

Occorre in ogni caso mettere in conto, pur auspicando un approccio cauto nel solco delle decisioni richiamate, un rilevante aumento delle astensioni, anche a fronte di azioni di responsabilità pretestuose, se, dall’abolizione del filtro e dall’ampliamento delle ipotesi di responsabilità, dovesse discendere una impennata delle azioni risarcitorie. Ciò avrebbe conseguenze non solo sulla effettività del principio del giudice naturale, ma anche sulla celerità dei giudizi e sulla funzionalità degli uffici. Anche per questo il prospettato monitoraggio degli effetti della legge appare quanto mai opportuno.

3. Deroghe alla clausola di salvaguardia – attendere la legge alla prova dei fatti

Ma effetti certo più preoccupanti quanto alla diffusione di una giurisprudenza difensiva possono derivare certamente dalle deroghe ampie alla clausola di salvaguardia, legate ai concetti di «violazione manifesta» «travisamento del fatto e delle prove» che introducono un fattore anticipato di incertezza, e conseguentemente una condizione di timore e soggezione del giudice. Certamente tali effetti saranno tanto più forti quanto più penetrante si farà l’incursione del vaglio di responsabilità nel merito della decisione. L’estensione delle deroghe alla clausola di salvaguardia oltre i limiti della affermazione/negazione di un fatto la cui inesistenza/esistenza emerga incontrastabile dagli atti (già prevista), fino al «travisamento del fatto e delle prove» spinge la possibilità di sindacato su un terreno estremamente scivoloso perché consente la traslazione della valutazione dalla polarità vero/falso a quella logico/illogico, aumentandone la potenziale pervasività .

La questione di legittimità costituzionale, per la lesione che tale traslazione può infliggere al principio di indipendenza, da subito prospettata, è già stata sollevata avanti alla Corte costituzionale con due diverse ordinanze di rimessione [11], ma, a parte le legittime riserve in ordine alla ammissibilità della questione sotto il profilo della rilevanza[12], desta perplessità l’opportunità stessa della sua proposizione in questa fase. Sembrerebbe infatti preferibile che il vaglio della Corte non riguardasse le ipotetiche conseguenze di tutte le potenziali interpretazioni, ma quelle in concreto derivanti dalla sua effettiva applicazione. È questione di carattere generale (quella dell’anticipazione dell’intervento della Corte, che alcuni vorrebbero addirittura configurare come un vaglio preventivo all’emanazione delle leggi) che assume nel caso particolare specifico significato e sembra di gran lunga auspicabile, proprio perché è in gioco la valenza conformativa dell’approccio culturale dei giudici sotteso alla nuova formulazione della responsabilità, che il vaglio di costituzionalità venisse fatto, ove necessario, sul diritto vivente, e non sulla portata astratta delle norme. La legge in qualche modo contiene una sfida (nel senso di messa alla prova) alla tenuta culturale della magistratura e cogliere, piuttosto che elidere questa sfida, può alla fine costituire un’occasione invece che un ostacolo e può aiutare la riflessione costruttiva sui limiti della fallibilità del giurisdizione.

Una esegesi astratta diretta a verificare il limite massimo cui si potrebbe spingere il sindacato del giudice sul merito della decisione (e ancora prima la pretesa punitiva del ricorrente) o l’esemplificazione iperbolica delle possibili conseguenze devastanti della legge sembrano un esercizio sterile.

Tanto più la giurisprudenza sulla responsabilità dovesse essere “aggressiva” nei confronti delle decisioni dei giudici, tanto più difensiva si farebbe la loro giurisprudenza, anche se sembra di cogliere una intrinseca contraddizione in una giurisprudenza “offensiva” in tema di responsabilità che esaspera la tendenza “difensiva” in tutti gli altri campi, denunciando una sorta di sdoppiamento di personalità degli stessi magistrati. Una tale rappresentazione finisce per dare per già compiutamente realizzato quel percorso di conformazione e subalternità (il contrario dell’autonomia e l’indipendenza) che si imputa alla legge di aver solo messo in moto. Sembra schizofrenico un giudice che da una parte soffre la mortificazione della propria autonomia di giudizio (che è un valore diffusamente condiviso) e dall’altra amplifica questa mortificazione con una interpretazione estensiva della possibilità di sindacarla in sede di responsabilità.

L’esperienza sembra suggerire una certa cautela nella valutazione degli effetti concreti della legge. A titolo di esemplificazione basterà pensare allo strano destino dell’art. 3 della legge Vassalli, che è rimasto invariato nel vecchio e nel nuovo testo e che sanziona il diniego di giustizia.

