Magistratura democratica

Giudici di oggi (e di ieri) di fronte al lavoro.
E alle sue trasformazioni

di Nello Rossi

1. Non sembri un amarcord

Nel presentare un numero della Rivista dedicato ai temi del lavoro – tutto centrato sull’analisi del presente, sulle attuali condizioni dei lavoratori e sulle nuove frontiere del conflitto sociale e giuridico – scegliamo di partire – solo di partire, naturalmente – dalla memoria.

Alle origini della lunga avventura della magistratura di orientamento democratico sta infatti il nodo del lavoro, finalmente posto al centro di una lettura che andava oltre lo schema formale del contratto di lavoro come scambio tra eguali e mirava a cogliere tutte le implicazioni di un rapporto nel quale era coinvolta la persona del lavoratore.

A partire dalla metà degli anni sessanta, molti giudici del lavoro scelsero di “vedere” ciò che era stato ignorato sebbene fosse sotto gli occhi di tutti: le arbitrarie limitazioni della libertà personale nei luoghi di lavoro, le tante diseguaglianze, i mancati riconoscimenti di professionalità, le inadeguatezze e le sperequazioni delle retribuzioni, i licenziamenti immotivati, discriminatori e intimidatori, la mancata adozione delle cautele necessarie a salvaguardare l’incolumità personale e la salute dei lavoratori. 

All’inizio lavorarono con il codice civile alla mano, questi magistrati, trovando soluzioni spesso tecnicamente assai sofisticate e, insieme, socialmente e giuridicamente lungimiranti.

Poi, quando fu approvato lo Statuto dei lavoratori e venne varato il nuovo processo del lavoro, furono ancora questi giudici a vivificarne le norme e a farne la base di una disciplina del lavoro più equilibrata di quella consegnata al Paese dalle vicende del secondo dopoguerra. E ciò mentre i pretori penali, dal canto loro, mettevano in campo iniziative dirette a incidere sul tasso degli infortuni sul lavoro e sulla salubrità degli ambienti di lavoro.

Oggi è storia. Allora fu una battaglia. Che si sapeva limitata – perché, almeno in parte, circoscritta all’area del lavoro dipendente delle medie e grandi imprese –, ma che valeva la pena di dare. Perché i suoi effetti erano di emancipazione di settori trainanti delle classi lavoratrici e si propagavano, sia pure in misura più ridotta, all’intero mondo del lavoro. E perché – pur tra aspetti problematici nascenti dall’applicazione, a volte troppo meccanica e perciò anche strumentalizzabile, di soluzioni giurisprudenziali valide per gli operai del settore privato anche ai dirigenti di impresa o ad aree del pubblico impiego – vi fu una positiva valorizzazione del lavoro e della sua dignità.

Ne scaturì un incontro, non facile né lineare eppure forte e significativo. Tra grandi masse di lavoratori e le loro organizzazioni, e un segmento delle istituzioni, cui i lavoratori impararono a guardare con un grado di fiducia prima mai provato. Un fatto di portata storica nella storia di un Paese nel quale la diffidenza era stata la cifra del rapporto tra le masse popolari e la giustizia.

È il passato, certo. Su cui non si può indugiare troppo, visto che presente e futuro premono e invitano a cimentarsi con nuovi problemi la cui urgenza non lascia spazio alla nostalgia.

Ma è quel passato – scandito dai pensieri e dagli esempi di grandi giudici del lavoro che non sono più tra noi, Marco Ramat, Pino Borrè, Salvatore Senese, e di maestri come Virgilio Andrioli, il padre del processo del lavoro – che ha ispirato il permanente interesse, questo sì attualissimo, del giuslavorismo democratico verso le trasformazioni del lavoro e la ricerca di forme di tutela dei diritti adeguate ai nuovi contesti economici e produttivi.

C’è, dunque, una continuità di cui essere orgogliosi, che testimonia come possa essere smentita la narrazione di un contrasto fatale e irriducibile tra cittadini ed élite tecniche, tra popolo e palazzi (in questo caso di giustizia).

2. Il lavoro che si trasforma

Le trasformazioni del lavoro, dicevamo.

Imponenti, pervasive, rapidissime. Sorprendenti e stressanti per i lavoratori dei settori coinvolti, ma anche per gli utenti e i consumatori, ormai alle prese – anche i più preparati tra loro! – con l’inquietante sensazione di essere divenuti, in alcuni ambiti di vita, dei veri e propri analfabeti.

