Il diritto del lavoro e la riscoperta della questione redistributiva
Il saggio si propone di verificare se sia rinvenibile, nel più recente diritto del lavoro, una inversione di tendenza orientata a una riscoperta dei “valori”. La riflessione viene condotta, con attenzione ai cambiamenti intervenuti nella legislazione e nel dibattito dottrinale degli ultimi decenni, prendendo come punti di partenza i valori/principi sui quali la Costituzione ha incardinato il discorso sul lavoro negli articoli 1, 2, 3, 4 della Carta.
1. Valori e dolori: il difficile bilanciamento interno al diritto del lavoro
Dopo anni di rimozione, il discorso sui valori è tornato in auge nella comunità giuslavoristica.
Superata la “sbornia tecnicistica” che aveva condotto alle riforme neoliberali degli anni 2012-2015, è apparso chiaro che brandire il vessillo di un diritto del lavoro “de-ideologicizzato” presentava i tratti di un’illusione quando non di un mascheramento. Che le teorie alla base del meccanismo giuslavoristico siano il riflesso di opzioni ideologiche[1] più o meno dichiarate è, del resto, un dato scontato, e non solo nel diritto del lavoro italiano[2].
Per la verità, ripulire dall’ideologia la riflessione su alcuni snodi regolativi del lavoro era, con ogni probabilità, l’unico modo per consentire alcuni strappi all’interno di una materia che si presentava da tempo ossificata. Senza un apparente tratto di penna sul tema dei valori non sarebbe stato possibile mettere in discussione alcuni postulati che si tramandavano, quasi tralatiziamente, da decenni[3].
La necessità di questa operazione è apparsa con tutta la sua evidenza, se vogliamo fare un esempio, nella discussione svoltasi intorno alle tutele del licenziamento illegittimo e, in particolare, intorno al ruolo della reintegrazione come tecnica su cui fondare la dinamica del recesso dal rapporto di lavoro. Nel corso del dibattito che si è svolto, nel 2012, in occasione della riforma Fornero, la rimodulazione delle tutele previste per il licenziamento illegittimo ha fatto i conti con l’ipotesi del superamento della tecnica reintegratoria in via generalizzata, trovando tuttavia ostacoli che hanno indotto il legislatore a mantenerla in vita anche per le ipotesi di licenziamento per motivo economico[4]. La stessa sorte non è toccata, invece, al principio di tutela reale in occasione del Jobs Act, dove, proprio in nome di un approccio “liberato” dai valori storici del diritto del lavoro, è prevalsa la scelta di ripulire l’area del licenziamento economico dal rischio della reintegrazione[5].
Il cambiamento di prospettiva è stato di non poco conto, considerato che alla tutela reale era stato assegnato un significato fondativo ed essenziale anche al fine dell’esercizio degli altri diritti, se solo si pensa alla giurisprudenza costituzionale in materia di prescrizione[6]. E non è un caso che una parte della dottrina sia sul punto intervenuta di recente, rilanciando l’idea della tutela di carattere reale come principio generale[7].
Tutto questo per dire che, da un lato, l’approccio assiologico è in qualche modo ascrivibile al dna del diritto del lavoro, ma, dall’altro, lo stesso porta con sé una complessità difficile da sciogliere, perché parlare di valori in ambito lavoristico solleva conflitti sopiti ed evoca inevitabilmente quel rischio di tirannia dei valori[8] sempre in agguato nelle operazioni di bilanciamento. Per questo l’attività di bilanciamento, ormai pienamente interiorizzata anche nel discorso giuslavoristico[9], sconta nel diritto del lavoro una perenne sofferenza, quasi che la logica pluralista sottesa all’idea del bilanciamento possa apparire di per sé vulnerante rispetto alle coordinate assiologiche di una materia che nasce e si sviluppa, da sempre, orientata a ribilanciare un assetto di poteri sbilanciato[10].
Ed è forse per questo che l’approccio “mite”[11] ha tardato a penetrare proprio in quel ramo del diritto che era stato il più incline ad assorbire le sollecitazioni delle altre scienze sociali – in primis la sociologia –, senza le quali non avrebbe avuto gli strumenti per comprendere e reagire alla complessità della società industriale. E non è un caso che quando, all’inizio degli anni novanta, il discorso sui principi iniziava a pervadere il diritto pubblico[12], alla dottrina giuslavoristica toccasse, al contrario, interrogarsi sugli effetti della propria deriva post-positivista[13].
L’interscambio con le altre scienze sociali può funzionare invero da cartina di tornasole della fatica con cui il discorso giuslavoristico ha introiettato approcci diversificati nel timore di perdere la propria cifra assiologica: mentre l’osmosi con la sociologia, veicolata dai grandi maestri degli anni sessanta, ha incontrato quali uniche resistenze la difesa del rigore dogmatico apprestata da quella dottrina che, in ultimo, è la più restia a riconoscere l’autonomia del diritto del lavoro dal diritto civile[14], la stessa sorte non è toccata alla contaminazione con l’economia, nei suoi diversi approcci[15].
Il contatto con le sollecitazioni dell’economia è stato, in questi ultimi due decenni, portato avanti con una connotazione fortemente ideologica, tanto che il dibattito sul rapporto tra diritto del lavoro ed economia ha in molti casi nascosto polemiche che con il senso della ricerca interdisciplinare avevano ben poco a che fare. Ciò è probabilmente ascrivibile all’influsso che i lavori di Pietro Ichino hanno avuto sull’evoluzione delle riforme del lavoro del nuovo secolo, dalla riforma Biagi al Jobs Act, nelle quali si scorge l’eco dell’economia neoclassica[16]. Né sono stati sufficienti i tentativi – per la verità radi e sporadici – con i quali diverse voci della dottrina hanno messo in luce il carattere a sua volta polimorfo e conflittuale che pervade il dibattito tra gli economisti, alla luce del quale non è possibile affibbiare all’economia un’etichetta ideologica monocolore, né, tantomeno, “buttare il bambino con l’acqua sporca” tutte le volte in cui – ed è per la verità molto frequente – nel diritto del lavoro intervengono questioni difficili da inquadrare senza alcun riferimento alla teoria economica. Ma su questo torneremo nel paragrafo conclusivo.
Per ora è sufficiente avere a mente, quale introduzione a questo scritto, la dolorosità che accompagna, nel diritto del lavoro, il discorso sui valori, come se il rinvio a questa dimensione “pre-moderna” [17] fosse sempre capace di riaprire porte, stati e condizioni che il tecnicismo giuridico, supportato dal metodo dogmatico, era riuscito a lasciare sullo sfondo. Né è servita a rendere meno ostico il discorso la trasmigrazione dei valori in principi, compiuta dal passaggio costituzionale[18].