L’omissione, il rifiuto od il ritardo nell’adozione del provvedimento era fonte di responsabilità (unica fonte di responsabilità civile, oltre al dolo) già alla luce dell’art. 55 del cpc, abrogato dal referendum, la legge 117/88 ne ha dato una definizione, ancorandola a parametri temporali, determinandone così il contenuto. Se ne riconosce la natura colposa[13], ma il tenore letterale della norma ha fatta ipotizzare anche una sorta di responsabilità oggettiva automaticamente derivante dal superamento del termine, per la quale il giustificato motivo del ritardo opererebbe come causa di esclusione della responsabilità, che il magistrato avrebbe onere di provare. La legge Vassalli (art. 17) modificava poi l’art. 328 cp - che nella formulazione originaria prevedeva che per i giudici e i magistrati del pubblico ministero «vi è omissione, rifiuto o ritardo quando ricorrono le condizioni richieste dalla legge per esercitare contro di essi l’azione civile» – così sostituendo il secondo comma: «vi è omissione o ritardo quando siano decorsi i termini previsti dalla legge perché si configuri diniego di giustizia». L’art. 17 deve ritenersi implicitamente abrogato dalla l. 16 aprile 1990 n. 86, che ha riformulato il secondo comma dell’art. 328 cp, ma resta comunque vigente un meccanismo di messa in mora del giudice perché adotti il provvedimento e la vincolante previsione del primo comma dell’art. 328 cp in caso di rifiuto di atti d’ufficio che, per ragioni di giustizia, debbano essere compiuti senza ritardo. Ferma restando la natura dolosa della fattispecie delittuosa, una mannaia a due lame pende formalmente sul capo del magistrato messo in mora. Scorrendo il dibattito pubblico all’epoca dell’approvazione della legge 117/88 è ricorrente e giustificato l’allarme sugli effetti inflazionistici sul contenzioso derivanti dall’art. 3 e la previsione che la discussione intorno al “giustificato motivo” avrebbe fatto scorrere molto inchiostro.

Niente di tutto questo è successo e neanche il dibattito e le polemiche che hanno accompagnato l’approvazione della legge Pinto prima e l’introduzione della fattispecie tipica del ritardi di cui all’art. 2 lett q) del d.lgs 109/06, hanno mai chiamato in causa l’art. 3 della legge 117/88.

Possiamo interrogarci sulla ragione di ciò attribuire la sostanziale atrofia dell’art. 3 a pedestri considerazioni di convenienza che non incoraggiano le parti, e soprattutto gli avvocati, a spostare su questo terreno il contrasto con il singolo giudice, che rimane loro quotidiano interlocutore o, al contrario, a credere non irenica una visione per la quale effettivamente il mondo delle relazione interne agli operatori della giustizia sia meno devastato di quanto lo si vuole a volte rappresentare e l’interesse reale delle parti sia quello di ottenere una decisione, sperabilmente favorevole, restando nella gran parte dei casi indifferente la sorte del giudice che l’ha emessa. Ma quale che ne sia la ragione, il dato di fatto è che dell’art. 3 non si conoscono, per quanto risulta, applicazioni giurisprudenziali.

4. Il travisamento del fatto. L’esperienza disciplinare

Per quanto riguarda invece l’ampliamento delle deroghe alla clausola di salvaguardia è ragionevole attendersi un aumento delle azioni, ma può in qualche modo farsi tesoro dell’elaborazione e della giurisprudenza maturate in campo disciplinare.

La clausola di salvaguardia, nella sua formulazione piena, per la quale «non può dare luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove» come recitava l’art. 2 c. 2 della l. 117/88, è fortemente compromessa nella nuova formulazione della legge, sia perché l’art. 2, modificato, ne esplicita la limitazione, sia perché il comma 3 indica tra le fonti di responsabilità, oltre quelle già contenute nel vecchio testo, anche «la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea» ed il «travisamento del fatto o delle prove». Ma non bisogna infatti dimenticare che la prima crepa, assai significativa, nel muro della clausola di salvaguardia, non è stata prodotta dai colpi inferti della legge sulla responsabilità civile, ma da quella sulla responsabilità disciplinare.

I fondamenti delle due responsabilità sono del tutto diversi, e autonome le relative azioni. La prima riconosce un interesse privato al ristoro per i danni subiti a causa del non corretto esercizio di un potere statuale, la seconda attiene strettamente agli obblighi di fedeltà del magistrato agli obblighi e ai valori discendenti dalla propria collocazione professionale e istituzionale; la prima esige la verifica del dolo o della colpa grave nel comportamento del funzionario, mentre la seconda è integrata di regola anche in caso di colpa lieve, ma non è esclusa dal dolo e dalla colpa grave, la prima discende dalla verificazione di un danno patrimoniale, mentre la seconda in linea generale è indifferente alla lesione degli interessi dei singoli, ma conosce ipotesi in cui tale danno è rilevante (come quelle previste dall’art. 2 c. 1 lettt a) , m) u) v)).

Ci sono certamente fattispecie disciplinari contigue ad ipotesi di responsabilità civile e condotte, disciplinarmente rilevanti, che possono esporre il magistrato al giudizio di rivalsa.

Ferma la autonomia strutturale e funzionale delle due responsabilità, ma anche la contiguità fattuale sulla quale si innestano, il testo rivisitato dalla l. 18/15 non aiuta la comprensione e non facilita l’interpretazione.

