Magistratura democratica

Introduzione.
Il valore del lavoro

di Rita Sanlorenzo e Giovanni Armone

A pochi anni di distanza dall’approvazione del Jobs Act e dall’Obiettivo che Questione giustizia tempestivamente vi dedicò, è tempo di svolgere una nuova riflessione sulle attuali tendenze del diritto del lavoro.

Dopo una lunga stagione che ha visto la progressiva erosione delle tutele e delle garanzie in cui si erano tradotti, sul piano legislativo e interpretativo, i presidi costituzionali che postulavano la stessa dignità del lavoro, si avvertono positivi segnali di una necessaria (anche se ancora insufficiente) inversione di tendenza.

Si tratta di segnali provenienti sia dal legislatore, che ha posto in essere alcuni interventi appropriati e innovativi (si pensi alle nuove forme di tutela dei lavoratori autonomi “deboli” del d.lgs n. 81/2017, ai pur timidi interventi del cd. “decreto dignità”, al controverso reddito di cittadinanza e, infine, alla recente legislazione sui “riders”), sia dal formante giurisprudenziale.

A quest’ultimo proposito, non può non essere menzionata la nota sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018, che, nel temperare le rigidità della disciplina sulle tutele crescenti, ha attribuito dignità costituzionale, oltre che alla Carta di Nizza, a un documento sinora poco considerato come la Carta sociale europea. Ma il pensiero corre anche alla recentissima decisione n. 1663 del 2020 della Cassazione sui riders e alle ordinanze di rinvio alla Corte costituzionale e alla Corte di giustizia da parte dei giudici di merito, nel tentativo di scalfire ulteriormente l’edificio del Jobs Act

Le considerazioni sulle traiettorie del diritto del lavoro non possono tuttavia limitarsi a un bilancio di quell’esperienza, ma devono piuttosto allargarsi a considerazioni di più ampio respiro, che, sempre nella cornice costituzionale, guardino al lavoro non soltanto nell’ottica delle riforme legislative e delle ricadute giurisprudenziali, ma anche e soprattutto in quella delle mutazioni che il lavoro conosce nella realtà sociale e delle conseguenze che tali mutazioni, a loro volta, determinano a carico della persona.

A dispetto delle sue aspirazioni modernizzatrici, il pacchetto di riforme avviato dalla l. n. 183/2014, e declinato dallo sciame di decreti attuativi che ne è seguito, ha continuato a inquadrare il lavoro in una dimensione tradizionale. E anche le pronunce giurisprudenziali che si sono menzionate, pur lodevoli nel loro tentativo di contenere l’erosione dei diritti e delle tutele in danno di vecchi e nuovi svantaggiati, restano inevitabilmente in questa dimensione.

L’impressione è, invece, che a essere profondamente mutata sia la stessa idea di rapporto che lega la persona alla necessità di procurarsi un reddito capace di garantire un’esistenza libera e dignitosa, che il discorso sul lavoro debba essere sempre più legato alla cittadinanza sociale, nella consapevolezza però che anche quest’ultima ha visto radicalmente mutare i suoi connotati.

È così necessario anzitutto tener conto degli sviluppi del dibattito teorico, in cui sembrano aver ritrovato voce coloro che invitano a diffidare della pura logica mercantilistica, non già per puntare verso una decrescita più o meno felice, ma, al contrario, per stimolare politiche di redistribuzione del reddito, in grado esse di influire positivamente sulla crescita.

Reddito di cittadinanza dunque, e per altro verso salario minimo legale, come istituti in grado di operare positivamente un necessario processo redistributivo, stante il progressivo vertiginoso aumento delle diseguaglianze nella scala della ricchezza dell’individuo: temi intorno ai quali fioriscono gli scontri polemici, ma che non possono più essere ignorati nel quadro dei nuovi assetti delle tutele, che devono necessariamente adeguarsi alla discontinuità e alla precarietà diffusa del lavoro, e alla impraticabilità di una generalizzata applicazione delle tabelle salariali contrattuali.

Ma lo sguardo deve ulteriormente allargarsi ad altre discipline e ad altre questioni politico-sociali di pari urgenza.