Per un verso, i valori/principi che pervadono la Costituzione sulla materia del lavoro sono stati concepiti avendo sullo sfondo un mondo del lavoro che ormai non esiste più in natura (se non per qualche esemplare di fabbrica manifatturiera non ancora intaccata dai nuovi modelli organizzativi aziendali). Ciò significa che questi stessi valori/principi sono stati sottoposti a diversi banchi di prova, superati non sempre con successo a fronte del fiume in piena dell’economia globalizzata.
Per altro verso, la grande crisi economica innescata a partire dal 2007 ha determinato una battuta d’arresto rispetto a una evoluzione regolativa che sembrava avviata, senza possibilità di appello, verso l’inarrestabile accettazione di un nuovo modo di concepire il diritto del lavoro, più orientato – per semplificare al massimo – a fortificare il lavoratore sul mercato anziché nel rapporto, in omaggio al modello danese della flexicurity. La crisi ha messo infatti chiaramente a nudo che il mercato non è un bosco dove i lavori nascono come funghi e che la regolazione (il diritto) del lavoro non può essere caricata di compiti non suoi, come quello, ad esempio, di sviluppare politiche industriali in grado di mitigare gli effetti della crisi, o quello, ancor più arduo, di riportare il baricentro della produzione della ricchezza dall’economica finanziaria all’economia reale.
Il contesto di riferimento che fa da sostrato all’apparato regolativo del diritto del lavoro è dunque, come è stato ampiamente discusso, profondamene modificato, tanto da mettere alla prova non tanto la tenuta dei valori/principi che la Costituzione ha conformato intorno al lavoro, quanto piuttosto gli strumenti esecutivi di una tale conformazione. Questo è il filo rosso che accompagnerà i passaggi di questo scritto: verificare se, alla luce dei cambiamenti di contesto, la strumentazione lavoristica si sia rivelata ancora adeguata al compito di custodire i valori/principi che rivestono il lavoro umano. Solo una tale verifica consente di rileggere la legislazione più recente nella prospettiva del rilancio (o meno) della prospettiva assiologica.
Nei paragrafi che seguono si proverà a tracciare come questo percorso si è dipanato, prendendo come punti di partenza i principi fondamentali sui quali la Costituzione ha incardinato il discorso sul lavoro negli articoli 1, 2, 3, 4 della Carta, per vedere se, e come, può parlarsi di una inversione di tendenza nel più recente diritto del lavoro, orientato a una riscoperta dei valori.
2. La perdita di centralità del lavoro sul piano dell’esistenza (art. 1 Cost.)
La collocazione del lavoro alla base del patto fondativo della Repubblica ha avuto, si sa, molte letture, sulle quali non è qui possibile neppure sommariamente soffermarsi. È sufficiente, tuttavia, partire dal valore di coesione assegnato al lavoro della persona, quale collante della comunità e mezzo di collegamento tra comunità e Stato, per cogliere la crisi del significato assunto dal disposto di cui all’art. 1[19].
Tralasciando il punto – che verrà sviluppato nel paragrafo che segue – del contributo dei lavoratori, come soggetto collettivo, allo sviluppo in senso democratico della società, la questione attiene al significato e, in ultimo, al valore rivestito dall’attività dell’uomo nella costruzione sociale, intesa sia nel senso di comunità produttiva di ricchezza, sia nel senso di luogo che consente lo sviluppo delle personalità dei singoli[20]. Il tema si connette strettamente al rapporto tra reddito da lavoro e reddito da capitale e chiama in causa, a cascata, altre norme costituzionali quali anzitutto, per la valutazione della sufficienza e adeguatezza dei redditi, gli artt. 36 e 38[21].
Da tempo, gli studi economici mostrano come la perdita del potere d’acquisto dei salari, fenomeno che ha interessato la classe media a livello globale, abbia conosciuto nel nostro Paese dimensioni importanti[22]. Al dato dell’impoverimento salariale si aggiunge, poi, il significativo tasso di emigrazione che riguarda soprattutto la popolazione lavorativa di giovane età e ad elevato tasso di istruzione[23]. Se, apparentemente, si tratta di questioni che sfuggono al principio posto dall’art. 1 della Costituzione, è difficile negare che qui si annidi una spia della rottura del patto di coesione che dovrebbe trovare proprio nel lavoro il suo cemento.
Il punto è complesso, perché il drammatico calo del valore (nel senso marxiano di “prezzo”) del lavoro, per quanto possa corrispondere a una tendenza globale legata alla progressiva finanziarizzazione dell’economia, che sposta sul reddito da capitale il cuore di investimenti e crescita, si innerva, in Italia, su alcune grandi trasformazioni non accompagnate, almeno sinora, da parallele riforme in ambito giuridico.
Il primo versante di trasformazione riguarda il tipo sociale connesso alla percezione del reddito da lavoro. Ora non è più possibile assegnare valore tipologico al “lavoro salariato” perché la percezione di reddito da attività umana è connessa ormai a una grande varietà di modi di lavorare, prestati tutti da soggetti che sostanzialmente vivono del proprio lavoro, ma che tuttavia non percepiscono il loro reddito sotto forma di salario, non essendo ammessi al circolo della subordinazione. Si tratta non solo dei protagonisti della cd. “economia dei lavoretti”[24], sui quali è intervenuta, tra le altre[25], la recente legislazione sui rider (vds., da ultimo, la l. n. 128/2019)[26], ma di tutta quella popolazione di lavoratori autonomi cd. di seconda generazione, che condividono con il mondo dell’autonomia le modalità di prestazione del lavoro, ma sono molto lontani dal significato che, sul piano socio-economico, quell’universo ha storicamente rappresentato[27].
Usando il lessico costituzionale, la funzione esistenziale che ha sempre rivestito il principio di sufficienza della retribuzione non riesce a entrare in gioco per una grande porzione di quel mondo del lavoro che, da un punto di vista sociologico potrebbe definirsi “salariato”[28].
Il secondo versante di trasformazione riguarda invece i salari classici, ovvero le dinamiche retributive del lavoro subordinato cd. standard. La questione salariale è tornata di grande attualità[29], fino a chiamare a gran voce un intervento legislativo sul salario minimo[30], con il benestare (e forse anche l’auspicio) delle classiche sigle sindacali – ipotesi che, solo fino a qualche anno fa, avrebbe fatto parte del regno dell’impensabile.