Se guardiamo la formulazione dell’art. 2 l’area di contiguità si manifesta con evidenza nei seguenti casi:

lett. g) (grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile)

lett. h) (travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile)

lett m) (adozione di provvedimenti in casi non consentiti dalla legge per negligenza grave e inescusabile, che abbiano leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali)

lett cc) (adozione intenzionale di provvedimenti affetti da palese incompatibilità tra parte dispositiva e motivazione)

lett ff) (adozione di provvedimenti non previsti da norme vigenti ovvero sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza )

lett gg) adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale fuori dei casi consentiti dalla legge, determinata da negligenza grave e inescusabile

Tutti i casi indicati (ai quali si aggiungono quelli previsti dalle lettere i) l) o) p) ), tranne quello previsto dalla lettera gg) sono richiamati dall’art. 2 c. 2 del d.lgs 109/06 quali limitazioni della clausola di salvaguardia che è formulata secondo i canoni classici: «l'attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove non danno luogo a responsabilità disciplinare».

Nella sua forma originaria la norma conteneva per di più un richiamo alla necessaria conformità dell’interpretazione all’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale che è fortunatamente caduta con la modifiche introdotte con la l. 24 ottobre 2006 n. 269 e che esprimeva il nocciolo culturale della diffidenza nei confronti della libertà interpretativa dei giudici. Dobbiamo però prendere atto che da quasi dieci anni la clausola di salvaguardia si confronta, sia pure sul terreno che gli è più proprio della responsabilità disciplinare, con la possibilità di incursione del giudizio sanzionatorio nel campo della decisione giurisdizionale e possiamo fare tesoro di tale esperienza.

Non ci soffermeremo sulla «violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea» formula che ha sostituito quella della «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile» (che è familiare pure alla tematica della giurisprudenza disciplinare) e che reca l’eco diretta della giurisprudenza comunitaria che effettivamente invocava l’introduzione di una forma di responsabilità risarcitoria dello Stato per la «violazione manifesta del diritto vigente», richiesta che è stata strumentalmente cavalcata per imputare l’estensione della responsabilità personale dei giudici all’adempimento di un obbligo imposto dall’Europa[14].

Qualche rapido cenno è possibile fare invece al travisamento. Le critiche mosse alla legge ancora in fase di discussione, con le quali si sollecitava una aggettivazione del concetto di travisamento che rendesse evidente il necessario carattere di conclamato contrasto della decisione con l’evidenza dei fatti sono rimaste inascoltate: «Appare quindi indispensabile uno sforzo del legislatore volto a precisare, anche per evitare un aumento esponenziale e tuttavia inutile del contenzioso, che il travisamento debba essere espressamente qualificato come inescusabile o comunque come “palese” o “evidente” o “macroscopico”, e debba quindi consistere in un errore di percezione o in una mera svista materiale che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza di un fatto la cui verità era esclusa in modo incontrovertibile, oppure a considerare inesistente un fatto accertato in modo parimenti indiscutibile alla stregua degli atti e dei documenti di causa»[15]. La formula scelta dal legislatore non è felice proprio perché non aiuta a fare chiarezza sugli elementi di differenziazione tra il travisamento del fatto e delle prove rispetto alla affermazione/negazione di un fatto incontrovertibilmente falso/vero. Si legge ancora nel parere del Csm del 29 ottobre 2014: «È peraltro evidente che, a seconda della concreta declinazione interpretativa della nuova locuzione, vi sia forte il rischio di una possibilità di indagine surrettizia circa l’interpretazione dei fatti, la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche o l’attività valutativa del giudice di situazioni processuali, con un sostanziale sindacato sul merito dell’attività giurisdizionale e con un conseguente vulnus all’indipendenza del magistrato. Rischio attenuato, ma non del tutto escluso, dalla nozione di travisamento dei fatti e delle prove elaborata dalla giurisprudenza disciplinare, proprio perché formata in tutt’altro contesto sistemico e con finalità affatto diverse, rispetto alle quali è estranea l’esigenza riparatoria tipica della responsabilità civile. Al fine di scongiurare un esito siffatto, che certamente minerebbe il cuore della giurisdizione, è necessario che l’errore rilevante sia quello che deve apparire di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, senza che la sua constatazione necessiti di argomentazioni induttive o di indagini ermeneutiche, e che esso non possa consistere, per converso, in un preteso, inesatto apprezzamento delle risultanze processuali: in una parola, ancora una volta, l’errore inescusabile».

Il concetto di travisamento del fatto o delle prove ai fini del ricorso per cassazione, civile e penale, o ai fini disciplinari non sono coincidenti e diversi ne sono i presupposti – perché nel giudizio di legittimità non ha alcuna rilevanza il profilo della diligenza del giudice o la valutazione dell’elemento psicologico della sua condotta - e la funzione - perché primo servono a contenere il sindacato della Corte nei limiti della legittimità, evitando incursioni nel fatto, nel secondo devono proteggere l’indipendenza del giudice e contenere il sindacato sul suo comportamento nei limiti della valutazione del disvalore deontologico, sia pure tipizzato. Ciò nonostante la giurisprudenza disciplinare del Csm e delle Sezioni Unite della Corte può servire per orientare nella interpretazione del nuovo testo dell’art. 3 della l. 117/88, nel quale il travisamento del fatto, della prove e affermazione/negazione di un fatto falso/vero sono stati con qualche precipitazione cumulati. Se ne potrebbe forse trarre la conclusione che in effetti rimane uno spazio residuale minimo per ipotesi di travisamento che non si concretizzino in realtà nella negazione di un fatto evidente o affermazione di un fatto inesistente.