Parliamo di ciò che può constatare, sulla base della sua esperienza di vita, ogni cittadino.

C’è, innanzitutto, il lungo elenco dei lavori semplicemente scomparsi o in via di sparizione.

Alcuni di essi non sono affatto da rimpiangere perché erano lavori che facevano ammalare, che uccidevano, o che, seguendo pedissequamente il modello dell’organizzazione fordista, riducevano l’attività umana a un gesto “macchinoso”, elementare, ripetitivo, estenuante.

Ma sono scomparsi anche molti lavori “gentili”, di prossimità e di contatto umano, di supporto dei deboli e dei disorientati nell’accesso ai servizi e ai consumi.

Ci sono, poi, i lavori in crisi. Oggi non c’è impresa (del settore industriale e commerciale, ma anche bancario, assicurativo, finanziario) che non colleghi la prospettiva di maggiori profitti o di risanamento a drastiche riduzioni della forza lavoro. Ed è solo la punta di un iceberg di enormi dimensioni che cela, sotto la superficie, le riduzioni di personale di vasti settori dei servizi e la progressiva falcidie di piccoli esercizi commerciali o artigiani, insidiati e surclassati prima dalla grande distribuzione e ora dai colossi delle vendite telematiche e delle consegne a domicilio.

Parallelamente cresce la quota di lavoro riservata agli utenti e ai consumatori. A volte si tratta di un’attività del tutto passiva e inavvertita, se è vero che ogni consumatore ha un valore di mercato per il solo fatto di guardare una certa pubblicità; a volte il compito richiesto alle persone può essere difficile e faticoso, come quando all’utente si chiede di seguire percorsi complessi per accedere a un servizio pubblico o al consumatore di cooperare, spesso anche materialmente, alle attività di prelievo e di messa in funzione dei beni acquistati.

Con l’aggravante che, nel nostro Paese, molti servizi pubblici sono stati capaci di sommare le tradizionali oscurità del gergo burocratico alle difficoltà di una digitalizzazione che di regola è molto meno amichevole, comprensibile e accessibile di quella dei grandi operatori privati. Ed è forse per questo che, quando qualche politico annuncia con soddisfazione la digitalizzazione di un settore dell’amministrazione pubblica, la reazione del cittadino medio è di malcelata apprensione.

Nel frattempo si amplia l’area della gig economy e si diffondono lavori che è asettico e ingannevole definire solo “precari”. Lavori nei quali la messa a disposizione di energie lavorative da parte del lavoratore deve essere pronta e totale, mentre il datore di lavoro dispone unilateralmente dei tempi e dei modi del suo impiego e dei livelli dei compensi.

Una forma di utilizzo della forza lavoro – meglio: di sfruttamento – che solo ora comincia a essere ricondotta al quadro legale della subordinazione e per la quale è stato coniato il termine di “paraschiavismo”.

A ingrossare le fila di questo esercito di paraschiavi concorrono lavoratori italiani, in gran parte giovani, ed extracomunitari, dai riders ai migranti impegnati soprattutto in agricoltura, in un coacervo di posizioni lavorative e di figure profondamente differenti tra di loro, tutte accomunate però dalla relazione assolutamente squilibrata tra chi presta e chi riceve l’attività lavorativa e dall’assenza delle più elementari tutele sul piano previdenziale e antinfortunistico. Con l’effetto di realizzare arricchimenti privati ai danni della collettività, chiamata poi a supplire, attraverso la fiscalità generale, alle carenze di tutela di questi tipi di lavoro.

Ai lavoratori immigrati e, in particolare, ai cd. “irregolari” – cresciuti di numero nella stagione dei due populismi al governo – è poi spesso riservato un regime doppiamente odioso: di sfruttamento e di avversione, di utilizzo e di ripulsa, di impiego nella produzione e di emarginazione in una società e in uno Stato che non fanno quasi nulla per insegnare la nostra lingua e dar loro un’istruzione professionale, mentre nelle orecchie dei cittadini rimbombano, fino a stordirli, i falsi e vuoti proclami di espulsione pronunciati dai demagoghi al governo o all’opposizione.

Certamente, a questo versante scuro e problematico del mondo del lavoro si contrappone un’altra realtà, più rassicurante e promettente, che ci invita a guardare al futuro con maggiore ottimismo.