Diverse sono le ragioni alle quali è possibile attribuire il rilancio della questione salariale, e sono connesse solo in parte alla frammentazione del mercato del lavoro che si è descritta poc’anzi. Il problema dei salari riflette infatti, tra gli altri, la crisi di rappresentatività degli storici soggetti collettivi, sia di parte sindacale che, quasi in misura maggiore, di parte datoriale, la quale si è tradotta in una smodata moltiplicazione della contrattazione collettiva di livello nazionale, con conseguente moltiplicazione dei minimi tabellari retributivi cui storicamente occorre fare riferimento per integrare il requisito di sufficienza di cui all’art. 36 Cost.[31].
Raramente la giurisprudenza è riuscita ad arginare il fenomeno, che ha portato con sé una corsa al ribasso dell’intero sistema salariale. Del resto, non era probabilmente possibile forzare in via interpretativa il sistema normativo sino a far rientrare la questione della rappresentatività sindacale all’interno della valutazione di sufficienza della retribuzione[32].
Su questo versante, le riforme annunciate in materia di salario minimo e di regole della rappresentanza dovrebbero mettere ordine nella selva dei contratti e dei salari, imponendo standard minimi retributivi più consoni al principio di dignità e libertà dell’esistenza richiesto dalla Costituzione.
Peraltro, le forme più odiose di sfruttamento salariale possono dirsi arginate dalla recente legislazione. Il concetto di “sfruttamento lavorativo” è stato infatti ormai inserito a pieno titolo nel sistema giuslavoristico dall’art. 603-bis cp, introdotto dalla legislazione sul cd. caporalato[33], e le retribuzioni dei lavoratori più marginali dovrebbero accedere a un minimo di tutele grazie all’ultimo intervento normativo in tema di gig economy[34].
Ora, v’è da chiedersi se il profilo assunto (o in via di assunzione, se si considera la materia in fieri del salario minimo) da questo nuovo diritto del lavoro sia stato in grado di arginare quel fenomeno che aveva progressivamente scolorito la garanzia costituzionale del valore dei salari, incidendo, in ultimo, sul fondamento lavoristico della Costituzione inteso quale elemento coesivo di una comunità. È molto difficile, per la verità, fornire una risposta al quesito senza tenere conto della graduale ma inarrestabile perdita di valore dell’attività umana nell’economia odierna, e ciò non solo perché le rendite che provengono non dal lavoro, ma dal capitale, assumono un peso sempre più qualificante nei patrimoni individuali (degli stessi lavoratori) e collettivi (delle famiglie, ma anche delle imprese, il cui utile è spesso costituito più dalle rendite finanziarie che dal valore prodotto dalla forza lavoro). Il capitalismo del XXI secolo utilizza il lavoro dell’uomo in tante forme, in alcuni casi retribuite (con compensi più o meno sufficienti), in altri casi non retribuite – si pensi all’enorme sacca di lavoro che non è retribuito o perché porta con sé contenuti formativi (da cui la polemica sul potenziale sfruttamento connesso agli stage) o perché rientra nell’ambito del lavoro volontario, anch’esso non di rado avvolto dall’ambiguità –, in altri ancora addirittura occulte – si pensi all’enorme attività (e, quindi, lavoro) svolta dal consumatore nell’economia dell’accesso disintermediato e a basso costo a numerosi beni e servizi[35].
A ciò si può, poi, aggiungere che l’introduzione in Italia di un sistema, per quanto incompleto, di reddito minimo (quello che il legislatore ha impropriamente definito «reddito di cittadinanza») potrebbe mettere in crisi, almeno in alcuni contesti sociali caratterizzati, oltre che da alti tassi di disoccupazione, da dinamiche salariali depresse, l’intera questione salariale, innestando una concorrenza al ribasso tra salario minimo e reddito minimo, secondo uno schema competitivo che potrebbe talora essere vinto (sic!) dal lavoro sommerso[36].
3. Il lavoro come fattispecie relazionale e la crisi del sindacato in Italia (art. 2 Cost.)
Come dimostra l’introduzione di una legislazione sul reddito minimo (che costituisce, per la verità, l’ultimo tassello di una lunga serie di interventi volti a far emergere forme di reddito svincolate dal sinallagma retributivo e connesse, invece, all’aumento di aree di povertà estrema nel Paese)[37], la dimensione del non lavoro è diventata ormai una sfaccettatura che compone in modo stabile la galassia giuslavoristica[38]. Sul tema ci si soffermerà specificamente nel par. 5; qui è sufficiente spendere qualche parola sul principio/valore che appare sotteso a tutti gli interventi di sostegno al reddito, ivi incluso il recente «reddito di cittadinanza» [39].
Ci si riferisce, in particolare, a tutte quelle misure che rientrano nel concetto di “condizionalità”[40], ovvero all’insieme di misure che tengono il lavoratore necessariamente (si tratta di oneri imposti e sanzionati) legato a forme di attivazione, finalizzate ora ad una riqualificazione professionale nel nome dell’occupabilità, ora alla vera e propria ricerca di lavoro.
In molti casi, la condizionalità pone problemi di rispetto delle libertà fondamentali, fino a paventare una vera e propria violazione di diritti umani[41]. Diversa è, tuttavia, la prospettiva se si inquadra la condizionalità alla luce del principio generale posto dall’art. 2 della Costituzione. L’attivazione del soggetto percettore della misura può essere, allora, inquadrata nella prospettiva delle formazioni sociali[42], se solo ci si apre a una concezione “relazionale”[43] del lavoro come luogo dell’essere che impedisce, prima di tutto, l’isolamento umano.
Questa dimensione relazionale è evidente in molteplici ambiti del mercato del lavoro, se solo si pensa al valore di emancipazione rivestito dal lavoro delle donne. Avere un reddito è condizione necessaria, ma non sufficiente per uscire da uno stato di subalternità: occorre anche fruire di un “posto” di lavoro, inteso come insieme di relazioni che consente di sviluppare pienamente la personalità[44].
Se inquadrata in questa prospettiva, la condizionalità, pur con tutta l’attenzione dovuta alle possibili storture che vi si possono produrre (memorabile, sul punto, è il destino del protagonista del film Io, Daniel Blake di Ken Loach)[45], assume un valore nuovo, di principio che impedisce la marginalizzazione sociale di chi, pur percependo un reddito, resta confinato nella sfera del non lavoro. Le forme di attivazione imposte dal principio di condizionalità non svolgono dunque solamente la funzione di tenere viva la potenziale occupabilità del lavoratore, a tutela dell’ente che scommette sulla riduzione del tempo di erogazione della misura di sostegno, ma rivestono anche un’importante funzione esistenziale, impedendo all’assistito di scivolare nella sfera dell’esclusione sociale e di abbandonare quella prospettiva relazionale che costituisce una delle dimensioni psicologicamente più importanti del lavoro umano.