La precedente formulazione dell’art. 2 c. 3 della legge Vassalli prevedeva già, quale fonte di responsabilità civile, la grave violazione di legge (lett. a), l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa (lett b) e la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti (lett c), quando siano determinati da negligenza inescusabile, l’attuale formulazione non solo (ai fini della responsabilità dello Stato ) non menziona più la negligenza inescusabile (che diventa però condizione per l’esercizio obbligatorio dell’azione di rivalsa es. art. 7 ), ma include nelle ipotesi di colpa grave anche il travisamento del fatto e delle prove. Il travisamento del fatto costituisce ipotesi di illecito disciplinare ex art. 2 comma 1 lett h) del d.lgs 109/06. In tale ambito certamente assume rilievo non solo l’errore che i civilisti definiscono revocatorio, cioè l’errore percettivo che fa vedere bianco il nero o viceversa ma anche la rappresentazione di una situazione di fatto talmente distorta tanto da non coincidere con quella che inequivocabilmente le prove in atti consentono di ricostruire. Vi è una soglia di «diligenza esigibile dal giudice nell’esame delle risultanze processuali»[16] la cui violazione rompe lo scudo di insindacabilità dell’attività di valutazione del fatto proprio in quanto nega il legame effettivo tra il fatto e la sua ricostruzione.

La giurisprudenza disciplinare coglie nel travisamento una condotta negligente, sciatta, superficiale da parte del giudice che lo porta ad una decisione del tutto stravagante rispetto alle risultanze in atti, non rilevando, per gli addebiti riconducibili all’attività provvedimentale, la correttezza in sé del provvedimento «bensì la condotta del magistrato medesimo, cioè il suo impegno intellettuale e morale, congiuntamente alla sua dedizione alla funzione, che deve sempre essere esercitata rispettando i doveri d’ufficio» (SS UU n. 7379 del 29/1/2013, che peraltro ha confermato il proscioglimento dell’incolpato, ritenendo che la sua condotta rientrasse nell’alveo della insindacabilità nell’interpretazione della legge) anche se esclude che il travisamento possa essere riferito non a provvedimenti specifici, ma ricondotto ad un abituale scarso approfondimento dello studio dei fascicoli che determini l’esposizione in camera di consiglio di convincimenti disancorati da elementi di fatto[17].

La giurisprudenza civile di legittimità conosce solo l’errore revocatorio, che è un errore di fatto, percettivo, o la mancata motivazione su punto decisivo oggetto di discussione, quella penale condiziona l’ammissibilità del ricorso per travisamento (dopo la modifica di cui alla l. 24/4/06 n. 46) alla denuncia di una contraddizione, rilevabile dalla motivazione o da specifici atti richiamati, e lo riconosce nella «palese e non controvertibile difformità tra i risultati obbiettivamente derivanti dall’assunzione delle prove e quello che il giudice di merito ne abbia inopinatamente tratto»[18]. Vi è in sintesi travisamento della prova quando «sussista una incontrovertibile antinomia tra i risultati obiettivamente derivanti dalla prova assunta e le conseguenze che il giudice di merito ne abbia tratto. Tale vizio è configurabile soltanto quando l'accertata distorsione tra il risultato probatorio posto a base dell'argomentazione del giudice e l'atto processuale o probatorio (definito in termini di “contraddittorietà processuale” diversa e distinta da quella “logica”) disarticoli effettivamente l'intero ragionamento probatorio e, alla stregua dei parametri di rilevanza e decisività, renda illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato probatorio trascurato o travisato. effettivamente l'intero ragionamento probatorio e, alla stregua dei parametri di rilevanza e decisività, renda illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato probatorio trascurato o travisato.”[19]. In altre parole in quella che è stata definita una «infedeltà grave della motivazione rispetto alla risultanza degli atti».Rovelli parla di «indiscutibilità negativa» della valutazione giurisdizionale. È ricorrendo ai concetti di evidente, incontrovertibile, palese, decisivo, che dobbiamo misurare la incidenza dell’errore del giudice nella assunzione della decisione e possiamo riconoscere un nucleo comune ai diversi ambiti, civile, penale e disciplinare. La mancata esplicitazione dell’aggettivazione da parte della legge deve essere superata assumendo tali parametri come requisiti intrinseci dell’illecito

Nella giurisprudenza disciplinare il ricorso all’art. 2 lett h) (travisamento del fatto) è ricorrente, ma non frequentissimo e per lo più è riferito ad ipotesi nelle quali il giudice ha affermato/negato un fatto falso/vero o ha omesso di valutare un fatto decisivo[20], assai più raramente quando vi sia stato un, sia pure macroscopico, errore valutativo[21], escludendo poi la responsabilità ogni qual volta la decisione sia riconducibile ad una possibile, quand’anche opinabile, interpretazione di diritto[22]. Non è riscontrabile, allo stato, in termini significativamente apprezzabili tali da far presagire un orientamento in tal senso, un incauto ricorso né alle incolpazioni né alle sanzioni disciplinari che, attraverso la contestazione di travisamento del fatto (o anche di violazione di legge o di abnormità del provvedimento, profili non sfiorati in questa sede) tendano a comprimere l’attività valutativa del giudice.