Lavoro e immigrazione, ad esempio, sono due tematiche oggetto di costante attenzione da parte della riflessione progressista. Le tutele che, in ciascuno dei due mondi, si vogliono apprestare contro le forme di sfruttamento che li caratterizzano non possono, però, prescindere dalla considerazione che si tratta di due mondi tra loro strettamente collegati, in cui è facile l’innesco di pericolose spirali co-involutive. I contributi contenuti in questo Obiettivo si propongono dunque di esplorare le modalità con cui gli immigrati sono costretti a confrontarsi con il mondo del lavoro, a partire dal fenomeno criminale del caporalato, per risalire poi lungo il percorso, non meno irto di ostacoli, dell’accesso al lavoro ordinario, vuoi da parte degli immigrati regolarizzati, vuoi da parte dei richiedenti asilo.

La sconfortante constatazione che nessun Paese aderente all’Unione europea abbia ratificato la Convenzione Onu sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie del 1990, e che la ratifica del Protocollo n. 29 del 2014 relativo alla Convenzione sul lavoro forzato Oil da parte dell’Italia sia sospesa, dovrebbe essere sufficiente a fotografare la gravità della situazione.

Né una ricognizione che voglia tenere conto delle linee prospettiche può ignorare la dimensione sovranazionale dello sforzo volto a trovare regole comuni fra Stati europei, in grado di conciliare la “latente tensione” tra l’obiettivo di individuare più efficaci strumenti di contrasto alle diseguaglianze economiche, attraverso il contenimento del dumping sociale che deriva dalla libera circolazione dei lavoratori, e i principi posti dal Trattato a presidio del funzionamento del mercato interno secondo un criterio di libera concorrenza. Le ultime direttive risentono della preclusione di regolare il distacco transnazionale in base al principio della “parità di salario a parità di lavoro”: dunque, “un certo grado” di dumping sociale vale e opera come strumento concorrenziale all’interno dell’Unione. Può immaginarsi un ruolo dell’interprete nel risolvere, o almeno razionalizzare, questa palese ambivalenza?

Su un altro versante, solo apparentemente meno esacerbato, vi è poi il critico rapporto tra lavoro e consumo. Lavoratore e consumatore, tradizionalmente contrapposti nella lettura di chi vedeva nel secondo lo sfruttatore inconsapevole del primo, si sono improvvisamente trovati dallo stesso lato della barricata, se non addirittura identificati nella stessa persona. Il problema è dunque diventato quello del cittadino-consumatore-lavoratore, che alimenta, con il suo lavoro senza confini temporali e i suoi dati personali costantemente svenduti, un circolo che con grande difficoltà può essere considerato “virtuoso”.

L’autorevole contributo che sul tema l’Obiettivo propone, vuole tuttavia orientare il dibattito in una dimensione di non ingenuo ottimismo, che usa parole antiche e familiari, come “mobilitazione”, “crescita”, “equa distribuzione”, a servizio delle nuove sfide che l’evoluzione tecnologica propone.

Vi è poi la trappola del lavoro pubblico, in cui i valori costituzionali del lavoro e della persona entrano in potenziale conflitto con altri princìpi di rilievo, come il contenimento della spesa pubblica, la lotta al clientelismo e alle corruttele che ne derivano, la valorizzazione dell’efficienza e della trasparenza della pubblica amministrazione.

Al centro di tale conflitto viene a collocarsi il lavoratore del pubblico impiego, il quale assiste, impotente, alla monetizzazione dell’abuso di precariato, alle forti limitazioni all’accesso, alle costanti polemiche sulla questione economica.

A ciò si aggiunge l’aprirsi di un ulteriore fronte, nel quale si ha l’ennesima dimostrazione della impossibilità di affrontare le tematiche lavoristiche senza vederne le interconnessioni con altri beni costituzionali primari.

Il riferimento è al lavoro pubblico scolastico, che, all’esito di una stagione già di per sé molto tormentata, vissuta tutta sul filo dei rinvii incrociati tra giudici nazionali, Corte di giustizia e legislazione sulla cd. “buona scuola”, rischia di essere gettato nel vortice delle riforme costituzionali.

I progetti di riforma sul regionalismo differenziato coinvolgono, infatti, anche il rapporto di lavoro degli insegnanti e il loro reclutamento. Quello che si profila all’orizzonte è un massiccio decentramento di competenze, che appare però del tutto disinteressato alle strette implicazioni tra lavoro scolastico e istruzione, al ruolo di “organo costituzionale” che la scuola dovrebbe mantenere, secondo la felice espressione di Piero Calamandrei.