Il richiamo all’art. 2 impone di spendere anche qualche parola sui soggetti collettivi e sulla crisi che, pur essendo – come è ampiamente noto – condivisa quasi dall’insieme dei corpi intermedi, investe inesorabilmente il sindacalismo italiano. Finora, i tentativi di porre rimedio alla crisi della rappresentanza provengono dall’autonomia collettiva stessa, che attraverso una produzione e riproduzione di accordi ha tentato di stabilizzare un sistema di governo della rappresentatività. Sembra sia in cantiere, tuttavia, un intervento legislativo sulla materia, il che chiamerà necessariamente in causa il sistema dell’art. 39 Cost., il quale, se pur mai attuato dalla legislazione ordinaria, ha di fatto governato il sistema sindacale negli ultimi settant’anni. Lo ha fatto, se non altro, imponendo un sistema detto, appunto, “sistema sindacale di fatto”[46], che si è retto su di uno sviluppo del principio di libertà sindacale interamente affidato alla sfera privatistica[47].
A prescindere dalle scelte che saranno compiute in tema di regole della rappresentanza, la previsione di un sistema regolato in via legislativa rappresenterà un indubbio cambiamento di prospettiva, che richiederà tempo e assestamento prima di mostrare quali saranno i suoi effetti sugli equilibri sindacali. Solo il tempo e l’applicazione del nuovo sistema potranno dire se un intervento regolativo possa avere l’effetto di arginare il declino dei sindacati in Italia, in termini non solo di presenza numerica, ma anche di effettiva influenza sulle politiche del lavoro[48]. A mio parere, la mera trasposizione di logiche di misurazione quantitativa difficilmente potrà avere effetti curativi, considerato l’accerchiamento[49] in cui si è trovato il sistema sindacale italiano nonostante la diffusione della pratica – a partire dagli anni novanta – della “conta” numerica[50].
Tra l’altro, la crisi che da decenni investe i sindacati italiani si è arricchita, negli ultimi anni, della dimensione inedita, e non meno pericolosa, della “disintermediazione”[51], che sfocia, in alcuni casi, nella contrattazione individuale tra datore di lavoro e lavoratore, bypassando completamente il sindacato[52] e, in altri casi, nel coinvolgimento di soggetti estranei alla dialettica sindacale (come, ad esempio, i consumatori), che finiscono per prendere parte al conflitto[53].
4. La dimensione dell’eguaglianza e le nuove sfide di una società multiculturale (art. 3 Cost.)
Il terreno che ha consentito la declinazione del principio di eguaglianza nel diritto del lavoro è rappresentato, storicamente, dal diritto antidiscriminatorio, che ha introdotto una serie di limiti all’esercizio dei poteri del datore di lavoro. Seguendo uno schema che ha progressivamente ampliato i fattori di discriminazione presi in considerazione dal legislatore, le condotte del datore di lavoro aventi natura discriminatoria sono state via via limitate, in modo che il rapporto individuale di lavoro potesse riflettere il principio alla base dell’art. 3 Cost.
Come è noto, ancor prima della spinta introdotta dalla legislazione di genere, sono state le discriminazioni sindacali a essere oggetto di tutela, per mezzo degli articoli 15, 16 e 28 dello Statuto dei lavoratori. Ma è stata, per la verità, la disciplina sulle discriminazioni fondate sul sesso a forgiare il diritto antidiscriminatorio e a dotarlo di quel tratto raffinato e concreto che consente di prendere in considerazione non solo le discriminazioni dirette, ma anche quelle indirette, che garantisce l’accesso, nella lotta contro le discriminazioni, alla dimensione collettiva e che consente, sul piano probatorio, di far ricorso a strumenti senza i quali spesso è impossibile smascherare le condotte discriminatorie, come ad esempio la prova statistica[54].
È interessante ricordare che, nonostante la legislazione che ha cambiato volto alle discriminazioni nei confronti delle donne lavoratrici si sia sviluppata negli anni d’oro del femminismo italiano, essa è frutto del recepimento della normativa europea, che affonda le sue radici nella battaglia – assai meno nobile – volta ad impedire il dumping salariale tra gli Stati membri[55].
La prima stagione del diritto antidiscriminatorio ha, tuttavia, di rado avuto accesso alle aule di giustizia, senza che le ragioni di questo silenzio siano state sufficientemente esplorate[56]. Né hanno avuto particolare applicazione, nel nostro Paese, le norme sulle azioni positive in materia di lavoro (a differenza dell’ambito della rappresentanza politica)[57].
Diverso sembra essere, invece, il ricorso alla via giudiziale da quando si è inaugurata la cd. “seconda stagione”[58] del diritto antidiscriminatorio, che, a partire da un gruppo di direttive degli anni 2000, ha ridisegnato i tratti della tutela ampliando i fattori di discriminazione presi in considerazione, estendendo la tutela anche a contesti diversi dal rapporto di lavoro e dando spazio alle molestie quali species del genus discriminazioni. Al di là delle tecnicalità che inducono a ritenere in parte depotenziato il sistema della tutela contro le discriminazioni, è indubbio che tale tutela sia stata ridisegnata in modo da essere più confacente a una società nuova, plurale, dove i tratti di diversità che possono dare origine a discriminazione riflettono i canoni delle nuove minoranze[59].
Ma non è probabilmente spiegabile alla luce dell’ampliamento del suo campo di applicazione l’utilizzo più diffuso del diritto antidiscriminatorio nelle aule di giustizia. Una analisi più attenta induce, infatti, a sollevare dubbi su questa ipotesi.
Anzitutto, le condotte discriminatorie che vengono più frequentemente fatte valere in giudizio sono relative a rapporti diversi dal rapporto di lavoro, confermando in tal modo la storica difficoltà della vicenda discriminatoria ad emergere nell’ambito lavorativo. Esemplare, in proposito, è il caso dell’esperienza applicativa del d.lgs n. 215/2003, dedicato alle discriminazioni sulla razza e l’origine etnica, il quale, pur essendo stato applicato in un numero notevole di controversie, è stato utilizzato più che altro come argine alla diseguaglianza rispetto all’accesso a prestazioni previdenziali e assistenziali, nonché alla fruizione di beni e servizi[60].
Altro discorso deve essere fatto, poi, per il crescente ricorso alla tutela antidiscriminatoria nelle vicende che coinvolgono il recesso dal rapporto di lavoro, dato il cambiamento radicale che ha investito, dal 2012 in poi, le tecniche di tutela previste in caso di licenziamento illegittimo. L’assetto di tutele contro il licenziamento forgiato a partire dalla riforma Fornero ha inciso sulle funzioni della tutela antidiscriminatoria, fino a quel momento poco invocata, per far fronte alle ipotesi di licenziamento illegittimo[61].