5. Rapporto tra giudizio civile e giudizio disciplinare

Ai rapporti tra giudizio disciplinare e giudizio di responsabilità la legge dedica esclusivamente i tre commi dell’art.9 e l’ultima frase del secondo comma dell’art. 6, per la quale il giudizio di responsabilità nei confronti dello Stato non fa stato nel procedimento disciplinare.

La novella del 2015 si limita a sopprimere il riferimento contenuto nel primo comma all’art. 5. L’art. 5, che prevedeva il vaglio preventivo del Tribunale, imponeva, in caso di ammissibilità, la trasmissione degli atti ai titolari dell’azione disciplinare; l’art. 9 imponeva l’esercizio dell’azione disciplinare entro due mesi dalla comunicazione. L’abrogazione dell’inciso sembrerebbe sancire l’obbligo dell’immediato esercizio dell’azione disciplinare. E si badi bene, esercizio, non apertura del relativo procedimento. La portata di tale modifica è assai rilevante, ma i lavori parlamentare non danno nessun conforto a chi volesse, per quanto può valere ai fini dell’interpretazione della legge, ricostruire la volontà del legislatore. L’abrogazione dell’inciso nasce come proposta di emendamento in commissione in sede di coordinamento[23] e negli atti non vi è traccia di discussione al riguardo. Tale assenza priva l’interprete di un supporto, ma conferma che il legislatore non si è posto la questione, cogliendo solo l’esigenza di coerenza del testo.

Eppure nel 2015 lo scenario è completamente cambiato perché la tipizzazione ha rivoluzionato il sistema disciplinare con cui si confrontava la legge del 1988 e la nuova formulazione della responsabilità civile ha ampliato in modo rilevante le possibilità di azioni risarcitorie.

Ancor prima di affrontare il problema degli effetti della proposizione dell’azione civile su quella disciplinare una qualche riflessione merita anche la prospettiva inversa.

Il progressivo ritrarsi della clausola di salvaguardia prima sul terreno disciplinare, poi su quello della responsabilità fino a quello della rivalsa, crea un problema non secondario, anche questo fondamentalmente di tipo culturale, proprio sul terreno della giustizia disciplinare.

Fino ad oggi la scarsa frequentazione e la stessa formulazione della legge dell’88 facevano sì che il sistema disciplinare costituisse un presidio interno alla magistratura che esauriva in quella sede la sua funzione e i suoi effetti, ora l’azione disciplinare può veder cambiare il suo rapporto con l’azione di responsabilità perché questa ha visto espandere i propri confini in parziale sovrapposizioni con che quelli della prima. Non basta riconoscere la piena autonomia formale dei due giudizi per risolvere il problema perché, mentre prima l’azione disciplinare costituiva l’argine ultimo a presidio della correttezza dei comportamenti e del corretto esercizio della giurisdizione, ora può diventare il tramite ed il volano di ulteriori e più invasive rivendicazioni. La pienezza della clausola di salvaguardia contenuta nell’art 2 costitutiva una barriera e riservava alla sola giustizia disciplinare la possibilità di censura di gravi ed imperdonabili errori nell’applicazione della legge. Ora tale barriera è caduta. Si tratta di un rovesciamento di prospettiva radicale, in grado di influire sulla natura stessa del giudizio disciplinare. Per questo, già nell’immediatezza dell’approvazione della legge, da più parti, e in particolare dal vice presidente del Consiglio superiore in occasioni pubbliche, è pervenuta la sollecitazione ad un speciale ponderazione nelle azioni disciplinari per evitare che questi stimolino azioni risarcitorie. Non si può affatto escludere, per una sorta di eterogenesi dei fini, che la nuova formulazione della responsabilità civile consegua il paradossale risultato di indurre una maggior remora alla promozione di iniziative disciplinari.

Si pone un problema non solo di giurisprudenza difensiva dei giudici, ma di approccio difensivo anche dell’inquirente e del giudice disciplinare

La giurisprudenza disciplinare deve farsi carico di tale sovrappeso di responsabilità

I due giudizi sono certamente autonomi e non esiste tra di essi rapporto di pregiudizialità.

L’autonomia è espressamente prevista dal primo comma dell’art. 20 del d.lgs 109/06 e di pregiudizialità in senso stretto può parlarsi solo con riferimento al procedimento penale, perché solo per questo è prevista la possibilità che l’accertamento faccia stato nel procedimento disciplinare nei limiti previsti dal secondo e terzo comma dello stesso articolo 20 del d.lgs 109/06 [24] e, specularmente, con riferimento ai procedimenti disciplinari in genere, dagli artt. 653 e 445 cpp[25]. La pregiudizialità è poi esplicitamente esclusa dall’art. 6 della legge Vassalli, sotto questo punto rimasta invariata.

La pendenza in sede penale dell’accertamento di fatti coincidenti con quelli oggetto dell’accertamento disciplinare[26] conseguente all’esercizio dell’azione penale impone perciò la sospensione del procedimento, mentre le indagini preliminari in corso consentono al Procuratore generale (ma non al Ministro che abbia in corso accertamenti prodromici all’esercizio dell’azione, né alla sezione disciplinare in fase di giudizio) di sospendere facoltativamente il procedimento, secondo quanto previsto dall’art. 16 c. 4 del d.lgs 109/06.