Parliamo della crescita dei lavori legati alla conoscenza scientifica e tecnologica, alle funzioni indispensabili in società tecnologicamente avanzate, alle scienze umane, alla cultura, all’insegnamento, al lifelong learning, ma anche alle molteplici e crescenti attività dell’assistenza e dei servizi alle persone, destinati a divenire sempre più sofisticati e raffinati.

Ma qui vengono in campo abilità e competenze che non si improvvisano. Il che richiede crescenti investimenti nei sistemi dell’istruzione e della formazione permanente, decisivi per il lavoro futuro se sono affidabili – tra le molte altre analoghe – le previsioni formulate dalla Banca mondiale nel suo rapporto del 2019 sui «Cambiamenti nel mondo del lavoro» e sui bisogni di competenze e professionalità posti dagli impieghi, assolutamente inediti, che attendono i ragazzi che oggi iniziano il loro ciclo scolastico.

3. E i giudici?

È in questo mosaico complesso, fatto di lavori del futuro, di lavori scomparsi, di attività in crisi, di forme di nuovo e brutale sfruttamento, che si collocano le alternative che stanno di fronte alla nostra come ad altre società.

Si può – si deve? – ripensare il lavoro, nelle sue forme e nel suo peso nell’esistenza degli individui, cercando vie di uscita dal rigido dualismo di un lavoro che ti mangia la vita e di un pensionamento che relega all’irrilevanza sociale (anche quando si traduce in aiuti preziosi all’interno delle famiglie)?

Le tecnologie labour saving possono servire a liberare una parte via via crescente della vita (come avvenne in passato nelle mura domestiche) oppure, nel contesto di una economia di mercato, sono fatalmente destinate a essere impiegate solo per massimizzare i profitti?

E ancora, reddito o lavoro? E in che combinazione tra di loro? Lavoro redistribuito su di una più ampia platea o una garanzia di reddito minimo per gli esclusi, che risponde all’esigenza di civiltà di assicurare un sostegno vitale ma anche al bisogno dell’economia di mercato di non vedere assottigliarsi troppo le fila dei consumatori, falcidiate dalle sistematiche riduzioni di personale.

E infine, come interpretare oggi il requisito fondamentale della dignità del lavoro, di ogni lavoro, che reclama livelli di retribuzione adeguati ed eguali a parità di lavoro svolto e un corredo di diritti e libertà per ogni lavoratore?

In un ambiente così variegato e così intensamente condizionato da fattori che sovrastano tutte le economie nazionali, la politica e l’economia del nostro Paese dovranno ricercare risposte, anche parziali e progressive, alternando la “tecnologia a spizzico” di singoli interventi con una più ampia visione che colleghi l’Italia e la sua economia all’Unione europea e al contesto internazionale.

In questa inevitabile navigazione a vista, c’è però una bussola da non smarrire che può essere fornita, giorno per giorno, dalla scienza giuridica e dalla quotidiana esperienza del diritto, dal “diritto dei testi” e dal “diritto in azione”, a cominciare dalla soluzione dei tanti casi difficili che la vita giudiziaria continuamente propone.

Occorrerà che i giudici sappiano continuamente alzare lo sguardo alla dimensione “generale” dei problemi del lavoro per poi rivolgerlo di nuovo al “particolare” delle singole vicende sottoposte alla loro attenzione, offrendo – grazie alla loro funzione di decisori di conflitti e di risolutori di problemi – apporti preziosi di conoscenza e di praticabile saggezza tanto alla generalità dei cittadini quanto agli altri decisori; rinnovando l’impegno a tutelare e valorizzare il lavoro lungo la linea tracciata dalle norme della Costituzione e interpretando in quest’ottica leggi del passato e del presente, attraverso un’elaborazione giurisprudenziale nella quale si fondano – come avvenuto in passato e come si può leggere in Costituzione – rigore giuridico ed empatia sociale verso la figura del lavoratore.

L’obiettivo puntato “sul lavoro” da parte di una rivista di magistrati avrà senso se – anche grazie ai contributi di studiosi di valore – concorrerà a promuovere questo esercizio di duplice attenzione: alle norme e alla realtà, all’economia e alle persone dei lavoratori, alla foresta e a tutti i singoli alberi che la rendono rigogliosa.

Febbraio 2020