È quindi difficile ricondurre alle virtù (in termini di accesso alla tutela) della disciplina antidiscriminatoria del nuovo secolo il ricorso più frequente a questo apparato di regole per contrastare la diseguaglianza sui luoghi di lavoro.
Deve essere, piuttosto, rilevato che la cartina di tornasole della diseguaglianza si misura ormai su terreni diversi da quelli del classico diritto antidiscriminatorio. Per fare alcuni esempi connessi agli ambiti di maggiore fragilità sociale (ma la lista è certamente più lunga e ancora tutta da esplorare), è possibile menzionare, da un lato, l’impatto in termini di eguaglianza che la disciplina sull’immigrazione (per ciò che riguarda il diritto ai permessi di soggiorno e l’acquisizione della cittadinanza) produce con riferimento ai lavoratori stranieri[62]. L’altro lato su cui si misura l’effetto indirettamente discriminatorio delle discipline riguarda l’ampia sfera del cd. lavoro atipico, che nelle sue diverse modulazioni, e nonostante la tralatizia ripetizione – di matrice europea – che vieta le discriminazioni dei lavoratori non standard, riproduce forme di diseguaglianza nell’accesso al lavoro, nella tutela dei diritti, nella percezione del welfare e, in ultimo, anche sul piano salariale[63].
Tutto questo per ricordare che il tema della diseguaglianza nei rapporti di lavoro assume, con la crescente complessità della società e la progressiva diversificazione fenomenica del lavoro, tratti nuovi, difficili da imbrigliare nel concetto di discriminazione (per quanto ampliato dalla normativa europea degli anni 2000) e, soprattutto, difficilissimi da dotare di tutela giudiziaria perché spesso originati proprio da scelte del legislatore[64].
5. Teorie e ideologie del diritto al lavoro (art. 4 Cost.)
Dopo molti decenni di silenzio, probabilmente il diritto al lavoro è quello, tra i principi costituzionali su cui si è costruito il diritto del lavoro, la cui riscoperta ha avuto i maggiori effetti sull’evoluzione più recente della materia. Da quando Massimo D’Antona esortò, nel suo ultimo intervento pubblico, a “prendere sul serio” l’art. 4 della Costituzione[65], l’attenzione per il mercato del lavoro è stato il tema centrale che ha ispirato non solo le riforme del diritto del lavoro, ma la stessa ideologia che vi ha dato impulso.
Una volta archiviata – per la verità, in tempi brevi – la visione che, fino agli anni settanta, aveva polarizzato la questione del diritto al lavoro sul ruolo dello Stato nell’economia, riducendola al quesito intorno all’economia pianificata, a partire dagli anni novanta si è fatta strada la nota lettura che ha assegnato al diritto del lavoro un significato performativo dello stesso diritto del lavoro.
Il rilancio del diritto al lavoro si è via via affermato a partire dalla seconda metà degli anni novanta e ha avuto, come è noto, diversi interpreti. D’Antona, ad esempio, aveva acutamente collegato il diritto al lavoro alla dimensione dell’essere più che a quella dell’avere, in una prospettiva che si emancipa dalla concezione proprietaria del “posto” di lavoro (the ownership of job), per spostare il suo baricentro sulla persona del lavoratore e sulle strategie di sostegno di questa all’interno del mercato del lavoro. Ma non è possibile negare che il vero ideologo del diritto al lavoro come motore delle riforme del lavoro sia stato Pietro Ichino, il quale, prendendo le mosse dalla insider-outsider theory, ha invocato una riforma del diritto del lavoro non solo più attenta alla posizione del lavoratore sul mercato che alle tutele ricevute nel rapporto, ma in grado di favorire, attraverso l’allentamento del sistema di tutele, un turn over più fluido dall’interno all’esterno della cittadella del lavoro protetto[66].
L’affermarsi di questa nuova concezione del diritto del lavoro è stata peraltro favorita da un dato. L’asse delle politiche del lavoro stava sfuggendo alla dimensione nazionale per spostarsi sulpiano europeo, dove si era agli albori della parabola della flexicurity, riassumibile, in estrema sintesi, nelle seguenti tappe: a) a partire dalla «Strategia di Lisbona» del 2000, il Consiglio europeo punta sull’obiettivo di rendere l’economia dell’Ue la più competitiva del mondo nonché di raggiungere la piena occupazione entro il 2010; b) il 22 novembre 2006 la Commissione europea adotta il libro verde «Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo»; c) il 27 giugno 2007 la Commissione europea emana la comunicazione «Verso principi comuni di flessicurezza: posti di lavoro più numerosi e migliori grazie alla flessibilità e alla sicurezza».
Sul piano del diritto interno, non si può certo dire che il diritto al lavoro non sia stato, a partire dalla fine degli anni novanta, preso sul serio. Le riforme legislative che hanno trasformato il diritto del lavoro nell’ultimo ventennio sono state, infatti, sostanzialmente improntate a realizzare una maggiore armonizzazione tra diritto del lavoro e diritto al lavoro, attraverso una triplice direzione[67].
In primo luogo, l’attenzione per il diritto al lavoro si è tradotta nel rafforzamento del sistema dei servizi per l’impiego e la configurazione, a partire dal 1997 ma in modo più strutturato dal 2003, di un sistema misto pubblico/privato (rafforzamento che, dal 2015, ha visto, sulla scia dei modelli francese e tedesco, anche la creazione di un’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro – Anpal – la quale, tuttavia, non ha prodotto i risultati attesi anche per la mancata ricentralizzazione delle competenze in materia di mercato del lavoro, in ragione della bocciatura per via referendaria della riforma costituzionale del 2016)[68].
Si è dato luogo, poi, a una razionalizzazione delle misure di sostegno al reddito, che ha posto il concetto di condizionalità al centro del sistema, come risulta anche dalle misure più recenti, quali il reddito di inclusione e il nuovo reddito di cittadinanza[69].
Infine, la terza direttrice in cui si è sviluppata questa armonizzazione è quella che ha certificato la sostanziale adesione alla tesi che colloca il diritto del lavoro al servizio del diritto al lavoro, seguendo quel modello di analisi economica, riconducibile all’economia neoclassica, che pone la flessibilità esterna in rapporto di causalità con le dinamiche occupazionali (su questa linea certamente si sono posti la riforma Biagi e il Jobs Act, in sintonia con le tesi sul contratto unico di Boeri e Garibaldi[70]).