Nessuna pregiudizialità in senso stretto è prevista quanto ai giudizi civili e amministrativi, che non sono destinati a fare stato nel giudizio disciplinare, mentre l’art. 15 lett. d-bis) del d.lgs 109 consente la sospensione dei termini del procedimento disciplinare, nei soli casi previsti dall’art 2 comma 1 lett g) ed h), quando all’accertamento del fatto costituente illecito disciplinare è pregiudiziale l’esito di un procedimento civile, penale o amministrativo. Il punto d-bis) del comma ottavo è stato introdotto con la l. 269/06 senza che, anche questa volta, sul punto vi fosse in sede parlamentare particolare discussione. L’aggiunta incide indirettamente anche sul contenuto dell’art. 20 c. 1, che al medesimo comma fa rinvio.

Ferma restando l’autonomia tra i due giudizi, perciò, i termini del giudizio disciplinare potranno essere sospesi quando l’accertamento della grave violazione di legge o del travisamento del fatto (che sono le ipotesi cui rimandano le lettere g) ed h) dell’art. 2 ) costituisca oggetto di una domanda risarcitoria in corso e si ritenga sussistere una sostanziale coincidenza tra la materialità delle due condotte [27] (fermo restando che l’apprezzamento dei profili deontologici non coincide con quelli di danno ). Che si tratti di una pregiudizialità atecnica, di ordine logico, che non implica l’efficacia vincolante del giudizio assunto in sede diversa da quella disciplinare trova conferma nel riferimento anche ai giudizi amministrativi (non richiamati dall’art 20 c. 1) e a quelli penali, i cui effetti sospensivi in ipotesi di pregiudizialità in senso proprio erano già previsti dalla lettera a) dell’ottavo comma.

Anche se la sospensione del procedimento ha natura diversa da quella dei termini e la prima opera di diritto, ed è perciò automatica e necessaria, mentre la seconda deve essere dichiarata, ed è rimessa alla valutazione dell’autorità procedente, l’effetto pratico non è molto dissimile, perché pospone la decisione alla definizione dell’accertamento nella diversa sede.

Occorrerà valutare attentamente come il ricorso a tale strumento possa incidere sul rapporto tra giudizio disciplinare e giudizio di responsabilità, sia perché la possibilità di sospensione si riferisce a due sole delle possibili fonti di responsabilità civile (sia pure quelle maggiormente controverse ), con il rischio della creazione di regimi differenziati a seconda del contenuto dell’azione risarcitoria promossa, sia perché il sistema della legge sulla responsabilità civile sembrerebbe prefigurare un rapporto inverso (di incidenza del giudizio disciplinare su quello civile) prevedendo la possibilità di acquisizione al giudizio di responsabilità degli atti del giudizio disciplinare , sia infine, ma soprattutto, per il principio generale, affermato già col superamento della pregiudizialità penale dell’art. 3 del vecchio codice di procedura e rafforzato dal 111 cost., che vuole autonomi i giudizi, tassative le ipotesi di pregiudizialità e restrittiva la lettura delle ipotesi di sospensione.

Ragioni di ordine giuridico, logico e empirico inducono a ritenere che la sospensione del procedimento disciplinare (anche solo attraverso la sospensione dei termini) in attesa della definizione di quello civile, pur da alcuni auspicato all’indomani dell’approvazione della nuova legge, opererà in situazioni del tutto residuali. Già in questo senso sembra orientarsi la riflessione della Procura generale della Cassazione [28] che ha messo in evidenza come la sospensione potrebbe operare solo nel caso in cui il magistrato sia parte nel giudizio civile ed esclusivamente nelle limitate ipotesi previste dall’art. 15 c. 8 lett d)bis, e come i tempi del giudizio civile siano difficilmente compatibili con una effettiva ed efficace possibilità di valutazione delle condotte in sede disciplinare.

Al contrario, ferma restando la piena autonomia dei due giudizi, la valutazione disciplinare, i cui tempi sono cadenzati in modo abbastanza serrato dall’art. 15, potrebbe avere certamente una funzione di deflazione e sdrammatizzazione delle azioni risarcitorie manifestamente infondate che dovessero essere proposte parallelamente all’esposto disciplinare, stante la maggiore speditezza delle seconde e la possibilità di acquisizione degli atti a quelli del giudizio civile.

6. Eliminazione del filtro e obbligatorietà dell’azione disciplinare

Per quanto riguarda invece gli effetti del venir meno del giudizio di ammissibilità, come abbiamo visto, l’obbligo di azione previsto dall’art. 9 sembrerebbe nascere ora già al momento della proposizione dell’azione da parte del privato.

La questione è effettivamente delicata, ma il condizionale è d’obbligo poiché la lettura attenta della norma conduce pianamente a conclusioni diverse. Interpretata letteralmente la norma è palesemente irragionevole, perché obbligherebbe all’esercizio dell’azione disciplinare oltre i limiti della obbligatorietà, che è un principio cardine del sistema disciplinare. La richiesta risarcitoria, indipendentemente dalla sua fondatezza ed anche se pretestuosa, avrebbe come conseguenza, con una sostanziale abdicazione al principio di esclusività del monopolio pubblico all’esercizio della pretesa punitiva, l’attivazione di una azione disciplinare non necessariamente corrispondente ad una delle ipotesi tipiche previste dalla legge.

Secondo alcuni tale insanabile contraddizione sarebbe meritevole di un tempestivo intervento della Corte costituzionale[29], tuttavia, sembra possibile, in linea con l’orientamento espresso dalla Procura generale, una lettura della norma che non la ponga in conflitto con i principi fondamentali del sistema disciplinare, ma ne determina il significato alla luce di questi, dovendosi riconoscere a questi ultimi un valore sistematico preminente «partecipando la giustizia disciplinare all’assetto costituzionale della magistratura»[30]. I presupposti per l’esercizio, sia pure obbligatorio, dell’azione disciplinare non sono rivisitati dalla modifica della legge Vassalli, e richiedono l’acquisizione di una notizia circostanziata di un fatto riconducibile ad una delle ipotesi tipiche previste dalla legge. Solo in tale ambito dalla proposizione di un’azione di responsabilità può conseguire l’iniziativa di promozione (che rimane atto d’impulso proprio del titolare del relativo potere) dell’azione disciplinare, dovendosi escludere la creazione di una «sorta di illecito ‘processuale’ atipico consistente nella mera pendenza di una controversia di danno introdotta da un privato verso lo Stato»[31]. Fuori di tali ipotesi non sorge alcun obbligo né di esercizio dell’azione, né di apertura di una fase preliminare di accertamento. Già in vigenza del vecchio testo degli artt. 5 e 9 non si riteneva, quando i fatti non erano riconducibili ad una delle fattispecie tipiche, che alla dichiarazione di ammissibilità dell’azione civile dovesse conseguire automaticamente l’esercizio dell’azione disciplinare, e da questo punto di vista l’abrogazione del filtro non cambia i termini della questione, mentre il venir meno dell’obbligo di comunicazione da parte del giudice, prima previsto dall’art. 5, priva i due ambiti di azione di qualunque raccordo procedurale.

Solo nell’ipotesi in cui il fatto oggetto dell’azione di risarcimento abbia le caratteristiche proprie della notizia circostanziata, contenga cioè tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie disciplinare, come richiesto dall’art. 15 c. 1 del d.lgs 109/06, e del fatto sia notiziato il titolare dell’azione disciplinare, all’azione civile potrà affiancarsi un’azione disciplinare.

[1] Sul punto basta richiamare tutto il dibattito che accompagnò l’approvazione della legge Vassalli e che indicava il terreno disciplinare come quello proprio in cui la responsabilità per l’errore del giudice doveva essere fatto valere e, per l’attualità, la relazione del presidente Rovelli nel corso della tavola rotonda organizzata dalla Formazione decentrata della Corte di cassazione: Responsabilità civile dei magistrati. Tavola rotonda – 27 maggio 2015 , relazione introduttiva di Luigi Rovelli, interventi di Giovanni Amoroso, Giovanni Canzio, Sergio Di Amato, Giancarlo Montedoro, Alessandro Pajno, Nicola Bruno Sassani

[2] V. la tavola rotonda sopra citata

[3] A tale preoccupazione ha dato ampia voce la giornata di studio organizzata dal Csm e dalla Scuola superiore della magistratura su La nuova responsabilità civile dei magistrati tra giurisdizione e governo autono, Roma 11-12 giugno 2015. Ne dà conto Questione giustizia on line il 3 luglio successivo, http://questionegiustizia.it/articolo/la-riforma-della-responsabilita-civile-dei-magistrati_03-07-2015.php.

[4] Consiglio nazionale forense: Disciplina della responsabilità civile dei magistrati, l. 27 febbraio 2015 n. 18, dossier di analisi a cura dell’Ufficio studi, n. 3/2015: «L’abolizione del filtro di ammissibilità potrebbe infatti incidere positivamente sull’effettività della tutela risarcitoria assicurata al cittadino ed ovviare alla già segnalata scarsa applicazione della legge n. 117/88 nella vigenza del testo originario.

[5]Camera dei deputati: ddl 1735 AC (disegno di legge Leva ed altri, poi assorbito nel disegno 2738 C.), dossier di documentazione 90/1 del 3 dicembre 2014 .

[6] Anm Audizione dei rappresentanti dell’Anm – Commissione giustizia della Camera dei Deputati 10 dicembre 2014 – Proposta di legge C. 2738 (S. 1070 Senatori Buemi ed altri) Disciplina della responsabilità civile dei magistrati.

[7] Per quanto riguarda la non sottrazione dell’attività giurisdizionale all’ambito di operatività dell’art. 28 cost. v. Corte cost n.2/1968, 18/89; 385/1996; per quanto riguarda la funzione del filtro come opportuno rafforzamento della tutela dell’autonomia della giurisdizione e dell’indipendenza dei giudici v.468/1990, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della mancata previsione del filtro, ratione temporis, per le azioni di responsabilità promosse successivamente al 7 aprile 1988 (termine finale di differimento degli effetti abrogativi del referendum popolare), per fatti anteriori al 16 aprile 1988 (data di entrata in vigore della nuova normativa) e 18/89: «va sottolineato che la previsione del giudizio di ammissibilità della domanda (art. 5 l. cit.) garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni "manifestamente infondate", che possano turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l'astensione e la ricusazione»; ma già con la decisione di ammissibilità del quesito referendario la Corte aveva precisato: «la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell'autonomia delle sue funzioni». Sent. 26/1987.