La giurisprudenza, dal canto suo, ha assimilato la rilevanza che assume la posizione del lavoratore sul mercato del lavoro, cercando per alcuni versi di correggere e compensare la spinta verso la flessibilizzazione del lavoro in nome della promozione dell’occupazione. Si può dire vada, ad esempio, in questa direzione quella giurisprudenza che, nel valutare il vulnus subito dal lavoratore per l’utilizzo improprio di forme di lavoro temporaneo, tiene conto delle condizioni del mercato del lavoro[71]. Più di recente, anche la giurisprudenza costituzionale, con la sentenza n. 194 del 2018 sul contratto a tutele crescenti, sembra tenere conto della prospettiva del mercato del lavoro[72]. Infine, seguendo un ragionamento meno immediato, si è mosso quel filone – per la verità ancora agli albori – che, nel dirimere le controversie nate in seno al capitalismo delle piattaforme, ha sollevato la questione dell’obbligatorietà dell’accettazione della prestazione da parte del lavoratore nel caso Foodora[73].
6. Efficienza e redistribuzione: una parabola annunciata
La battuta di arresto registrata dalla corsa verso la flessibilizzazione della prestazione di lavoro appare, per la verità, l’eco di una modificazione radicale nell’approccio ai temi classici del capitalismo contemporaneo, che trova precisi punti di riferimento nei mutamenti che in questi anni hanno interessato la teoria economica. La corrente dell’economia neoclassica – che dominava indiscussa fino alla prima decade degli anni duemila – vede crollare la propria solidità nel dibattito tra gli economisti. A metterla in discussione sono state prospettive teoriche alternative ormai pienamente riconosciute nella comunità scientifica.
Anche tra le pieghe dei premi Nobel assegnati negli ultimi anni è possibile cogliere, infatti, una crescente sensibilità per gli effetti sociali delle teorie economiche, sintomo di un sostanziale superamento – o, quanto meno, della messa in discussione – dell’idea che il prevalere delle regole del libero mercato costituisca la chiave di volta del benessere collettivo. L’elenco è lungo e include nomi come Amartya Sen, Joseph Stiglitz, Paul Krugman e Angus Deaton.
Con la crisi, si è imposto un ripensamento radicale del rapporto tra crescita e tutela del lavoro, se solo si pensa agli studi sull’evoluzione del capitale condotti da Thomas Piketty, che mostrano come la crescita possa essere inibita dalle diseguaglianze[74]. In altri casi, l’analisi del rapporto tra crescita e progresso sociale è stata commissionata dalle istituzioni, anche di stampo conservatore[75].
Non si tratta, poi, di orientamenti confinati al contesto europeo (che, si sa, è storicamente influenzato dalla matrice dell’economia sociale di mercato), data la serrata critica alle derive del “supercapitalismo” che ci ha proposto – sempre in questi ultimi dieci anni – Robert Reich[76], oltre ai contributi, per la verità fondamentali, di Joseph Stiglitz[77].
Acquista, in altre parole, sempre più credito l’invito a liberarsi, in una logica autopoietica, da una visione mercantilistica della regolazione dei rapporti di produzione, per spingere, al contrario, verso politiche in grado di favorire una migliore redistribuzione del reddito, da cui è possibile inferire effetti positivi per la crescita[78].
Ora, al di là dell’influenza che può avere avuto il cambiamento di approccio del mainstream economico, è il rapporto tra efficienza e redistribuzione che sembra essere stato finalmente preso sul serio. Gli aspetti redistributivi, che includono – per riportare il discorso sul piano dei valori/principi – il diritto a un salario in grado di garantire la dignità e la libertà della persona, la dimensione collettiva del lavoro, il contrasto alle diseguaglianze e l’accesso al lavoro (inteso come promozione dell’occupazione e argine alle forme estreme di precarietà), sono, in ultimo, elementi necessari al benessere complessivo del sistema economico.
È probabilmente a questo più ampio flusso di riflessioni, che ha pervaso le scienze sociali negli ultimi anni, che è possibile ascrivere il cambiamento di prospettiva ravvisabile nel recente diritto del lavoro. Nonostante sia possibile registrare un cambio di direzione del vento, è tuttavia certamente troppo presto per verificarne l’intensità e, soprattutto, la capacità di incidere in maniera sostanziale sulle grandi questioni connesse ai valori/principi in gioco[79]. Se, in altre parole, sia possibile ripensare nella materia del lavoro tutto il discorso sul bilanciamento tra i principi, riabilitando quell’idea di gerarchia dei valori[80] che a un certo punto era apparsa in contrasto con il carattere pluralistico della società e, in ultimo, del diritto che ne forgia le regole.
[1] Il riferimento è al classico G. Tarello, Teorie e ideologie del diritto sindacale, Edizioni di comunità, Milano, 1972.
[2] Mi riferisco in particolare al contributo, nella dottrina spagnola, di C. Palomeque Lopez, Derecho del trabajo y ideologia, Tecnos, Madrid, 1982.
[3] Per queste riflessioni, si rinvia a L. Corazza e R. Romei, Introduzione, in Id. (a cura di), Diritto del lavoro in trasformazione, Il Mulino, Bologna, 2014.
[4] Ripercorre l’iter di formazione della riforma Fornero T. Treu, Flessibilità e tutele nella riforma del lavoro, in Dir. lav. rel. ind., n. 1/2013, pp. 1 ss.
[5] La prospettiva adottata assomiglia alla tecnica francese della “securizzazione” delle scelte del datore di lavoro, su cui vds. F. Martelloni, Securizzazione delle scelte datoriali, in M. Pedrazzoli (a cura di), Lessico giuslavoristico 2. Impresa, Bononia University Press, Bologna, 2010, p. 131.
[6] Vds. per tutti M. D’Antona, La reintegrazione del posto di lavoro, Cedam, Padova, 1979; M. Napoli, La stabilità reale del rapporto di lavoro, Franco Angeli, Milano, 1979.
[7] Mi riferisco alla relazione di Gisella De Simone all’ultimo convegno AIDLaSS (Udine, 13-14 giugno 2019): La dignità del lavoro tra legge e contratto, www.aidlass.it/giornate-di-studio-aidlass-2019-relazione-prof-ssa-gisella-de-simone.
[8] C. Schmitt, La tirannia dei valori, Adelphi, Milano, 2009 (1967).
[9] Vds., ad esempio, L. Nogler, La disciplina dei licenziamenti individuali all’epoca del bilanciamento tra “principi” costituzionali, in Dir. lav. rel. ind., 2007, p. 611.