[8] V. Giovanni Amoroso, su questa Rivista, in questo numero, Riforma della responsabilità civile dello Stato per fatto del magistrato tra buone idee e soluzioni approssimative

[9] G. Amoroso, ivi.

[10]Cass. Sez. VI n. 16924 del 18/3/15.

[11] Tribunale di Verona, III sez., ord. 12 maggio 2015 proc in. N. 1920/2013 e Tribunale di Treviso, sez. penale, ord. 8 maggio 2015 in proc. 1727/13, pubblicate su Questione giustizia online e ampiamente diffuse.

[12] G Verde: Un questione di legittimità dalle basi fragili, Guida al diritto, 6 giugno 2015 n. 24

[13] A. Briguglio in: N. Picardi A. Vaccarella, La responsabilità civile dello Stato giudice, Cedam 1990 p. 88 ss.

[14] Per tutti v. C. Castronovo La commedia degli errori nella responsabilità dello Stato italiano per violazione del diritto europeo ad opera del potere giudiziario, Europa e diritto privato, 2012 p. 945. Ma tutte le analisi sulle sentenze della corte di giustizia Kobler, Traghetti del mediterraneo e Commissione c/ Italia, concordano nell’escludere che la legge approvata sia, nel contenuto, la risposta necessitata dalla procedura d’infrazione avviata in sede europea.

Per spunti critici sui vincoli all’interpretazione derivanti dal crescente peso della giurisprudenza comunitaria v. Marco Bignami, Il deficit culturale della nuova disciplina della responsabilità civile, testo della tavola rotonda organizzata dalla formazione decentrata della Scuola superiore della magistratura a Milano il 17 aprile 2015 e su Questione giustizia on line, http://questionegiustizia.it/articolo/il-deficit-culturale-della-nuova-disciplina-della-responsabilita-civile-dei-magistrati_21-05-2015.php.

[15] Csm: Parere, ai sensi dell'art. 10 legge n. 195/58, sul Disegno di legge concernente: “Riforma delladisciplina riguardante la responsabilità civile dei magistrati”.(Delibera del 29 ottobre 2014).

[16] S Di Amato: La responsabilità disciplinare dei magistrati; Giuffrè 2013 p. 202.

[17] Csm 25/10/2013, n.140.

[18]Cass. Sez. IV n. 21602 del 17/4/707, Ventola.

[19]Cass. Sez. U, n. 41461 del 19/7/12, Bell’Arte.

[20] Csm 20/9/12, n. 130 ; 26/10/ 12, n.18/13; 25/2/2015 n. 24 .

[21] SS UU 3759 del 17/2/09, che hanno confermato la decisione della sezione disciplinare che aveva riconosciuto un sostanziale travisamento dei fatti nella valutazione degli elementi emergenti da un fascicolo del Tribunale di sorveglianza, mentre è ancora sub judice, per la pendenza del giudizi di rinvio, la contestazione per violazione della lettera h) dell’art 2 formulata per il grave travisamento del fatto nella qualificazione di una condotta come lesioni colpose e non come tentato omicidio: Csm n. 87 dell’ 11/4/2014 e SS UU n. 26551 del 2/12/2014. La cessata appartenenza dell’incolpato all’ordine giudiziario o l’intervenuta decadenza dell’azione hanno precluso al giudice disciplinare di pronunciarsi nel merito in altri casi di contestato travisamento del fatto in senso proprio: Csm 20/4/2012 n. 65 e 24/7/2012 n. 128.

[22] CSM n. 21 del 9 gennaio 2014 e 42 del 15/2/2013

[23] ddl S.1070 seduta di commissione giustizia del 5 novembre 2014.

[24] F. Sorrentino, Procedimento disciplinare per i magistrati e ipotesi di sospensione, in questa Rivista, ed. Franco Angeli, Milano, 2009, n. 1 pag. 67.

[25] V SS.UU penali 29/11/2005 n. 17781/06.

[26] Se si tratti di identità del fatto o identità della vicenda v. sez. disc. 97/210 e 28/09 da una parte e SS.UU. n. 7310 del 28 marzo 2014. Poiché la sospensione tende a impedire accertamenti giudiziali confligenti e giudicati contrastanti, quello che deve essere preso in considerazione è la sovrapponibilità dei dati dei fatti il cui accertamento è indispensabile ai fini del giudizio.

[27] M. Fantacchiotti, M. Fresa, V. Tenore, S Vitello, La responsabilità disciplinare delle carriere magistratuali, p. 421.

[28] M. Fresa C. Sgroi, La responsabilità civile del magistrato e i rapporti con la responsabilità disciplinare, intervento al Seminario del Csm, La nuova responsabilità civile dei magistrati tra giurisdizione e governo autonomo, Roma 11-12 giugno 2015, pubblicato su Questione Giustizia on line il 3 luglio, http://questionegiustizia.it/doc/procura-generale-cassazione-resp_civile.pdf.

[29] S. Di Amato, Errore del giudice e responsabilità civile dopo la riforma della legge Vassali, Giustizia civile.com, Editoriale, 3 giugno 2015 p. 10.

[30] M. Fresa C. Sgroi, già richiamato.

[31] ivi