[10] Vds. per tutti, per il diritto del lavoro italiano, P. Grossi, La grande avventura giuslavoristica, in Riv. it. dir. lav., n. 1/2009, p. 4; nella prospettiva della “global labour history”, C.G. De Vito, Global labour history. La storia del lavoro al tempo della «globalizzazione», Ombre corte, Verona, 2012.
[11] Il riferimento è, ovviamente, a G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1991.
[12] Vds., ad esempio, R. Bin, Diritto e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Giuffrè, Milano, 1992.
[13] Si rinvia sul punto a M. D’Antona, L’anomalia post-positivista del diritto del lavoro e la questione del metodo, in Riv. giur. lav, n. 3/2009, p. 401 (già in Riv. crit. dir. priv., 1990, p. 207).
[14] Vds., ad esempio, M. Persiani, Diritto del lavoro e autorità dal punto di vista giuridico, in Argomenti di diritto del lavoro, n. 1/2000, p. 1.
[15] Per questo dibattito, si rinvia agli interventi di Maria Vittoria Ballestrero, Bruno Caruso, Antonio Padoa Schioppa, Lorenzo Zoppoli, Luisa Corazza e Michele Salvati, disponibili online sul sito www.pietroichino.it.
[16] Vds. soprattutto lo scritto di A. Ichino e P. Ichino, A chi serve il diritto del lavoro, in Riv. it. dir. lav., n. 1/1994, p. 1 e il volume di P. Ichino, Il lavoro e il mercato,Mondadori, Milano, 1996.
[17] Assegna al discorso sui valori un significato quasi “pre-moderno” G. Zagrebelsky, Il diritto mite, op. cit.
[18] F. Sorrentino, I principi generali dell’ordinamento giuridico nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto, in Dir. società, 1987, p. 181.
[19] C. Mortati, Articolo 1, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Zanichelli-Il Foro italiano, Bologna-Roma, 1975.
[20] Su cui vds. M. Luciani, La produzione della ricchezza nazionale,in M. Ruotolo (a cura di), La Costituzione ha 60 anni: la qualità della vita sessant’anni dopo,Editoriale Scientifica, Napoli, 2008, p. 299. (in Costituzionalismo.it, Quaderno n. 1, www.costituzionalismo.it/articoli/267/).
[21] L. Nogler, Cosa significa che l’Italia è una Repubblica "fondata sul lavoro"?, in Lav. dir., n. 3/2009, p. 427.
[22] Nell’ultimo ventennio, i salari italiani sono rimasti sostanzialmente invariati a fronte di un loro aumento in Francia, Germania e Spagna. Vds., ad esempio, l’ultimo rapporto dell’Osservatorio JobPricing Retribuzioni sostenibili? Livelli di crescita e distribuzione dei salari in Italia, redatto in occasione degli Stati generali del mondo del lavoro, Torino, 25-28 settembre 2019, www.jobpricing.it/blog/project/retribuzioni-sostenibili/.
[23] I dati di questo fenomeno, pur monitorato da Istat ed Eurostat, sono difficili da fotografare nella dimensione reale, poiché molti italiani che vivono all’estero non cancellano, almeno nei primi anni, la loro residenza italiana.
[24] Vds. M. Fana, Non è lavoro, è sfruttamento, Laterza, Bari-Roma, 2017.
[25] Si pensi alle tutele che erano state introdotte dalla l. n. 92/2012 sul compenso del lavoratore a progetto.
[26] Su cui vds., per un primo commento, F.S. Giordano, Le nuove tutele per il lavoratori della Gig Economy, in Encicl. Treccani online, www.treccani.it/magazine/diritto/approfondimenti/diritto_del_lavoro/Le_nuove_tutele_per_i_lavoratori_della_gig_economy.html.
[27] Vds. S. Bologna e A. Fumagalli, Lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia,Feltrinelli, Milano 1997; D. Banfi e S. Bologna, Vita da freelance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro, Feltrinelli, Milano, 2011.
[28] M. Paci, Mercato del lavoro e classi sociali, Il Mulino, Bologna, 1973.
[29] Vds., ad esempio, il n. 2/2019 della Rivista giuridica del lavoro interamente dedicato alla questione salariale, con contributi di M.V. Ballestrero, A. Lassandari, E. Brancaccio e R. Giammetti, L. Lazzeroni, G. Centamore e M. Novella.
[30] In particolare, vds. il ddl n. 658/2018 di iniziativa dei senatori Catalfo, Matrisciano, Patuanelli, Nocerino, Guidolin, Bogo Deledda, Auddino e Campagna.
[31] Vds. G. Olini, I contratti nazionali: quanti sono e perché crescono, in Dir. lav. rel. ind., n. 3/2016, p. 417.
[32] Sul tema vds. P. Pascucci, Giusta retribuzione e contratti di lavoro. Verso un salario minimo legale?, Franco Angeli, Milano, 2018.
[33] Su cui, fra i tanti, V. Torre, Il diritto penale e la filiera dello sfruttamento, in Dir. lav. rel. ind., n. 2/2018, p. 289.
[34] Vds. l. n. 128/2019.
[35] Vds., ad esempio, M.A. Dujarier, Il lavoro del consumatore, Egea, Milano, 2008.
[36] Sul rapporto tra retribuzione e previdenza vds., da ultimo, A. Tursi, Retribuzione, previdenza, welfare: nuove variazioni sul tema, in Dir. lav. rel. ind., n. 1/2019, p. 95.
[37] C. Saraceno, Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Feltrinelli, Milano, 2015.
[38] M. Alberti, Senza Lavoro. La disoccupazione in Italia dall’Unità a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2016.
[39] Su questo percorso, vds. G. Bronzini, Il reddito di cittadinanza. Una proposta per l’Italia e per l’Europa, Edizioni Gruppo Abele, Roma, 2011.
[40] Sul tema vds. F. Liso, Il diritto al lavoro, in Dir. lav. rel. ind., n. 1/2009, p. 139; L. Corazza, Il principio di condizionalità (al tempo della crisi), ivi., n. 3/2013, p. 489; da ultimo, L. Taschini, I diritti sociali al tempo della condizionalità, Giappichelli, Torino, 2019.
[41] Vds, ad esempio, le questioni affrontate da M. Freedland e N. Countouris, Diritti e doveri nel rapporto tra disoccupati e servizi per l’impiego in Europa, in Dir. lav. rel. ind., n. 4/2005, p. 557.
[42] M. Pedrazzoli, Assiologia del lavoro e fondamento della Repubblica: il lavoro è una "formazione sociale"?, in Quad. cost., n. 4/2011, p. 969.
[43] Vds. P. Donati, Introduzione alla sociologia relazionale, Franco Angeli, Milano, 2002.
[44] M. Naldini e C. Saraceno,Conciliare famiglia e lavoro. Vecchi e nuovi patti tra sessi e generazioni, Il Mulino, Bologna, 2011.
[45] Vds., in merito alla recente presa di posizione della Corte costituzionale tedesca sulle riforme, Hartz IV: German court slaps down harshest sanctions against jobseekers, The Local, 5 novembre 2019, www.thelocal.de/20191105/cutting-benefits-to-uncooperative-welfare-recipients-partially-illegal/amp.
[46] Per una recente ricostruzione, vds. G. Ferraro, Teorie e cronache del diritto sindacale e autorità del punto di vista giuridico, in Arg. dir. lav., n. 1/2016, p. 16.
[47] Vds. per tutti F. Santoro Passarelli, Autonomia collettiva, giurisdizione, diritto di sciopero, in Id. (a cura di), Saggi di diritto civile, vol. I, Jovene, Napoli, 1961, p. 177.
[48] Vds. D. Carrieri e P. Feltrin, Al bivio. Lavoro, sindacato e rappresentanza nell’Italia d’oggi, Donzelli, Roma, 2016.
[49] L’espressione è di G. Baglioni, L’accerchiamento, Il Mulino, Bologna, 2008.
[50] Non è possibile non richiamare, sul punto, la felice espressione di V.B. Manghi, Declinare crescendo: note critiche dall’interno del sindacato,Il Mulino, Bologna, 1977.
[51] B. Caruso, La rappresentanza delle organizzazioni di interessi tra disintermediazione ere-intermediazione, in Arg. dir. lav.,n. 3/2017, p. 555.
[52] M. Pedrazzoli, Il regolamento unilaterale dei rapporti di lavoro: solo un reperto archeologico?, «Centre for the Study of European Labour Law» (CSDLE) “Massimo D’Antona”, working paper n. 149/2012.
[53] L. Corazza, La rappresentatività rivisitata: Il caso dello sciopero, in Dir. lav. rel. ind., n. 3/2018, p. 645.
[54] M. Barbera, Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro, Giuffrè, Milano, 1991.
[55] J. Cruz Villalón, Lo sviluppo della tutela antidiscriminatoria nel diritto comunitario, in Dir. lav. rel. ind., n. 3-4/2003, p. 84.
[56] D. Izzi, Eguaglianza e differenze nel rapporto di lavoro, Jovene, Napoli, 2005.
[57] M. Barbera, Donne in quota. È giusto riservare posti alle donne nel lavoro e nella politica?, Feltrinelli, Milano, 1999; B. Pezzini, Il riequilibrio di genere nella legislazione elettorale, in R. D’Alimonte e C. Fusaro (a cura di), La legislazione elettorale italiana. Come migliorarla e perché, Il Mulino, Bologna, 2008.
[58] M. Barbera, Eguaglianza e differenza nella nuova stagione del diritto antidiscriminatorio comunitario, in Dir. lav. rel. ind., n. 3-4/2003, p. 99.
[59] Vds. M. Barbera (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Giuffrè, Milano, 2007.
[60] Vds. M.T. Ambrosio, Discriminazioni razziali ed etniche nelle aule di giustizia: le questioni aperte, in Etica ed economia, menabò n. 69, 17 settembre 2017, www.eticaeconomia.it/discriminazioni-razziali-ed-etniche-nelle-aule-di-giustizia-le-questioni-aperte/.
[61] F. Marinelli, Il licenziamento discriminatorio e per motivo illecito, Giuffrè, Milano, 2017.
[62] W. Chiaromonte, Lavoro e diritti sociali degli stranieri. Il governo delle migrazioni economiche in Italia e in Europa, Giappichelli, Torino, 2013.
[63] Vds. C. Alessi, Il principio di non discriminazione nei rapporti di lavoro atipici: spunti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, in O. Bonardi (a cura di), Eguaglianza e divieti di discriminazione nell’era del diritto del lavoro derogabile, Ediesse, Roma, 2017.
[64] Vds., ad esempio, W. Chiaromonte, Ideologia e tecnica della disciplina sovranista dell’immigrazione. Protezione internazionale, accoglienza e lavoro dopo il “decreto Salvini”, in Dir. lav. rel. ind., n. 2/2019, p. 321.
[65] M. D’Antona, Il diritto al lavoro nella Costituzione e nell’ordinamento comunitario, in Riv. giur. lav., supplemento al n. 3/1999 (Aa.Vv., Atti del convegno di studi per il 50° anno della Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale), p. 15.
[66] Sviluppato, in particolare, nello scritto di A. Ichino e P. Ichino, A chi serve il diritto del lavoro, op. cit.
[67] Per un riepilogo, vds. M. Corti, Flessibilità e sicurezza dopo il Jobs Act. La flexicurity italiana nell’ordinamento multilivello, Giappichelli, Torino, 2018.
[68] L. Valente, La riforma dei servizi del mercato del lavoro, Giuffrè, Milano, 2016.
[69] V. Taschini, I diritti sociali al tempo della condizionalità, op. cit.
[70] T. Boeri e P. Garibaldi, Un nuovo contratto per tutti, Feltrinelli, Milano, 2008.
[71] M.P. Aimo, Il lavoro a termine tra modello europeo e regole nazionali, Giappichelli, Torino, 2017.
[72] Corte cost., 9 novembre 2018, n. 194.
[73] Corte appello Torino, 4 febbraio 2019, n. 26.
[74] T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2017 (1° edizione francese: 2013).
[75] Vds. il lavoro del gruppo di alti esperti dell’Ocse, Report by the Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress, 2009, https://ec.europa.eu/eurostat/documents/118025/118123/Fitoussi+Commission+report.
[76] R.B. Reich, Supercapitalismo. Come cambia l’economia globale e i rischi per la democrazia, Fazi, Roma, 2008.
[77] Vds., tra i tanti contributi, J.E. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro,Einaudi, Torino, 2014 (seconda edizione).
[78] Vds. anche la dichiarazione della Business Roundtable, associazione della “Corporate America”, del 19 agosto 2019, www.businessroundtable.org/business-roundtable-redefines-the-purpose-of-a-corporation-to-promote-an-economy-that-serves-all-americans.
[79] Vds., ad esempio, per una lettura contraria, R. Del Punta, Valori del diritto del lavoro ed economia di mercato, «Centre for the Study of European Labour Law» (CSDLE) “Massimo D’Antona”, working paper n. 395/2019.
[80] Ribadisce l’importanza di un inquadramento gerarchico dei principi costituzionali in materia di lavoro M. Luciani, Diritto di sciopero, forma di Stato e forma di governo, in Arg. dir. lav., n. 1/2009, p. 15.